Cultura | Libri
Lo strano caso dei romanzi giapponesi tutti uguali
Bar magici, viaggi nel tempo, chicchi di caffè salvifici, quasi ogni casa editrice italiana ha un romanzo giapponese "feel good", vendono tantissimo ma sembrano scritti da un'unica penna.
Ultimamente, girando tra le pile di libri messi in vista al centro delle grandi librerie, mi sembrava di vedere continuamente questo libro giapponese dalla copertina colorata e rilassante, dal titolo ottimista e carico di senso del destino, dalla fascetta entusiasta a tanti zeri. Ma non ricordavo il nome. Mi sono ritrovata a parlarne con qualche amico del mondo dell’editoria.
Dici il romanzo ambientato nel bar?
No, mi pare sia più un bar-libreria.
Ah, forse tu dici quello lì della bibliotecaria.
Boh, l’autore è con la Y.
Allora non è Kawaguchi.
In copertina comunque c’è un una bottega tradizionale di Tokyo.
Io ricordo una geisha inginocchiata tra gli scaffali di libri.
Abbiamo scoperto che nessuno di noi si sbagliava: che il libro non era sempre lo stesso. Che, dopo il successo pandemico di Finché il caffè è caldo, gli autori erano diventati più d’uno, e ciascuno di loro aveva pure sfornato più titoli, confluiti tutte in una sorta di nube semantica, fatta di copertine molto hygge e di storie assimilabili allo stesso filone. Saranno tutti scritti dalli stesso ghost, che magari è di Garbagnate, abbiamo cazzeggiato. Scemenze a parte, il genere in Italia lo chiamiamo feel good, ma (come tante altre parole tipo smart-working o shopper) nei paesi anglofoni si chiama diversamente, cioè uplifting liteature, o solo up lit, letteratura per tirarsi su, e ne avevamo già parlato due anni fa.
Tutt’oggi, come allora, l’autore del benessere più venduto in Italia è Kawaguchi Toshikazu, gallina dalle uova d’oro di Garzanti, caso editoriale esploso in Giappone e in Italia nella buia primavera 2020, e oggi arrivato al quarto titolo e a centinaia di migliaia di copie vendute nel nostro paese. La saga del chicco tostato (proseguita con Basta un caffè per essere felici, Il primo caffè della giornata e Ci vediamo per un caffè) si svolge da Funiculì Funiculà, un baretto sgarrupato dei vicoli di Tokyo, ma il nome non è una strizzata d’occhio al pubblico italiano, sempre avido di quel mistero rarefatto che spira dal fraseggio scabro di tanta letteratura giapponese, no: Kawaguchi ha spiegato che la canzoncina da loro è diffusissima nelle scuole materne, e pertanto è un catalizzatore di nostalgia. Poco importa in questa sede ricordare che il primo libro parlava della possibilità di viaggiare indietro nel tempo, senza cambiare il corso degli eventi – giusto il tempo di dire qualcosa di profondo a qualcuno di importante – per poi tornare al presente prima che il caffè si fosse freddato. Quel che conta, qui, è la trasformazione del libro in prodotto di benessere, assimilabile al ritiro yoga e alla dieta detox; quel che affascina è il modo in cui la patina Instagrammara da “libro e tazza di caffè” ammanta questi successi, che sembrano confezionati a partire da un mood-board pubblicitario.
Se il dimessissimo Kawaguchi è poi stato tradotto in tutto il mondo, altre emulazioni della formula “libro & colazione” sembrano aver attecchito meglio in Italia. I miei giorni alla libreria Morisaki, Feltrinelli, di Satoshi Yagisawa (entrato questo mese nei primi posti della classifica) viene lanciato sulla stampa, soprattutto femminile, come un «libro che fa bene», che, col suo lieto fine, insegna che «ciò che conta sono gli amici, la famiglia, il tempo per leggere e per essere chi si è». Jinbōchō è un po’ il luogo della flânerie giapponese (sebbene i due concetti sembrino incompatibili): un quartiere di librai sorto nell’Ottocento, dove andare anche solo a perder tempo. Qui, uno zio piantato dalla moglie e una nipote col cuore infranto si rifugiano a leccarsi le ferite sopra una libreria di famiglia, trovando conforto nelle sottolineature di sconosciuti sui libri usati. Tra le prime pagine del libro si legge: «È proprio lì che la mia vita, la mia vera vita, è cominciata. Senza quell’esperienza tutto sarebbe stato molto più scialbo, banale, piatto. Un posto importante, indimenticabile: questo è per me la libreria Morisaki». E una lettrice che gli ha dato 5 stelle scrive: «Questa lettura è davvero comfortevole [con la m, ndr]». Insomma, contenuti, lancio stampa e recensioni non tanto distanti dai toni apologetici di tutti gli status che leggiamo sotto le foto dei compleanni e delle vacanze; e perfino a chiosa di lutti e rotture. Yagisawa dichiara di aver iniziato a scrivere con fini terapeutici per «valorizzare i propri difetti» perché, come i suoi protagonisti, era sempre stato «uno di cui i compagni di scuola non avevano niente da scrivere»: gli stessi compagni di classe che adesso (lui ha 50 anni) scrivono a spron battuto su Facebook.
Sempre Garzanti ha ritentato il botto con Michiko Aoyama, che mette insieme abilmente le due istanze dei libri precedenti, sin dal titolo copiato: Finché non aprirai quel libro. In Aoyama, troviamo quello che qualcuno ha definito il “realismo magico” del caffè caldo e l’idea di book-therapy dell’autore Feltrinelli, in una trama che ne è una versione meno metaforica: la signora Komachi è una bibliotecaria dai poteri magici capace di consigliare a ciascun avventore il libro che gli cambierà la vita, aiutandolo (come in un talent show) a realizzare i propri sogni, a riconquistare quel che ha perso slash non arrendersi e ritrovare la strada.
Einaudi non è da meno e pubblica quest’anno l’ultimo di Durian Sukegawa, I gatti di Shinjuko. Ci aveva già provato con lo stesso autore in tempi non sospetti, ma senza ottenere i numeri di Kawaguchi, con il best-seller mondiale La ricetta della signora Tokue: una «favola moderna sulla libertà e la resilienza. Un’ode alla vita […] che ci insegna a trovare la felicità nelle piccole cose». Sentarō è un pasticciere specializzato in dorayaki, i dolci ripieni di marmellata di fagioli azuki. L’uomo è (ovviamente) in un momento di crisi personale, quando l’incontro con l’anziana Tokue gli cambia la vita e gli apre nuove prospettive. «Imparerà l’arte di produrre una marmellata di fagioli che emoziona, che rispetta gli ingredienti e che li ascolta». Abbiamo virato qui al talent di cucina: infatti prima di leggere questa trama, avevo sentito parlare così solo Cannavacciuolo, che ha un italiano bizzarro, ma la grammatica della tv emozionale l’ha imparata benissimo.
Il potere curativo della letteratura, in Giappone, è un fenomeno vero e proprio sin dagli anni Novanta di Banana Yoshimoto: un genere che loro chiamano iyashi-kei shōsetsu (letteralmente romanzi di guarigione, sottogenere che ritrae personaggi con vite pacifiche in ambienti rilassati) e che dai tempi della crisi economica del 1991 fino alla pandemia e oltre, consola la generazione più colpita dalla recessione, in una società dove si è sempre a rischio di karoshi, la morte da troppo lavoro. Noi questo aspetto stakanovista non lo abbiamo proprio, e con la società giapponese condividiamo semmai l’invecchiamento rapido dovuto al calo delle nascite, e la passione per i libri che – invece di distruggere certezze, che sarebbe specifica della letteratura – ci fanno l’effetto di un bel gattino e di tanti like. Il risultato, almeno qui da noi, è che caffè libro e dolcetto (su tavolini visti dall’alto) sono diventati non solo il visual perfetto della cura dell’anima, ma anche i tòpoi narrativi alla base della retorica del volersi bene come si è, anche tutti ciccia e brufoli, del chi non ti vuole non ti merita, del cristiano gioire delle piccole cose, e altre frasi della nonna, del prete o del follower, travestite però da perle di saggezza orientale.