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In dieci anni una città spagnola ha perso tutte le sue spiagge per colpa della crisi climatica  A Montgat, Barcellona, non ci sono più le spiagge e nemmeno i turisti, un danno di un milione di euro all’anno per l'economia locale.
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Ogni volta che scoppia un conflitto con l’Iran, viene preso come ufficiale un account dell’esercito iraniano che però non è ufficiale Si chiama Iran Military, ha più di 600 mila follower ma non ha nulla a che fare con le forze armate iraniane.
L’unico sopravvissuto al disastro aereo in India non ha idea di come sia riuscito a salvarsi Dopo l’impatto, Vishwash Kumar Ramesh ha ripreso i sensi in mezzo alle macerie: i soccorritori l’hanno trovato mentre cercava il fratello.
L’Egitto sta espellendo tutti gli attivisti arrivati al Cairo per unirsi alla Marcia mondiale per Gaza I fermati e gli espulsi sono già più di un centinaio e tra loro ci sono anche diversi italiani.
Per ricordare Brian Wilson, Vulture ha pubblicato un estratto del suo bellissimo memoir Si intitola I Am Brian Wilson ed è uscito nel 2016. In Italia, purtroppo, è ancora inedito.

La guerra linguistica tra Russia e Ucraina

Intervista ad Andrii Portnov, esperto di storia dei Paesi dell'Est Europa, che ci racconta perché la liberazione dell'Ucraina passa anche dalla decolonizzazione del linguaggio dai tic imperialisti sovietici. In Ucraina, in Russia e in Occidente.

29 Novembre 2022

Il toponimo è politico. Il nome che decidiamo di usare per identificare un luogo non è casuale. Pensiamo a quel territorio che da sud è chiamato Alto Adige e da nord Südtirol. O se, chiacchierando di Danzica con un tedesco, questi se ne uscirà con Danzig (in tedesco) al posto di Gdańsk (in polacco), il dubbio di avere a che fare con un nostalgico delle camicie brune forse non sarà del tutto illegittimo. In Italia abbiamo scoperto che si dice Kyiv e Kharkiv invece di Kiev e Kharkov solo dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, ma nemmeno dallo scorso 24 febbraio possiamo dare per scontato l’uso dei toponimi ucraini, almeno a leggere Le porte d’Europa (uscito due mesi fa con Mondadori nella traduzione di Dario Ferrari, Paola Marangon e Aldo Piccato), una storia dell’Ucraina scritta da Serhii Plokhy, professore a Harvard e uno dei più autorevoli storici ucraini viventi, in cui si legge ancora Kiev e Kharkov (nella versione originale inglese Plokhy scrive Kyiv e Kharkiv).

Com’è possibile che l’Italia (e molti altri Paesi occidentali) abbiamo chiamato per più di trent’anni dopo la caduta dell’Unione Sovietica città e fiumi ucraini con dei nomi russi? Ha a che fare con il mancato riconoscimento dell’identità statuale dell’Ucraina? È colpa della propaganda russa? O della romanticizzazione tutta occidentale della cultura russa? Abbiamo parlato di questo e altri temi con Andrii Portnov, professore di Entangled History of Ukraine presso l’Università di Francoforte sull’Oder, direttore dell’Istituto di Ricerca Prisma Ukraïna di Berlino e autore di numerosi articoli e libri sulla storia intellettuale e sui genocidi in Polonia, Russia e Ucraina. Secondo Portnov: «Agli occhi di parti significative delle società occidentali, manca ancora all’Ucraina il pieno riconoscimento di un ruolo attivo in senso storico e culturale sul proprio territorio. Cosa che dipende da numerosi fattori: innanzitutto c’è lo stereotipo profondamente fuorviante di confondere l’Unione Sovietica con la Federazione Russa e di trascurare la sua natura multinazionale; poi il fascino – comprensibile – che esercita la cultura russa e che oscura quella ucraina, georgiana o kazaka; e non da ultimo l’inerzia delle verità comuni. Potremmo dire che le élite intellettuali, soprattutto gli storici e i letterati, in Italia come in Germania, non abbiano prestato la necessaria attenzione alle culture non russe dell’ex Impero russo. Se consideriamo i toponimi – Kyiv in ucraino contro Kiev in russo – si pone il problema di riconoscere o no il diritto dell’Ucraina alla revisione post-coloniale e anticoloniale del proprio passato. In Germania i miei studenti, i media e persino alcuni politici tedeschi cominciano a fare attenzione alla pronuncia di Kharkiv. E questo è, ovviamente, un segno di riconoscimento e rispetto per la tradizione culturale ucraina e la realtà politica odierna.»

In un breve saggio del 2014 per il sito culturale colta.ru (bandito dalla Federazione Russa dopo lo scoppio della guerra), lei mostra come il riconoscimento dell’identità ucraina passi anche attraverso un cambio di lingua. Ad esempio, per dire “in Ucraina” l’espressione “na Ukraine”, che i russi usano da secoli, inizia a essere sostituita da “v Ukraine”, che riconosce il Paese come uno stato e non come un territorio geografico (fa venire in mente l’affermazione del principe di Metternich nell’Ottocento: l’Italia è solo un concetto geografico) e che addirittura suona come una critica al Cremlino. Crede che siano presenti caratteristiche coloniali nella lingua russa? Possiamo affermare che la cultura russa abbia una natura imperialistica?
Il saggio è stato pubblicato dopo l’annessione russa della Crimea e voleva cogliere una tendenza nella lingua russa (così come in quella polacca) a dire “v Ukraine” per esprimere il riconoscimento della sovranità territoriale dell’Ucraina. Oggi si riconosce una differenza marcata: i media ufficiali russi e quelli “imperialisti” insistono sul “na Ukraine” (sottintendendo che l’Ucraina è solo un territorio, non uno stato sovrano), mentre i media russi indipendenti (che ormai esistono solo online) usano sempre l’espressione “v Ukraine”. Con riferimento alla cultura russa, non bisogna trascurare quanto sia ricca e sfaccettata e sarebbe ingiusto affermare che l’intera cultura russa sia imperialista. Allo stesso tempo, gli aspetti imperialisti e coloniali della cultura russa necessitano di maggiore attenzione e riflessione.

È possibile decolonizzare la lingua russa e deimperializzare la cultura russa? A chi spetta questo compito?
È compito degli intellettuali russi. Sarà un processo lungo e molto dipenderà dall’esito della guerra. Nel panorama culturale russo, se da un lato assistiamo al rafforzamento di tendenze ultraconservatrici, se non fondamentaliste e xenofobe, dall’altro ci sono tentativi di porre domande scomode e di decostruire i miti imperiali, sia sovietici che russi. È una sorta di guerra civile culturale. Gli artisti che formavano una comunità ora sono divisi. Un buon esempio è la musica rock o la scena teatrale. Però è un po’ presto per dire quale tendenza avrà la meglio.

In un articolo apparso lo scorso luglio sulla Neue Zürcher Zeitung lei descrive il rapporto tra Federazione Russa e Ucraina in termini di asimmetria. Come si è sviluppata questa asimmetria? Quali conseguenze ha avuto e ha per l’Ucraina?
Dal punto di vista storico l’asimmetria è evidente. Per secoli gran parte dell’attuale Ucraina (ma non l’intero Paese!) ha fatto parte dell’Impero russo. Le politiche imperiali implicavano restrizioni dell’uso lingua e della cultura ucraine. Sotto il dominio sovietico l’Ucraina conobbe le dure repressioni staliniste, la grande carestia del 1932-33 e la distruzione della Chiesa greco-cattolica. Nella mia infanzia sovietica, la lingua ucraina era quasi esclusa dall’insegnamento scolastico e ci sono state “riforme” linguistiche per avvicinarla il più possibile al russo. Tuttavia, nel 1991, quando l’Unione Sovietica crollò, l’Ucraina concesse la cittadinanza – senza esami di lingua o altre condizioni preliminari – a tutti quelli che vivevano sul suo territorio. Questa tolleranza e questo pluralismo spiegano molto perché la convinzione di Putin che l’Ucraina sia uno stato fallito e che i russofoni desiderino l’unione con la Federazione Russa si sia rivelata totalmente sbagliata. Le truppe russe non sono mai state accolte come gli abitanti di Kherson (per lo più di lingua russa!) hanno salutato lo scorso 11 novembre l’esercito ucraino che entrava in città. Questo atteggiamento dovrebbe insegnarci a prendere sul serio la storia e la politica dell’Ucraina.

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