Cultura | Letteratura

Verso lo Strega: Marco Amerighi

Conversazione con l’autore di Randagi, quarta intervista della nostra serie dedicata ai candidati al Premio Strega 2022.

di Gabriele Sassone

A un primo sguardo, o quantomeno nell’osservare le fotografie e le interviste disponibili in rete, Marco Amerighi appare calmo, il suo modo di parlare e di gesticolare trasmette stabilità. Per capirci: se parlassimo di calcio anziché di letteratura, sarebbe un capitano di squadra ideale. Affidabile e generoso; un punto di riferimento. A suo agio anche nelle situazioni più difficili. Eppure, il gene che trasmette ai suoi personaggi produce crepe esistenziali, desideri e incubi incontrollati; produce ripensamenti, moltissimi ripensamenti, che diventano motivo d’inquietudine, che fanno sentire sempre fuori posto.

Docente in diverse scuole di scrittura, ghostwriter e traduttore, autore di Le nostre ore contate (Mondadori, 2018), con cui ha vinto il Premio Bagutta Opera Prima, Amerighi ha pubblicato nel 2021 il suo secondo romanzo, intitolato Randagi (Bollati Boringhieri). Presentato da Silvia Ballestra, che fra i vari meriti sottolinea la capacità di «cogliere l’essenza di un tempo e dei giovani che, impotenti e spaesati, lo hanno abitato», Randagi (Bollati Boringhieri) ha raggiunto la dozzina del Premio Strega 2022.

A partire dalla famiglia Benati, e in particolare dallo sconclusionato Pietro, il libro racconta il trauma dell’affacciarsi verso l’età adulta. Romanzo di formazione. Non proprio. Nel senso che, da subito, questo racconto individuale si apre a una pluralità di voci che sfilaccia la trama, la sottopone a una forza d’urto che deflagra le dinamiche e i costrutti sociali del Novecento: famiglia, casa di proprietà, posto fisso, pensione, e via dicendo. E questa deflagrazione, che si sviluppa in quasi quattrocento pagine, è sorretta dalla caratteristica migliore di Amerighi, la sua scrittura, che scava nella tradizione – quella meno scontata – e si concede allo sperimentalismo. Proprio da qui, dalla qualità letteraria di Randagi, inizia la nostra conversazione.

Sottotraccia si sente la prosa di alcuni grandissimi autori toscani, in particolare Pratolini, Bilenchi e Tozzi. Come definiresti la lingua del tuo romanzo?
Ho riletto e studiato molto questi autori alla ricerca, diciamo, di una mia forma di autenticità. E in loro ho trovato una lingua letteraria dalla grana variegata, colorata di regionalismi e gergalismi. La cosa bella è stata che più scrivevo più mi rendevo conto che non lo facevo solo per rendere omaggio ai miei maestri. Volevo ripercorrere una tradizione per aggiornarla. E così l’ho ibridata, manipolata, incrociata con linguaggi più moderni, e adatti a una storia di questo genere.

Appunto: chi è Pietro Benati e qual è la maledizione che incombe su di lui?
Pietro Benati è un ragazzo senza qualità, per dirla alla Musil, una persona che non ha interessi né talenti e che, anzi, vive nella paura costante di sbagliare. Se questo potrebbe essere uno svantaggio per chiunque, per lui lo è di più. Perché viene da una famiglia di uomini coraggiosi e straordinari.

Quali?
Un nonno che ha combattuto in Etiopia nel ’36, un padre che ha spadroneggiato nella Pisa degli anni Settanta aprendo e chiudendo decine di attività commerciali non sempre legali, un fratello maggiore promessa del calcio toscano, dongiovanni, genio della matematica alla Scuola Normale. Uomini abituati a compiere azioni fuori dal comune, certe volte persino vergognose, ma sempre memorabili. Persino la maledizione che grava su di loro – «prima o poi tutti i maschi della famiglia Benati tagliano la corda» – non fa altro che accrescere la loro memorabilità.

In che modo?
Se è vero che scompaiono, quando riappaiono lo fanno con un figlio illegittimo o con un mignolo amputato, insomma con un segno distintivo che accresce la loro leggenda.

Quindi, da che cosa scappano?
All’inizio del romanzo Pietro Benati è di fronte a una scelta dolorosa: da un lato, accomodarsi a vivere una vita che non lo rende felice ma che al tempo stesso lo tiene al riparo dalle delusioni; e, dall’altro, farsi coraggio e andarsene verso un altrove che, come tale, suona più allettante ma anche più insidioso. Quando il fratello maggiore lo iscrive con l’inganno a un anno di studio a Madrid, nella fuga Pietro scopre di essere inadatto ma anche più libero. Come liberi sono anche i randagi che incontra di qui in avanti: ragazze e ragazzi che, a differenza delle generazioni precedenti (quella della ricostruzione dopo la Seconda Guerra mondiale e quella successiva del boom economico) non hanno trovato il lavoro, il successo, la felicità che erano stati promessi loro. Al contrario si sono accorti che all’orizzonte non c’era nessuna luce, perché mancavano i maestri, lo Stato, o qualunque altro punto di riferimento. Non è un caso che le tre parti del romanzo siano scandite da tre eventi reali – il G8 di Genova del 2001, gli attentati terroristici di Madrid del 2003 e i movimenti studenteschi dell’Onda del 2007 – che hanno marcato il crollo delle illusioni di questa generazione. È stata questa scoperta a produrre lo spaesamento che li ha resi raminghi, randagi appunto. Eternamente in fuga.

Anche a te capita di voler scomparire?
La fuga di Pietro è la risposta letteraria a una tentazione che ho avuto. E che forse abbiamo avuto in molti. Viviamo in una società capitalistica che ha prodotto squilibri e storture di pensiero, una società in cui il grado di felicità è misurato attraverso il benessere ottenuto: un buon lavoro, una bella casa, una famiglia, dei figli (lo so, batto sempre lì, ma credo sia un tasto importante di una contemporaneità che non mi piace). Peccato che questi “oggetti del desiderio” non sono sempre alla portata di tutti.

Quindi, qual è la soluzione?
Fuggire. Come fa Pietro, che a ogni tentativo di essere felice e realizzato – nella musica, negli amori, nella carriera universitaria – fallisce e scappa. Fin quando smette di usare la fuga come strumento di rimozione dalla paura, e accetta l’idea che nella vita si può anche fallire, ci si può perdere, perché quel perdersi è il fine stesso dell’esistenza: è lo strumento che ci conduce in luoghi e accanto a persone inimmaginabili. Un’idea liberatoria perché lo affranca da timori,  aspettative e condizionamenti, e lo spinge “semplicemente” a vivere, senza aspettarsi una ricompensa per i suoi sacrifici.

Però “romanzo di formazione” mi pare una definizione limitante. Che cos’è davvero Randagi?
È romanzo di formazione, certo, ma anche saga familiare e romanzo di viaggio. Prima ho usato la parola libero per parlare di Pietro. Credo si addica bene anche al romanzo. Mi sono preso molte libertà, in questo libro.

Che tipo di libertà?
La libertà di aprire delle finestre su alcune persone mostrandone non necessariamente i momenti apicali di crescita e caduta (come spesso accade nei romanzi di formazione) ma anche quei momenti di pausa, di transizione, di indecisione, quei momenti nei quali tutto è fermo, in procinto di accadere.

Il tuo romanzo d’esordio, Le nostre ore contate, si orientava attorno alla metà degli anni Ottanta. Qui, lungo quale arco temporale ti muovi?
Randagi abbraccia due decenni: i Novanta e i Duemila. Il romanzo si conclude nel 2008. Non un anno qualsiasi, perché è l’anno dell’esplosione di Facebook in Italia, il momento che ha segnato un salto verso una comunicazione globalizzata, rapidissima e curiosa ma anche maniacale, orizzontale, superficiale. Mi sembrava interessante parlare di comunicazione in relazione a una generazione che, dopo il fallimento delle lotte di piazza, ha perso il collante collettivo ed è diventata individualista e solitaria. Per questo nel libro si trovano molte cartoline, post-it, lettere e sms (nel tipico font del Nokia 3310). È il tentativo di tenere insieme una generazione frantumata. Regalandole un briciolo di speranza.

Benché il centro del romanzo sia Pietro, gli uomini della sua famiglia sono raccontati attraverso tre generazioni. Com’è cambiato il maschio dall’inizio del Novecento a oggi?
Non voglio svicolare la domanda, ma dubito che saprei risponderti in breve. Di recente ho riletto Carlo Cassola, ad esempio, un autore che per me è stato a lungo una guida. E non ti nego che quel prototipo di maschio-intellettuale-bianco-eteronormativo mi è risultato vetusto e irritante. Stessa cosa per Moravia.  So dirti però come ho voluto rappresentarlo io, questo maschio: come un corpo in via di disfacimento.

E cioè?
Gli uomini della famiglia Benati non fanno una bella figura: scompaiono, perdono pezzi, alcuni muoiono. Chi resta, chi non cede, chi pronuncia la prima e l’ultima parola del libro è Tiziana, la madre di Pietro, l’unico personaggio del romanzo che resta ferma mentre tutto è un continuo turbinio di giri a vuoto.

In effetti, pur stando ai margini, è un personaggio centrale.
È Tiziana che conia l’espressione “la maledizione dei Benati”, è lei che intuisce che quel tipo di famiglia tradizionale è arrivata al capolinea, ed è sempre lei che richiama a sé la nuova famiglia dei randagi del libro: fluida e consapevole, sbandata ma stufa di preoccuparsi sempre del futuro. Un branco tenuto insieme non da un legame genetico ma da un collante ben più forte: la scelta. Questi randagi stanno insieme non perché qualcuno glielo ha imposto ma perché hanno scelto di farlo. Pratolini in Cronaca famigliare diceva che l’amore era “farsi coraggio, difesa, sangue che si mescola al tuo sangue”. Ecco, forse dovremmo archiviare il maschio del Novecento e ripensarci, come intellettuali e come persone, come congiunti (parola brutta perché evoca brutti momenti? Forse, ma il prefisso “con” rende l’idea) che scelgono di stare insieme ad altre persone. Alla luce di quell’idea di cui parlava Pratolini, che non mi pare invece invecchiata di un giorno.

A proposito di una passione comune, Con gli occhi chiusi di Federigo Tozzi, pensi che sia ancora attuale parlare di inettitudine?
I protagonisti dei libri di Tozzi sono in rotta con i genitori e con la società, ma non hanno il coraggio di alzare la testa e opporsi. Hanno dei sogni che li proiettano lontani ma gambe troppo corte o stanche per mettersi in strada. Come se una propensione al fallimento gravasse su di loro. E allora tacciono, si immobilizzano, si arrendono. Fa così Pietro, nella terza parte del romanzo. E fa così una larga fetta dei ragazzi e delle ragazze di oggi (mi ci metto anch’io), che di fronte a dibattiti da stadio in tv o nei giornali, in cui si susseguono opinioni sempre più polarizzate, si tirano fuori dalla battaglia. E ammutoliscono.

Quindi anche l’inetto ha le sue qualità.
Ogni tanto penso, a confronto di chi si espone troppo e ci subissa di opinioni, che l’inetto è l’unico in grado di esercitare ancora questo potere: quello di non dover per forza apparire, appartenere o gridare. Di stare nel dubbio, nel territorio grigio dell’indecisione. Nella vita, come nella letteratura, mi fa una paura cane chi sente di avere tutto chiaro.

Randagi fa parte della dozzina del Premio Strega 2022. Quanto e come influiscono i premi letterari sulla nascita e sulla vita di un libro e quanto sulle scelte del sistema editoriale?
Credo che nessun autore sano di mente pensi ai premi durante la stesura di un libro. Certo, non si può negare che i premi servano: a far circolare il nome di un autore o di un’autrice, a incrementare le vendite, a regalare autorevolezza. Specie in un mercato piccolo come il nostro. C’è un aspetto dei premi però in cui non mi riconosco: la competizione. Come si fa a mettere su una stessa bilancia opere così diverse come i romanzi? E in che modo si può scegliere “il migliore”? Qualche anno fa un autore francese di nome Joseph Andras venne insignito del Premio Goncourt Opera prima per il (meraviglioso) romanzo Dei nostri fratelli feriti, ma lo scrittore lo rifiutò dicendo che la concorrenza e la rivalità erano nozioni estranee alla sua idea di scrittura. Anche se ritengo inattaccabile la sua motivazione, non so se avrei lo stesso coraggio di Andras. Ma so cosa qual è la mia idea di un premio letterario: competono le case editrici, raramente i libri, mai gli autori.