Un quarantenne racconta la sua quotidianità vissuta con un disturbo psichiatrico e il risultato è un libro doloroso e potente: ne abbiamo parlato l'autore, Alcide Pierantozzi.
Ted Chiang, Storie della tua vita e altri racconti (Ne/oN)
Traduzione di Marinella Magrì
Poco conosciuto in Italia, molto apprezzato negli Usa, Ted Chiang è uno strano animale letterario. In primo luogo ha scritto pochissimo, quasi solo racconti, la maggior parte dei quali sono raccolti in questo e in un altro libro pubblicato in Italia col titolo Respiro. Seconda stranezza è che si tratta di uno scrittore di fantascienza inclassificabile. Niente a che vedere con il cyberpunk, che tanta influenza sul genere ha avuto negli ultimi 40 anni, e neanche con la più recente corrente weird (Jeff VanderMeer) da cui provengono molti nuovi nomi della scena. La fantascienza di Chiang è innanzitutto molto “scientifica”, ci si trovano spesso formule, equazioni matematiche, teoremi, ragione che può essere banalmente trovata nella sua formazione (laurea in scienze e informatica, padre ingegnere e madre bibliotecaria, un ibrido che sembra perfetto). Ma all’interno di questo sfondo scientifico, emerge un’ossessione non così fantascientifica, quella per il linguaggio. Non è assolutamente un caso, se il primo, lungo, racconto di questa raccolta è ambientato a Babilonia, durante la costruzione della mitologica torre che sfida il cielo, simbolo del caos linguistico dell’umanità. Il cielo, il tempo, la scienza, il linguaggio sono di nuovo gli elementi fondamentali del racconto più famoso della raccolta, quello che le dà il titolo e quello da cui è stato tratto Arrival, il bellissimo film di Denis Villeneuve. Ma mentre il film aveva per ovvie ragioni toni virati verso il drama, qui si toccano vertigini borgesiane: l’idea che l’apprendimento della lingua aliena cambi nella protagonista la percezione del tempo come entità fisica è resa con una naturalezza perturbante. (Cristiano de Majo)
Max De Paz, Mendicare (Nottetempo)
Traduzione di Annalisa Romani
Quando ho detto alle amiche e agli amici che stavo leggendo un libro inaspettato e pieno di energia – appunto, questo Mendicare – lo descrivevo così: la vita di un barbone raccontata da lui stesso. Poi dovevo dire: sì, esatto, come Storia di mia vita di Janek Gorczyca, uscito per Sellerio nel 2024. Solo che stavolta è fiction, o meglio, non è un memoir. Cercando su internet, ho scoperto che in Francia c’è un altro titolo scritto da un SDF, come i francesi dicono, cioè Sans domicile fixe. Si chiama Ecritures carnassières, scritture carnivore, e l’ha scritto Ervé: anche lui, come Gorczyca, un 50enne senza domicilio fisso. È interessante, questo fiorire di libri, che siano romanzi o diari, di senzatetto. È interessante perché raccontano, forse, di un avvicinamento sempre più possibile tra la vita di un lettore o lettrice e la superficie calda del marciapiede. Non più un mondo alieno, come la luna, ma qualcosa che vale la pena conoscere meglio. È il sintomo, penso, di un cambiamento politico ed economico, di una paura, di un avvicinamento: sempre più persone, in tutta l’Europa centrale e occidentale, si ritrovano vicine o sotto la soglia di povertà, gente che aveva posseduto case, che aveva condotto vite tranquille se non agiate. E nella letteratura riverberano questi cambiamenti. Ma tornando a Max De Paz: è un libro con un’energia e una schiettezza davvero ammirevoli, e più volte la storia del protagonista mi ha portato alla commozione. Dice cose come: chiamiamoci barboni, inutile girarci incontro; ridicolizza i borghesi che si innamorano e romanticizzano i barboni con i libri; rivendica lo spirito selvaggio dei rom, la loro vita di beffe e violenza contro un mondo che li ha esclusi da sempre; racconta strategie di sopravvivenza e solidarietà di classe. Perde qualche colpo quando entra in una dimensione sentimentale. Ma in poco più di 110 pagine non si sente troppo, e la velocità si mantiene elevata in un viaggio breve e intenso. (Davide Coppo)
Serena Vitale, Cartella clinica (Sellerio)
Questo mini-librino è la dimostrazione che non c’è bisogno di scrivere 400 pagine per far piangere il lettore, ne bastano 100 (è una frecciatina al libro di cui avevo scritto nel mese di aprile, Blue Sisters di Coco Mellors). Anche qui si parla di sorelle, anche qui si indaga come un disturbo mentale attraversa una famiglia (là l’alcolismo, qui la schizofrenia), solo che questo non è un romanzo, sono ricordi veri, i ricordi di Serena Vitale, scrittrice e slavista che, tra le tante altre cose, è l’autrice della straordinaria indagine sul suicidio di Majakovskij dal titolo Il defunto odiava i pettegolezzi (Adelphi) (incluso nei libri del mese di Rivista Studio dell’ottobre 2015). Qui Vitale racconta la storia di sua sorella maggiore Rossana, Vitale racconta la storia di sua sorella maggiore Rossana, geniale pianista che durante l’adolescenza inizia a mostrare i sintomi della schizofrenia e che, dopo numerosi ricoveri, terapie e elettroshock, viene trovata morta nella sua stanza, all’ospedale psichiatrico di Roma. I vent’anni di vita di Rossana vengono ricostruiti attraverso un collage di frammenti di cartelle cliniche (commentate dall’autrice, che ne sottolinea tutti gli errori e le incongruenze), ricordi d’infanzia, dialoghi e anche fotografie che Serena Vitale ha la generosità di condividere con noi. Come succede anche in un altro importante libro sulla malattia mentale uscito proprio in questo periodo, Lo sbilico di Alcide Pierantozzi, tra queste pagine si piange ma si ride anche. Come dice Pierantozzi nell’intervista che abbiamo pubblicato: «Chi soffre molto nella propria interiorità conosce bene certi rari momenti di pausa dalla sofferenza, anche la più insostenibile, dove è possibile farsi una risata». Forse questo vale non solo per chi ha la malattia dentro di sé, ma anche per chi vive la malattia dall’esterno, guardando soffrire una persona che ama. E così, nel ripercorrere questi dolorosi ricordi, anche Serena Vitale cerca sollievo nei momenti più leggeri, rimettendo in atto con maestria le situazioni più comiche e disegnando con pochi agilissimi tratti i personaggi più assurdi della famiglia. (Clara Mazzoleni)
Holly Gramazio, I mariti (Einaudi)
Traduzione di Benedetta Gallo
Tornata a casa dall’addio al celibato di un’amica, Lauren trova uno sconosciuto in casa sua che la aspetta in pigiama e, soprattutto, dice di essere suo marito. Il problema è che Lauren non è sposata, o almeno non lo era quando è uscita quella mattina dal suo appartamento di Londra, in una giornata uguale alle tante che si succedono nella vita di una giovane donna in una grande città. Il marito di quella sera, scoprirà presto Lauren, non è l’unico: ce ne sono altri, molti altri, che vengono giù dalla soffitta di casa come se qualcuno li producesse in serie o, almeno, avesse un catalogo da cui scegliere giorno per giorno il marito ideale. Il semplice artificio creato da Holly Gramazio (ovvero la soffitta inventa-mariti) è una metafora forse banale ma efficace per parlare di cosa significa oggi “cercare” un partner: scrollare sulle app di dating un catalogo apparentemente infinito di facce e citazioni che dovrebbero raccontarci la persona imprigionata nello schermo, ma che il più delle volte ci restituiscono incontri superficiali o deludenti. A vincere, alla fine, è la convinzione che ci sia di meglio, e la pulsione ad andare avanti nello scroll. “I mariti” è l’esordio letterario di Gramazio, che di mestiere fa la Game designer (tra le altre cose, ha scritto la sceneggiatura del pluripremiato videogioco indie Dicey Dungeons). Non sorprende, allora, che l’elemento della “gamification” della vita amorosa sia centrale nel suo primo romanzo, come lo è per la maggior parte dei 30-qualcosa di oggi: i mariti sono potenzialmente tanti, alcuni all’apparenza perfetti altri immediatamente problematici, e Lauren li osserva scendere le scale ogni sera con curiosità (e speranza) mista a esasperazione, proprio come si scrollerebbero Hinge, Tinder o Grindr. Gramazio scrive in maniera deliziosamente leggera, ma è capace di toccare alcune delle nostre idiosincrasie generazionali spingendoci a riflettere su quello che davvero vogliamo dalle app, dai potenziali compagni o compagne, e da noi stesse. A ogni marito corrisponde infatti una versione diversa della stessa Lauren: non è la soffitta a contare alla fin fine, e neanche i mariti stessi, ma l’idea che abbiamo di condivisione. (Silvia Schirinzi)
Antonio Pascale, Cose umane (Einaudi)
Per chi si è trasferito altrove, in città, il ritorno a casa in età adulta è quasi sempre un momento di sfasamento, di scollamento rispetto a quello che si era e anche rispetto a quello che si è diventati. E anche di curiosità per le vite di chi è rimasto. Che fine ha fatto Domenico, che fine ha fatto Valentina? E poi nei confronti di sé stessi, perché chi ci vede da fuori in qualche modo prova sempre a far combaciare l’immagine sempre più sbiadita di quelle che erano le caratteristiche di un tempo con quella di oggi, dove nuove nel frattempo si sono sovrapposte e poi sostituite negli anni. Chi siamo noi, quando torniamo a casa? Siamo persone diverse o siamo sempre quei ragazzi cui le nostre madri preparavano pane e cioccolata per merenda? Cose umane di Antonio Pascale parte dal suo ritorno in una deserta Caserta d’agosto – per certi versi costretto dallo stato di salute della madre, stanca di vivere e che ricorda sempre meno – per analizzare inizialmente ciò che rimane tra le vie afose della città ma poi prendere spunto da tutto questo per raccontare come siamo passati da “Pinocchio a Masterchef”. Come siamo passati in meno di cento anni da un pianeta abitato da 4 miliardi di persone a uno di 10? Come siamo passati dall’essere un Paese di migranti analfabeti a uno di laureati? In sostamza: come siamo passati dall’essere poveri (Pinocchio) a essere più o meno benestanti (Masterchef)? Tonino, il protagonista, nelle notti a Caserta inizia a chiederselo da quello che è il suo punto di vista, quello di uno scrittore ormai romano che non se la passa troppo bene a livello economico, e da queste riflessioni ipotizza soluzioni, analisi, perché no, un’istallazione artistica. Ironicamente, mentre fuori imperversa il caldo e la madre vuole cenare ogni giorno più presto per morire il prima possibile, Antonio Pascale analizza ciò che abbiamo davanti tutti tutti i giorni, ci ride su e fa da medium (sì, c’è anche dello spiritismo in Cose umane) tra ciò che eravamo, che è ancora visibile lì, a casa, tra ex braccianti e figli di minatori emigrati in Belgio, e ciò che saremo, durante le telefonate con la figlia Susanna, studiosa e appassionata di Intelligenza artificiale. (Teresa Bellemo)
Arnaldo Greco, E anche scrittore (Utet)
La scrittura è come una tecnologia micidiale, una sostanza letale, un virus sconosciuto. Il contatto con l’essere umano trasforma quest’ultimo in una creatura che prima non esisteva, una mutazione che la Natura non aveva messo in conto e di cui non riesce a riprendere il controllo. Questa mutazione Arnaldo Greco l’ha ribattezzata lo Scrittore, ed E anche scrittore è il libro nel quale si prova a capire i curiosi, spassosi, inquietanti comportamenti di questa specie nuova. Come ci siamo messi tutti a scrivere è il sottotitolo, quindi nessuno si senta escluso: è da un pezzo che siamo tutti questa buffa creatura, ogni volta che scriviamo una recensione (non richiesta) di un ristorante o correggiamo un messaggio già inviato convinti che quella correzione farà chissà quale differenza o ci lamentiamo che ChatGPT toglierà il lavoro a scrittori che non abbiamo mai letto, che non leggeremmo mai e che fanno pure schifo. L’antropologia si mescola bene con la satira, perché basta una veloce osservazione per capire che gli esseri umani sono creature intrinsecamente e inconsapevolmente buffe: pensiamo, diciamo e facciamo continuamente cose ridicole, e la scrittura è diventata il principale strumento con cui registrare tutta questa ridicolaggine. Di più: la scrittura è diventata essa stessa la più ridicola (perché la più diffusa, a causa del progresso tecnologico) delle umane attività, non ha più senso prenderla così sul serio come abbiamo fatto finora. Greco lo sa, è uno che scrive di mestiere, e per questo sfugge alla trappola che un libro così avrebbe posto a chiunque: infilare qua e là, nel sottotesto, una lamentela, far scorrere una lacrima per i bei tempi in cui la parola scritta era privilegio solo di chi aveva qualcosa da dire. Non c’è sdegno, nel modo in cui l’autore racconta lo stato delle cose. Non ci può essere, perché lo stato delle cose fa troppo ridere, e la posa seria, composta, professionale con la quale Greco contrappone i più alti riferimenti letterari ai più demenziali esempi di scrittura “popolare” rende il tutto, se possibile, ancora più esilarante. E anche scrittore è un libro utilissimo a chi ha la fortuna di scrivere per mestiere, tra l’altro. Almeno, per me lo è stato: niente fa sentire riappacificati come la consapevolezza di percepire uno stipendio per una cosa che il resto dell’umanità, chissà perché, ha deciso di fare gratis. (Francesco Gerardi)