Cultura | Dal numero

Lorenzo Osti vuole continuare la leggenda

Imparare un mestiere nuovo a 40 anni, ereditare la storia del padre, immaginare il futuro di brand diventati icone: di tutto questo abbiamo parlato con il presidente di C.P. Company e di Massimo Osti Studio, figlio del leggendario designer.

di Davide Coppo

La prima pagina di un vecchio quotidiano – la testata dice Daily News Record – mostra la faccia di Massimo Osti, i capelli lunghi e quella solita fronte alta, con la scritta: «The shy designer», il designer timido. Lui, creatore di C.P. Company e di Stone Island soprattutto, non ha effettivamente messo il suo nome quasi su niente, e anche oggi, a 80 anni dalla nascita e 19 dalla morte, il suo culto si basa anche su una certa segretezza. Da sempre ne sono un adepto, e per questo passare qualche ora nel Massimo Osti Archive, a Bologna (dove vedo quella prima pagina) è come essere in un parco giochi. Centinaia di pezzi d’archivio, prototipi, collaborazioni meno conosciute, accessori, e poi i libretti fatti con Altan e il PdS per le politiche del 1992, i taccuini di appunti e disegni, le collaborazioni con Lucio Dalla. Sono qui perché il suo nome, oggi, è finalmente legato a quello di un brand: Massimo Osti Studio. Un marchio che vuole portare nel futuro l’approccio sperimentale del designer. Processi non convenzionali, spirito pionieristico: non solo il recupero di un passato da riscoprire e valorizzare, però, ma soprattutto una visione portata nel presente e nel futuro. Nell’archivio incontro i due figli di Massimo: Agata, che lo gestisce, e Lorenzo, che di Massimo Osti Studio è il presidente.

Insomma, da quanto tempo maturava l’idea di far nascere un marchio del genere?
Ti confesso che quando è morto mio papà abbiamo avuto molto interesse intorno. Io e mia sorella non siamo mai stati coinvolti nel lavoro di nostro padre. Io ho fatto altro, lei ha fatto altro. Lui ci teneva volutamente lontani. Quindi poi ci siamo trovati con quello che in realtà non era ancora un archivio, era il suo ufficio: e abbiamo capito che sicuramente sarebbe stato un grande peccato buttare tutto, anche se non avevamo idea di cosa ci fosse di potenziale valore culturale. Ci siamo dedicato a metterlo a posto e abbiamo costruito l’archivio. Siamo sempre stati dell’idea di dover fare qualcosa. Tutto quello che abbiamo lo dobbiamo a lui, pensavamo. Ma cosa fare non lo sapevamo bene. Quindi abbiamo fatto l’archivio, abbiamo fatto il libro, un lavoro titanico ma molto utile per noi, e ha funzionato. Il libro è alla quarta edizione, continua ad andare sold-out, è una grande soddisfazione. Abbiamo fatto qualche mostra, qualche lezione, e nel mentre è arrivata l’opportunità di entrare in C.P. Company, nel 2015 (oggi Lorenzo è presidente anche di C.P. Company, che fu fondata da Massimo, ndr).

E qui ti metti a percorrere la sua stessa strada.
Allo stesso tempo stavo continuando a raccontare mio padre parlando al passato. Era meno rischioso, però forse era meno onesto. Mi son detto: qua la sfida vera sarebbe provare a portare avanti quello che lui ha costruito. E quindi ecco la piattaforma di C.P. Company: il team ha un dipartimento di ricerca e sviluppo che tira fuori cose pazzesche. Molte rimangono lì perché non tutto può andare bene per C.P. Company. E allora mi sembrava un’opportunità per tutti: c’è un team, c’è la volontà di tenere il nome di mio padre sul mercato e di portarlo avanti… Perché sennò diventa una roba da museo, capisci? Invece per me ha un significato diverso. 

A Bologna nel 2019 ci fu questa mostra chiamata Dilettanti Geniali. Sperimentazioni artistiche degli anni Ottanta. Si parlava di Luigi Ghirri, dei CCCP, di Massimo Iosa Ghini, dei Gaznevada, di Andrea Pazienza, e c’era spazio anche per Massimo Osti. C.P. Company e tutta la creatività di Massimo Osti furono estremamente legate al fermento culturale di quella Bologna. Oggi com’è il legame tra Massimo Osti Studio e Bologna?
Oggi onestamente c’è meno, però è una cosa che sto cercando di rafforzare, perché secondo me è un tratto dell’identità che ci deve essere. C’è meno perché il mondo è più globale, e le cose si fanno dappertutto, perché il nostro centro di ricerca è in Veneto, l’headquarter è in Svizzera. Oggi a Bologna abbiamo l’archivio, però vedo che c’è una sorta di tensione positiva: si torna sempre qua, come se avesse una piccola forza gravitazionale, attrattiva. Vorrei rafforzarla, tant’è che sto pensando a una fondazione, a una scuola, e questa la farei a Bologna. 

Prima di entrare in C.P. Company facevi altro. Cosa vuol dire a 40 anni imparare un nuovo mestiere, studiare una cosa da zero con anche questa importanza emotiva?
Mi ha fatto ridere, mi fa ancora ridere. Io non sono un designer e sto lontano dal prodotto. Sto lontano perché mi rendo conto che porto un nome che può influenzare senza avere le competenze, quindi penso sia pericoloso andare lì a dire: questo mi piace, questo non mi piace. Uno magari si sente poi in dovere per il nome che ho di ascoltarmi. Io ho fatto come ha fatto mio padre quando è arrivato alla moda dalla grafica, cioè: io conoscevo il marketing e il digital e ho cominciato a fare quello. Però tutta l’immagine di C.P. iniziale l’abbiamo fatta io ed Enrico Grigoletti. Stando lì ho iniziato a capire un po’ come gira. Dopo due o tre tentativi di trovare la persona giusta come presidente il mio capo mi ha detto: ma perché non lo fai tu? Io non l’avevo mai fatto, ma ho detto: se vuoi provo.

C’è una cura che tu hai, forse, che altri non avrebbero.
Hai detto la parola giusta. Io ho cura, ho attenzione. Ci tengo, ci tengo molto. Magari non so fare qualcosa direttamente, ma devo sapere che tutto è fatto al meglio. 

E questo è qualcosa che ricorda molto tuo padre.
Io sono sempre stato molto simile a mio padre: eravamo simili negli interessi, nei modi, nel modo di vedere il mondo. Io non ho la sua sensibilità di prodotto perché non l’ho mai addestrata, però io so cosa gli sarebbe andato bene e cosa no, in maniera molto naturale. Il mio psicologo parla di “trasmissione”. Questa parte qua non la faccio in maniera razionale. Io poi ho avuto una piccola esperienza di lavoro con mio padre, in production, dove facevo il sito. Lavorare con lui è stato difficile da un lato perché ero il figlio del capo, quindi eri quello bravissimo per definizione. Però devo dire che è stato bello perché avevo 20 anni, e gli facevo i primi siti, e lui mi diceva: internet è il futuro, lo dobbiamo fare, io non lo so fare e lo fai tu. E me l’ha fatta fare senza interferire. Ho sentito che lui si fidava, e adesso porto un avanti quella fiducia.

Allo stesso tempo non si deve percepire questa esperienza di Massimo Osti Studio come una citazione.
Questa è la cosa più difficile, perché mio papà è un po’ schiacciato su C.P. Company e Stone Island, ma lui era tanto altro. E secondo me questo è un po’ la difficoltà iniziale. Anche se abbiamo avuto un’accoglienza davvero straordinaria per questo progetto. Mi rendo conto che buona parte delle persone si aspetta che tu faccia sempre quelle cose lì: che tu rifaccia delle giacche Mille Miglia o delle giacche che cambiano colore. Ma mio padre non ha mai ripreso cose del passato: a ogni progetto girava pagina.

Nella prima intervista del libro Ideas From Massimo Osti c’è William Gibson (e già questa cosa è incredibile) che dice: «Massimo Osti è il designer meno conosciuto dal consumatore medio». Quindi c’è questa influenza enorme, ma allo stesso tempo un nome poco conosciuto fuori da una nicchia di appassionati. C’è una differenza tra essere riconosciuto ed essere conosciuto. La prima casella è stata spuntata, ti interessa spuntare anche quella della conoscenza più diffusa?
Sì, hai ragione, sento il bisogno di farlo arrivare al pubblico. Vedo che questa cosa sta un po’ succedendo da sé per tutto l’interesse che c’è intorno agli anni Novanta, ma è sempre in chiave nostalgica. Credo che inconsciamente sto cercando di realizzare un suo sogno. Perché lui era molto timido, più di me. 

“The shy designer”.
Odiava viaggiare, odiava fare le interviste, lui sarebbe stato da solo con i suoi amici più stretti. Tant’è che non ha mai avuto il coraggio di usare il suo nome. Ha avuto a un certo punto questa idea di mettere, piccolino, un: “Ideas from Massimo Osti” sulle etichette di C.P. Company, e quello è stato il massimo. 

E invece era conosciuto anche da William Gibson.
È una storia buffa, perché io sono cresciuto con i suoi libri, da adolescente adoravo il cyberpunk. Ma non avevo idea che lui conoscesse mio padre: allora noi facciamo la prima versione del libro Ideas From Massimo Osti,  all’inizio facciamo tutto in casa, c’è mia mamma che fa i pacchi da spedire per gli omaggi. Su un pacco leggo: William Gibson. Penso: sarà un omonimo. Poi leggo la destinazione: Canada. Mi dico: ci provo. E metto nel libro una lettera dicendo: ma per caso sei quel William Gibson? E ha risposto, ha scritto: sì, sono un grande fan di Massimo Osti! E allora gli abbiamo chiesto di scrivere per la seconda edizione del libro.