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Con Megalopolis Francis Ford Coppola è diventato tutto quello che ha sempre odiato

Ai tempi di Apocalypse Now aveva detto che per un regista non c'è incubo peggiore che risultare pretenzioso. Aveva previsto il futuro, il suo.

di Francesco Gerardi

Esattamente a un anno fa risale il trend TikTok ribattezzato #RomanEmpire. Per chi non ne avesse mai sentito parlare, funzionava così: ignare fidanzate chiedevano ai loro fidanzati quanto spesso capitasse loro di pensare all’Impero romano, stupendosi della frequenza con la quale questo peculiarissimo pensiero si materializzasse nella mente dei maschi. C’era chi confessava di pensare all’Impero romano almeno una volta al giorno, e a un certo punto il trend divenne così popolare che i maschi iniziarono a rispondere alla domanda anche senza nessuno che gliel’avesse posta. A questi maschi a un certo punto decise di aggiungersi anche Francis Ford Coppola, che ammise di pensare «quite a lot» all’Impero romano. «Quite a lot» per un regista non significa la stessa cosa che significa per un maschio qualunque, e «quite a lot» per Francis Ford Coppola non significa la stessa cosa che significa per un regista qualunque. Non sono tanti i registi che possono vendere vigneti e ipotecare case per 120 milioni di dollari, cosa che Coppola ha fatto e che probabilissimamente dovrà rifare in futuro. Non sono tanti – anzi, non ce ne sono affatto – nemmeno i registi disposti a buttare quei 120 milioni. Evidentemente per Coppola questi crucci sono finiti assieme alla gioventù, e che Megalopolis sia ormai conosciuto in tutta Hollywood, in tutto il mondo con il titolo alternativo Megaflopolis è irrilevante. Lui ha fatto il film che voleva fare, e adesso tutto il mondo sa quanto spesso Francis Ford Coppola pensi all’Impero romano.

Megalopolis rischia di essere la peggiore ingiustizia che Coppola abbia mai subito nella sua carriera, poco importa che sia un’ingiustizia che lui stesso ha deciso di infliggersi. Un regista di tale grandezza e influenza non può essere certamente ridotto alle sue magnifiche intenzioni né ai suoi accidenti produttivi. Ma è esattamente questo che lui e noi stiamo facendo da quando abbiamo scoperto dell’esistenza di Megalopolis: parlare di questo film come il segno dei tempi – O tempora, o mores – sciagurati che viviamo, in cui nessuno vuole rischiare né di finanziare né di distribuire il vanity project di un venerabile maestro quindi costretto a ricorrere all’ingegneria finanziaria pur di raccogliere il capitale necessario all’impresa. È stato bello parlare di Megalopolis in questo modo, lo ammetto. È stato un poema cavalleresco in cui Coppola è diventato l’eroe di tutti, Orlando che perde il senno, spogliato dei suoi averi e distruttore di mondi. Il regista che ha rischiato tutto per l’ennesima volta, tutto per dimostrare che i diffidenti, i detrattori, gli scettici avevano torto. Megalopolis alla fine è stato questo più di qualsiasi altra cosa: le tesi di Coppola affisse alla porta della chiesa del cinema, e una folla di fedeli ansiosa di vedere finalmente redenta la dottrina che decidono di aderire a quelle tesi senza nemmeno averle lette. Megalopolis è esistito nell’attesa della sua venuta e ha trionfato nel racconto delle sue peripezie.

Adesso Megalopolis esiste in sé e per sé, come film, come spettacolo, e il minimo che si possa fare per rendere giustizia al suo autore è smetterla di trattarlo come il vecchietto fragile le cui farneticazioni vanno comunque ascoltate fino alla fine perché chissà se il suo cuore è ancora in grado di reggere il peso della verità. Su Megalopolis avevano ragione i freddi, gli aridi, i contabili che dicevano che un film come questo non ha ragion d’essere. Non esiste un pubblico per Megalopolis, dicevano gli executive losangelini preoccupatissimi dopo le visioni in anteprima. È vero, non esiste, non esiste perché non esiste nessuno che passerebbe due ore e mezza della sua vita appresso a un ragazzino che si è convinto che la sua farneticante fanfiction basata sulla vera storia della congiura di Catilina salverà le arti da se stesse. Che poi il ragazzino sia in realtà un uomo anziano, che di anni ne abbia 85 invece di 15, poco importa: la vita umana ha struttura circolare, il cerchio si chiude nello stesso punto in cui si era aperto, senilità e infanzia si assomigliano sempre moltissimo. Nomi come Cesare Catilina, Frank Cicerone, Hamilton Crasso, Wow Platinum possono essere frutto solo di una fantasia ancora acerba o già deperita, oltre a quella di un uomo che pensa troppo all’impero romano.

In Hearts of Darkness: A Filmmaker’s Apocalypse c’è un momento in cui Coppola parla con sua moglie Eleanor e le dice che «non c’è niente di peggio di un film pretenzioso. Un film che aspira a vette altissime e poi non le raggiunge fa cagare. Tutti ne parleranno male. È il peggior incubo di un regista: essere pretenzioso». Ecco, Megalopolis è un film pretenziosissimo, una recita scolastica di fine anno messa in scena però con l’affettazione della prima al Teatro Regio. Una pretenziosità redenta solo nei momenti – pochi – in cui viene dimezzata, in cui Coppola abbandona per un attimo dialoghi pensati per essere recitati al centro di un anfiteatro antico e si ricorda di essere dietro la macchina da presa. Nelle immagini, o almeno in certe immagini, la pretenziosità si ammansisce in ingenuità, in fanciullezza. Coppola è un uomo anziano che in Megalopolis ha messo tutta la nostalgica ammirazione per i pezzi di cui è fatto il suo immaginario, per i maestri e gli stilemi della Vecchia Hollywood (e del Vecchio cinema tutto): Pastrone, Whale, Asquith e Howard, Pascal, Welles, Cocteau, Wyler, Vidor, gli adattamenti dei romanzi di H.G. Wells e le scenografie dello studio system. Questo approccio ingenuo, fanciullesco alla sua materia è quello che fa le parti migliori del film, quelle in cui Coppola abbandona qualsiasi pretesa – di fare arte, di scrivere un manifesto, di lasciare un testamento – e si diverte a “pasticciare” con le immagini, creando città che si estendono come foglie di una pianta, vestali acchittate di abiti invisibili, gladiatori che lottano alla maniera dei wrestler della Wwe, rimettendo in scena sequenze di Ben-Hur dentro il Madison Square Garden. Ma il divertimento dura poco, o comunque non abbastanza per sopportare il tempo in cui Megalopolis si fa serioso, pretenzioso, in cui Coppola pretende di prevedere le sorti della Repubblica, della Costituzione, dell’umanità forte di un paio di aforismi di Marco Aurelio letti qua e là.

In queste parti seriose Megalopolis passa da fanciullesco a puerile, e diventa un film assai più preoccupato dall’urgenza di spiegare il mondo che sé stesso al pubblico. Cosa sia la Megalopolis e soprattutto: perché dovrebbe contribuire a salvare un mondo che sta finendo. Il motivo per cui il Cesare Catilina di Adam Driver passa due ore e mezza a costruirla non è dato saperlo, e neanche cosa sia il megalon (il misterioso nuovo elemento di cui questa utopia è fatta, la sostanza dei sogni dell’architetto-demiurgo), e nemmeno a che diavolo serva il superpotere di fermare il tempo che fa di Cesare Catilina un uomo eccezionale (chi sostiene che questo sia un film sul tempo lo fa solo perché la parola “tempo” è ripetuta quasi in ogni riga di dialogo). In compenso, vedendo Megalopolis si scopre che il rimedio a tutti i mali del mondo è il volemose bene pomposamente enunciato nel monologo-climax che precede il finale (altro che utopia, altro che futuro migliore: le utopie sono sistemi compiuti, non discorsi abbozzati). Che si spera sia il finale di questo film e non della carriera di Francis Ford Coppola, anche se nemmeno vendendo tutti i vigneti del mondo riuscirà a racimolare soldi a sufficienza per farsi perdonare Megalopolis.