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La nuova vecchia moda a Milano

I pochi giorni di collezioni maschili hanno riportato in passerella un’idea di eleganza morbida e quotidiana, quasi un rifugio in tempi difficili.

di Silvia Schirinzi

In un articolo dello scorso ottobre sul New Yorker, Kyle Chayka si chiedeva perché internet non è più “divertente” come una volta, uno spunto di riflessione che anticipava il tema del suo libro appena uscito in America dal titolo Filterworld. How Algorithms Flattened Culture (Penguin Random House). In uno degli ultimi episodi del podcast di Ezra Klein, Chayka ha discusso con il giornalista del New York Times di stile personale, ispirazioni e “taste maker”, come si chiamano gli arbitri del gusto che nel tempo hanno definito mode e direzioni culturali e come questi siano progressivamente collassati nel mare infinito di internet, e soprattutto dell’internet degli ultimi anni, dove l’algoritmo che standardizza e uniforma la fa da padrone. Per esemplificare la sua tesi, Chayka fa un esempio azzeccato: quello dei coffee shop, che ormai spuntano uguali a sé stessi a Tokyo come a Los Angeles, a Pechino come a Città del Messico, e sono in qualche modo il simbolo di un consumo globalizzato che non è solo gastronomico (anche i bar italiani hanno finalmente ceduto, almeno nelle grandi città, al latte d’avena) ma, appunto, culturale. Ci identifica e ci accomuna. È una tesi non certo nuova e sicuramente ha il suo fascino e il suo fondo di verità: gli algoritmi che regolano la nostra vita, i nostri consumi e attitudini sia online che nella vita reale, devono essere giustamente fonte di preoccupazione e analisi, tanto più in un momento in cui discutiamo accanitamente di sviluppi futuri dell’intelligenza artificiale.

Riguardando alle sfilate di questi pochi giorni di moda maschile a Milano ho pensato spesso a quell’articolo, e a quel podcast, e alle domande che poneva. La moda vive oggi un momento piuttosto singolare della sua storia, che si è acutizzato nel post Covid: come quei coffee shop (dei quali, lo ammetto, sono una grande fan), deve cercare pensieri e oggetti che provochino identificazione e senso di comunità e al contempo interpretare un gusto che già esiste, ed è ampio, cercando di non perdere le sue specificità. In molti hanno scritto di un ritorno al classico, e la notazione non è sbagliata: dopo l’ubriacatura da streetwear eY2K, sulle passerelle abbiamo visto tanti completi sartoriali, giacche eleganti e addirittura cravatte, ma anche creeper e creste punk più o meno cattive. Un mix che può sembrare delirante, a rileggerlo così, ma che in realtà racconta bene il lavoro di selezione – algoritmico, quasi – che è proprio della moda.

Alla sua seconda prova da direttore creativo di Gucci, Sabato De Sarno ha scelto di continuare nel solco tracciato con il debutto di settembre: stessa colonna sonora, con l’aggiunta di un pezzo che poneva domande sulla mascolinità (“Do I walk like a boy? Do I speak like a boy? Do I stand like a boy?”), stesso set minimalista e stessi capisaldi: il mocassino, qui appunto in versione creeper, la Jackie rossa, il cappotto prezioso, la cravatta sottile che è anche collana e sciarpa ed elemento di decoro a sé stante. La collezione ha dato solidità al racconto iniziato qualche mese fa ed è sembrata capace anche di esprimere una sensualità giocosa che è nelle corde della moda molto italiana di De Sarno: in particolare la serie di completi, quelli che si ripiegano sulle giunture del corpo (i gomiti e le ginocchia) e quelli che invece cadono fluidi, pongono le basi di un guardaroba lussuoso, che non invecchia e vuole intercettare quel cliente che oggi cerca capi staple, gli stessi che proprio il made in Italy ha sempre offerto al mondo. È singolare che questa collezione sia stata recepita molto positivamente rispetto a quella di debutto, sia online che dagli addetti ai lavori, e viene da chiedersi se è perché sulla donna riusciamo sempre ad accapigliarci di più o perché, semplicemente, la direzione è ora un po’ più più chiara. Intanto il rosso “Ancora” è il colore più copiato dal fast fashion, così come le sling-back e la Jackie: e allora repetita iuvant, soprattutto se bisogna conquistare l’algoritmo.

Gucci Fall Winter 2024. Photo courtesy of Gucci

Era dedicata al rapporto tra uomo e Natura la collezione di Prada, dove la scenografia realizzata da AMO contrapponeva gli interni di un ufficio a un paesaggio naturale. Sotto il pavimento a vetri (le sedute erano sedie da ufficio a cui erano state provvidenzialmente tolte le rotelle) scorreva l’acqua tra i sassi e il sottobosco (vero): l’effetto era vertiginoso, almeno all’inizio, e anche un po’ inquietante come l’ha definito la stessa signora Prada, non tanto per la facile sensazione di vuoto sotto ai piedi quanto perché rimandava, idealmente, al compromesso che l’uomo contemporaneo ha stretto con la Natura, di cui ha sempre bisogno ma che rinchiude in spazi sempre più angusti e ristretti. L’armonia con i cicli naturali si rispecchia per Miuccia Prada e Raf Simons in un’eleganza sovvertita con gentilezza, dove ai completi realizzati con i tessuti sartoriali italiani degli anni Cinquanta e Sessanta si contrappongono le cuffie da nuotatore, le borse si portano attaccate alla cintura, i long john cari a Simons diventano pantaloni che smorzano la classicità dei cappotti, i completi pigiama che sembrano di seta sono in realtà di nylon mentre le stringate sono rasoterra, come i sandali, per sottolineare la vicinanza al suolo, alla terra, e solo verso la fine vengono “montate” su una doppia suola. La collezione si conclude con i classici marinareschi rivisitati da Prada, un altro caposaldo del guardaroba maschile che qui ritorna in una versione più letteraria e non machista.

Il mare e i suoi uomini – marinai, mozzi, macchinisti, ufficiali – era il tema anche della bella collezione di Emporio Armani, che attraversa nelle ultime stagioni un momento particolarmente felice a conferma di come il signor Armani, che a luglio compirà novant’anni, sia una storia unica nella moda contemporanea. Il modo in cui Armani spoglia di ogni rigidità militaresca i topoi maschili e li ammorbidisce, il tocco con cui disegna completi, cappotti e giacche, manipolando tessuti e proporzioni, è il fulcro del ben vestire all’italiana, come ha confermato la sfilata di Giorgio Armani della scorsa domenica. Hanno continuato a lavorare sui codici del loro marchio anche da Dolce & Gabbana, la cui collezione nerissima ed elegantissima – intitolata non a caso “Sleek” – dimostra come un archivio possa ravvivarsi se lo si osserva con la giusta lontananza: non sappiamo se in futuro il duo ritornerà a un massimalismo di colori e stampe, ma l’equilibrio oggi raggiunto è di quelli che funzionano. Anche Silvia Venturini Fendi ha voluto guardare alla natura, e più nello specifico alla campagna inglese, riuscendo nel difficile compito di rinfrescare un immaginario polveroso puntellandolo di dettagli insoliti, come lo speaker portatile realizzato dal marchio francese Devialet e racchiuso in un astuccio Fendi color tabacco. Interessante anche il make-up, con un blush che ravvivava il viso di tutti i modelli simulando le gote rosse di quando si sta al vento freddo.

Ha raccontato invece di essere stato ispirato da una visione estiva di Eyes Wide Shut Jonathan Anderson, che con la collezione Autunno Inverno 2024 è ritornato a ricordarci il perché è uno degli autori più interessanti della sua generazione. Il classico di Kubrick è uno dei suoi film preferiti, che gli è capitato di rivedere fuori stagione in una caldissima giornata romana («Non sapevo cosa fare e così mi sono messo a riguardarlo», ha detto in conferenza stampa ai giornalisti) e proprio quel re-watch lo ha fatto concentrare su un personaggio spesso rimasto sullo sfondo: Christiane Kubrick, moglie del regista e sua collaboratrice fondamentale. Scoprire Christiane gli ha permesso di invertire la prospettiva sul film, di concentrarsi cioè su tutto ciò che fa da background (a cominciare dai dipinti da lei realizzati) e di portarlo al centro della scena. A Christiane è dedicato anche il documentario Who Is The Painter?, presentato in anteprima in collaborazione con Mubi Italia al Cinemino di Milano: oltre al film, sono i suoi dipinti e più in generale il suo stile mascolino l’inspirazione dietro alla collezione, che Anderson ha descritto come «la più sexy che abbia mai realizzato o, almeno, la più sexy nei miei termini». I modelli indossavano calze velate e abiti “tappezzeria” che ricordavano le tende rosse appese da Christiane nel film, mentre nei completi si alternavano velluto e raso, imbottiture e drappeggi, in una giustapposizione nervosa che richiamava bene la perversione che attraversa tutto Eyes Wide Shut. «Ho guardato al film come a un riferimento letterale ed è sempre un esercizio difficile perché non si può uscire da quei confini, ma allo stesso tempo mi piace giocare con le grandi idee del passato», ha aggiunto.

JW Anderson Fall Winter 2024. Photo courtesy of JW Anderson

Sono partiti dalla vulnerabilità del palloncino, invece, i Jordanluca, che hanno commissionato all’artista Dominic Myatt 1500 palloncini con stampate delle opere d’arte che hanno addobbato le stanze anguste del sottopasso della stazione centrale di Milano, dove si è tenuto lo show e la festa del marchio. L’idea era di trasmettere quel senso di precarietà, anche generazionale, che spesso sentiamo, ma anche la voglia di resisterle: come i personaggi che popolano la sfilata, la collezione è un mix di proposte sartoriali dove il classico è sempre disturbato da elementi che stonano, come l’abito bandage circolare realizzato con 37 metri di raso di viscosa sostenibile che accarezza il corpo e delinea le forme. Anche MSGM ha scelto una stazione, ma della metro: la linea rossa di Porta Venezia, inaugurata nel 1964 e realizzata dall’architetto e progettista Franco Albini, simbolo della città e del periodo d’oro del design italiano. Massimo Giorgetti ha ripreso i corrimani tubolari, simbolo della metropolitana milanese, trasformandoli in spille e intarsi sui cappotti. Ha scelto invece una presentazione intima Satoshi Kuwata, il designer di Setchu vincitore dell’ultimo LVMH Prize. Come sempre per Setchu sono i dettagli a fare la differenza, a cominciare dalla ricerca tessile, dallo smoking realizzato in cachemire lavabile in lavatrice fino al denim realizzato in carta e fibra proveniente dal riciclo della canna da zucchero, «virtualmente eterno». Kuwata ha anche introdotto le borse, dimostrando come non necessariamente bisogna fare tutto, subito e rumorosamente: il suo progetto è una boccata d’aria fresca e non vediamo l’ora di vederlo evolvere.

Non era per niente understated, invece, la prima volta di Stone Island alla settimana della moda: dopo l’azzeccatissima campagna con testimonial d’eccezione tra cui Jason Statham, il marchio fondato da Carlo Rivetti e oggi di proprietà di Moncler ha voluto infatti mettere in piedi un’installazione statica con le sue giacche-icona. A parte qualche malfunzionamento durante lo show, l’intento era chiaro: portare Stone Island fuori dalla nicchia dei connoisseur. Vanno segnalati anche due debutti, a partire da quello di Institution di Galib Gassanof, ex metà di Act N1, che ha lanciato il suo progetto personale, descritto come «un’organizzazione socio-artistica». Niente modelle ma solo capi appesi cosicché si possa apprezzare il lavoro di manifattura artigianale che c’è dietro, che Gassanof ha ripreso dalla sua comunità di origine, quella degli Azeri in Georgia, che al posto dei fili di lana utilizza lacci di cotone. Alcuni capi possono diventare anche oggetti d’arredamento: è un’idea interessante, in un momento in cui di idee ce ne sono poche. Hanno scelto Milano anche i designer cinesi di Pronounce, che hanno presentato una collezione ispirata al sogno della farfalla di Zhuangzi: il classico dilemma filosofico si risolve in una collezione divertente, che alterna i completi sartoriali a quelli a maglia dall’effetto morbidoso. A chiudere questo giro di sfilate, infine, c’è Zegna di Alessandro Sartori, maestro della sottrazione che però sa come raccontare il vero lusso.

In apertura: Prada Fall Winter 2024. Photo courtesy of Prada