I giorni di moda maschile a Milano ci hanno riservato pochi – ma buoni – show, alcune interessanti presentazioni e molti dubbi sul futuro della manifestazione.
Nelle tante conversazioni tra colleghi che si possono avere durante i giorni in cui la moda è a Milano, si finisce a dirsi sempre le stesse cose. Che il calendario, in particolare quello delle sfilate maschili che dal 20 al 24 giugno si sono tenute in città, è drammaticamente scarico (all’appello mancano Gucci, Fendi, J.W. Anderson, Zegna e Jordanluca tra gli altri), che i marchi di nuova generazione non li andrà a vedere nessuno, perché sempre più giornalisti e buyer hanno scelto di saltare a piè pari Milano per andare direttamente a Parigi, che siamo tutti qui a parlare di vestiti mentre il mondo scoppia un’altra guerra. A febbraio del 2022, quando la Russia attaccava l’Ucraina, avevo intitolato il pezzo sulle sfilate “La surreale settimana della moda di Milano”, perché la notizia del conflitto era arrivata all’improvviso e non c’era stata una risposta univoca, né dalle istituzioni né dai marchi. A Parigi, quella stessa stagione, all’inizio della sfilata di Balenciaga, Demna avrebbe letto il messaggio di resistenza del poeta ucraino Oleksandr Oles, in uno show che parlava anche di cambiamento climatico e crisi dei rifugiati. In quel momento storico ci chiedevamo se, e come, la moda potesse parlare di quello che stava succedendo nel mondo, cosa comportava l’esporsi dei direttori creativi e dei marchi che rappresentavano, quanto infine ci fosse di utile – e di genuino – nella cassa di risonanza delle sfilate a fronte delle tragedie che affollano la nostra quotidianità e che scrolliamo tra un contenuto social e l’altro. A distanza di tre anni, la moda non vuole più parlare di quello che succede nel mondo, anzi il mondo lo rifugge, perché l’era del marketing dei valori è finita e quello che rimane sono, beh, i vestiti.
La prima volta senza Giorgio Armani, la seconda volta in passerella di Setchu, i pigiami di Dolce&Gabbana
Una cosa, quest’ultima, che ha decisamente senso dopo un decennio di dominio dello storytelling, considerando anche come gli espedienti da passerella per inseguire la viralità o incitare il “discorso” online avessero iniziato a sembrare sempre più forzati, quando non oltraggiosi (come nel caso dello show di PDF, che ricostruiva una prigione e che ha causato reazioni non esattamente positive). Quello che rimane, però, è una sorta di abdicazione quasi totale al contenuto, come dimostra lo striminzito weekend lungo di sfilate maschili a Milano. Sarà che i tempi sono difficili, e il mercato incerto, ma dopo aver urlato per anni, ora la moda sembra più un rumore di sottofondo: scompare nei nostri feed e fatica a catturare l’attenzione, forse perché ci si è resi conto che non è quella dei social l’attenzione di cui l’industria ha bisogno. Una notizia che è uscita dalla bolla è sicuramente quella dell’assenza di Giorgio Armani a chiusura delle sue sfilate: per la prima volta in cinquant’anni dalla fondazione della sua azienda, lo stilista non è infatti uscito a salutare il pubblico dopo gli show di Emporio Armani e Giorgio Armani, cosa che ha fatto invece Leo Dell’Orco, il quale già dal 2021 è stato indicato dal signor Armani come il suo braccio destro sulle collezioni maschili. Armani, che a luglio festeggerà i suoi novantuno anni, è rimasto a casa come misura cautelare dopo una recente degenza, ma la sua presenza era tangibile in entrambi gli show. Da Emporio, dove la collezione riprendeva l’amore per il viaggio e gli stilemi di alcune culture africane, e da Giorgio, dove invece si incontravano elementi sartoriali di tradizioni diverse, dal classico completo formale all’europea a quello cinese, la scioltezza dell’eleganza armaniana rimane inconfondibile, così come la capacità del marchio – uno di quelli che non ha mai avuto bisogno di urlare – di rimanere fedele a sé stesso.

Emporio Armani Primavera Estate 2026. Ph. courtesy of Emporio Armani

Giorgio Armani Primavera Estate 2026. Ph. courtesy of Giorgio Armani
Anche Satoshi Kuwata, alla sua seconda volta in passerella dopo il debutto a Pitti dello scorso gennaio, lavora sull’intersezione delle culture: la collezione per la Primavera Estate 2026 è ispirata a un viaggio alle Cascate Vittoria in Zimbabwe, dove il designer ha avuto l’opportunità di creare oggetti in palma intrecciati dalle tribù locali, di immergersi nella natura e di andare a pesca del pesce tigre, considerato un pesce trofeo per i pescatori locali (Kuwata è un grande appassionato di pesca). La collezione è stata realizzata in collaborazione con LVMH Métiers d’Art, che sostiene l’artigianato locale attraverso iniziative come la Jafuta Foundation e Batoka Creatives. Anche da Dolce&Gabbana c’era una certa rilassatezza, visto che il protagonista della collezione era il pigiama, come quello presentato da Domenico e Stefano già negli anni Novanta, e qui rivisto in chiave Generazione Z con boxer a vista.

Prada Primavera Estate 2026. Ph. courtesy of Prada
La collezione “facile” di Prada e il corto di Magliano diretto da Thomas Hardiman
Dopo due collezioni “pesanti” dal punto di vista del significato – quella del ritorno al primordiale di gennaio per l’uomo e quella sulla femminilità radicale di febbraio – Miuccia Prada e Raf Simons hanno parlato di «un cambio di atteggiamento», che dava anche il titolo alla collezione che lo stesso Simons ha definito «una delle più facili a cui abbia mai lavorato». Per la prima volta, gli spazi del Deposito della Fondazione Prada erano nudi, il set minimale (fatta eccezione per le margheritone-tappeto che rimandavano alla Primavera Estate 2013), l’ambiente invaso dalla luce naturale di un giugno assolatissimo. La collezione si apriva con dei pantaloncini che, come ha scritto Samuel Hine di Gq Us nella sua newsletter Show Notes, erano praticamente delle mutande, e chi se la sentirebbe di uscire in mutande? La sfacciata (non) lunghezza degli short è però una chiara provocazione, tanto più se accostata al paesaggio sonoro di Clara 3000 e dei KLF, che aggiungeva un ulteriore strato bizzarro all’atmosfera dello show, con le sue sonorità bucoliche, i rimandi a un Elvis polveroso e all’amenità della natura dove non c’è l’intervento dell’uomo. A modo loro, i due designer hanno espresso la difficoltà di questo momento: facciamo vestiti, ma i vestiti ora come ora non contano nulla – «Basta leggere i titoli dei giornali», ha detto sempre Simons – ma possono essere anche un rifugio sicuro, una dolce Madeleine dell’infanzia, qualcosa di semplice da prendere dall’armadio ogni giorno. Ci prendono in giro o ci restituiscono esattamente quello che chiediamo nell’epoca del deficit dell’attenzione e dell’ipernormalizzazione?

Screenshot da Maglianic, diretto da Thomas Hardiman
Da Magliano, invece, hanno deciso che la soluzione giusta era fare un film e abbandonare, almeno temporaneamente, la formula della sfilata. Al Cinema Centrale di via Torino è stato infatti presentato Maglianic, un corto ambientato su un traghetto Grimaldi in navigazione da Livorno a Olbia e diretto da Thomas Hardiman, regista inglese autore di Medusa Deluxe, film che Luca Magliano ha amato molto e che, gli sembrava, parlasse la stessa lingua del suo marchio. Da sinossi, Medusa Deluxe è «un thriller ambientato durante una competizione tra parrucchieri» (le acconciature sono infatti di Eugene Soulemain, leggendario hair stylist) e non è difficile intuire perché Hardiman e Magliano si siano capiti abbastanza in fretta e del perché Maglianic, in sette minuti, riesca a mantenere l’ironia, lo sguardo sul mondo e il carattere che rende speciali entrambi. Al netto della difficoltà di realizzare un progetto del genere – che non sono state poche, come ha raccontato lo stesso Magliano dopo la proiezione per la stampa – è un esperimento interessantissimo per molti motivi: perché permette al brand di uscire dal suo circuito di riferimento e confrontarsi con altri punti di vista, perché dà un vero significato al termine abusato del “fashion film”, perché permette di allargare un universo estetico, dimostrandosi duttile e stratificato come i personaggi che si muovono su questa nave sospesa nel tempo del mare (menzione d’onore al cast, tra cui le splendide Cori Amenta e Camille B. Waddington). Non è facile avere qualcosa da dire oggi, e da Magliano sanno farlo, basterebbe ascoltare.
In apertura: finale da Prada. Ph. courtesy of Prada.

I Guest Designer di questa edizione – Homme Plissé Issey Miyake, Niccolò Pasqualetti e Post Archive Faction – sono tre diversi esempi di come oggi i marchi, sia quelli con un heritage alle spalle che quelli di nuova generazione, provano a raccontarsi in un panorama sempre più difficile.