Cultura | Letteratura

Michele Mari, una guida per orientarsi nel buio

Nella sua quarta raccolta di racconti, Le maestose rovine di Sferopoli, lo scrittore torna sui temi cari alle sue storie, dissotterrando fantasmi, paure e altri mostri.

di Marco Rossari

C’è uno scrittore che dal 1989 si prende cura delle nostre paure. A partire dall’esordio, via via attraverso una serie di romanzi e racconti che, rientrando in un canone che va da Landolfi al primo Calvino a Buzzati, passando per le Storie naturali di Primo Levi, ha dato forma a un’opera autonoma rispetto a ogni tendenza e impegno, a ogni moda editoriale e giornalistica, creando un mondo a sé stante che ci ha restituito, attraverso gli strumenti del linguaggio e dell’immaginazione, il piacere e il brivido della lettura che abbiamo vissuto da bambini, filtrati dall’erudizione – come un vetro smerigliato dietro cui si agiti la sagoma evanescente di un evento fantasma, ossia cosa voleva dire aprire un libro allora. Il piacere fisico che ho ricavato dalla lettura dei suoi libri è una delle pochissime emozioni paragonabili a quelle vissute nei momenti decisivi della crescita, i punti di svolta in cui un giro di parole – e accade ancora, appunto, ma sempre più di rado – ci illumina e illumina una nuova strada personale e letteraria. Niente e nessuno può riportarmi alla vigilia di Natale del 1987, quando ricevetti in dono It di Stephen King e a mezzanotte, dopo cena, mi coricai in un lettuccio a casa di mia nonna e lessi per la prima volta della barchetta. Nessuno, tranne Michele Mari, ultimo custode del mostruoso e del meraviglioso.

Penso, soprattutto, all’esordio – Di bestia in bestia, pubblicato da Longanesi e poi riscritto per Einaudi, vero e proprio scrigno che custodisce e prepara tutte le gemme a venire, tematizzando la rielaborazione dei classici con il viaggio fantastico, il doppio, il mostro segregato, ecc. –, a Io venìa pien d’angoscia a rimirarti, a La stiva e l’abisso, a Verderame, a Roderick Duddle e a Leggenda privata. Ogni libro è stato un gradino verso il buio della cantina, dove si trovavano in agguato sogni, ricordi, incantesimi, malìe che chiamavano per trovare una sovrastruttura – una casa (la casa sopra la cantina, come in un sublime horror dozzinale mai esistito) – nel doppio luminoso e altrettanto sinistro di una biblioteca e poi in quella fantasmagonia che sono le pagine di un libro. Mari ha seguito una strada ostinata, l’unica possibile, rintracciando affinità e parentele negli autori che amava, rifugiandosi in una sala di lettura come auto da fé, ossia atto di fede e rogo, ma anche riscatto, vendetta, pulsazione mefistofelica a rifarsi dalle disgrazie della vita, da ciò che sta sotto. Ossia la nascita, l’educazione, la famiglia, gli altri, la gabbia dell’essere, l’attrito della vita. E come unica fuga, evasione, risorsa e maledizione: la gioia della paura, la voluttà dell’orrore, il richiamo metafisico verso una realtà ulteriore. E quindi ritrovarsi di continuo in un paradosso, ossia in uno scacco supremo, quello di amare i demoni per provare ad amare sé stessi, e quindi farsi demone e fantasma e mostro.

O forse Michele Mari ha semplicemente lo shining. Vede e sente ciò che a noi è precluso. Pur sembrando uno scrittore perfezionista, in un’intervista raccontava quasi piccato di scrivere invece molto più di getto di quanto non si creda. E quindi mi piace credere che, come certi stolti visionari che abitano i suoi romanzi, Mari entri in trance e torni a comunicare con il corpus di opere che ha amato e interiorizzato e dalle quali ricava il piacere ultramimetico della possessione, declinando di volta in volta lo stesso tema in una forma e in una struttura diverse, moltiplicando i riflessi distorti dell’io, deformandosi e parcellizzandosi attraverso gli amatissimi Céline, Melville, Stevenson, London, Gadda e ritrovandosi intatto – come se transitasse per una di quelle pareti d’acqua nei film di fantascienza, che rispecchiano e tremolano – in un altrove familiare eppure ancora sconosciuto, ancora da conoscere, che è poi la letteratura.

Le maestose rovine di Sferopoli è la quarta raccolta di racconti pubblicata da Michele Mari (tutte disponibili nel catalogo Einaudi) e di nuovo scandisce in diverse forme e rituali temi e poetiche a lui propri, che vanno dal collegamento al mondo ctonio (“Con gli occhi chiusi”, “Bruttagosto”, il memorabile “Oniroschediasmi”) all’aura benefico-malefica degli oggetti (“Scarpe fatidiche”), dalle proprietà incantatorie dei nonsense (“Sghru”, “Scioncaccium”) all’antagonismo viscerale e nevrotico verso l’altro ( “Boletus edulis”, forse uno dei più mirabili, ma anche “L’ultimo commensale”, “Storia del bambino triste”), fino all’enumerazione struggente del passato (“Vecchi cinema”). Più un paio di rievocazioni padre-figlio dove forse si è concesso di dissotterrare una tenerezza che in Leggenda privata non s’era concesso. Il dato più rilevante di Mari come narratore breve è che lascia emergere la vis comica con maggiore prepotenza (la stessa prepotenza virulenta, in taluni casi, che aveva Gadda). Sferopoli si nutre di trovate esilaranti portate avanti di volta in volta in modo erudito, orrorifico, cabarettistico. “Medio Evo” potrebbe essere un Petrolini o addirittura una breve parabola alla Gigi Proietti. Su tutto domina il consueto senso del mistero, che si squaderna da una guida turistica qualsiasi o durante la gitarella di una combriccola di turisti o dalla camera chiusa di una casa in affitto o dai temi scritti dagli alunni di un professore svogliato. È una forma di sbigottimento davanti al reale, alla sua finitezza ignobile e amaramente inutile: come i serial killer che bramano di venire scoperti, così i personaggi vittima di Mari ricavano dallo sprofondamento nella cripta il piacere che tanto agognavano: trovare il senso al tutto nell’istante esatto in cui lo perdono e diventano nostri.

Sta sera, al Circolo dei lettori (via Bogino 9, Torino) Michele Mari presenterà Le maestose rovine di Sferopoli insieme a Marco Rossari.