L.A. Taco, il food blog diventato un punto di riferimento nella lotta contro la destra americana

Lanciato nel 2006 come sito per i losangelini amanti del cibo, ora racconta (e protegge) le comunità di immigrati perseguitate dalla polizia. Ne abbiamo parlato con il direttore, Memo Torres.

18 Settembre 2025

Negli ultimi anni si è discusso molto, soprattutto negli Stati Uniti, del ruolo dei media nella società contemporanea: della loro crescente influenza sulle opinioni dei cittadini, della possibilità di un giornalismo alternativo e sostenibile, e dei rischi di una concentrazione del potere editoriale. Si è parlato tantissimo di Jeff Bezos e della sua influenza sul Washington Post, anche recentemente, in seguito al licenziamento dell’editorialista Karen Attiah, che ha scoperto di non lavorare più per il giornale dopo aver espresso opinioni critiche nei confronti di Charlie Kirk. Oggi è arrivata la notizia della sospensione «fino a data da destinarsi» del Jimmy Kimmel Live, anche lui reo di aver ricordato chi era, cosa diceva e cosa faceva Kirk. Parallelamente alle difficoltà dei legacy media, si è assistito all’esplosione di nuovi media, podcast e creator politici: spazi in cui spesso manca una formazione giornalistica e che finiscono per amplificare le opinioni degli intervistati o per diventare veri e propri strumenti di propaganda.

In questo panorama frammentato e caotico, dove molti progetti editoriali si esauriscono in un battito di ciglia, è emerso L.A. Taco: un media indipendente, nato dal basso e radicato nella città di Los Angeles. Nato come magazine verticale sul cibo, ha costruito negli anni relazioni in ogni quartiere della città, all’ombra delle grandi corporation mediatiche. Dal 2017 ha ampliato gli argomenti di suo interesse fino ad affermarsi come voce cruciale negli ultimi mesi, durante le proteste contro i raid dell’Ice, quando migliaia di cittadini sono scesi in piazza contro le politiche migratorie dell’amministrazione Trump. In quei giorni il media ha svolto un doppio ruolo: da un lato strumento di denuncia verso l’esterno, dall’altro rete di sostegno per la popolazione.

Abbiamo discusso di questo modello, della forma che L.A. Taco ha assunto oggi e di come si muove nella complessa realtà di Los Angeles, con il suo direttore, Memo Torres.

L.A. Taco è stato lanciato nel 2006 come blog culinario che celebrava ristoranti e venditori di street food a Los Angeles. Puoi raccontarci di più su quegli inizi, sulle motivazioni dietro al progetto e su come avete costruito la vostra prima comunità di lettori?
L.A. Taco è stato fondato da tre ragazzi. L’idea era quella di raccontare Los Angeles in modo diverso, perché i grandi media parlavano solo di una piccola porzione della città: West Hollywood, Beverly Hills e Santa Monica. L’idea era invece quella di valorizzare i quartieri e le realtà meno considerate, partendo da cose molto quotidiane e popolari come i tacos, la cannabis e i graffiti. Così i fondatori del magazine hanno creato un blog a cui chiunque, da varie zone della città, poteva contribuire. Pian piano è cresciuto. Poi, tra il 2017 e il 2018, c’è stata una svolta. In quel periodo il Los Angeles Times era in crisi, rischiava il fallimento. L’unico sito alternativo di notizie, L.A. Weekly, era stato comprato da miliardari che non avevano nessun reale interesse editoriale. Anche tante piccole testate locali stavano chiudendo. Si era creato un vuoto. Uno dei co-fondatori allora disse: trasformiamo L.A. Taco da semplice blog in una vera pubblicazione. Così coinvolsero Daniel Hernandez, che era stato direttore di Vice Latinoamerica, per dargli un’impostazione giornalistica, con standard etici, inchieste e veri articoli di attualità. Da lì è iniziata una crescita importante. Sono entrate nuove persone in redazione, tra cui me.

ⓢ Il vostro lavoro è stato elogiato per l’approccio ground-based: andare direttamente sul posto, documentare gli eventi e lavorare a stretto contatto con le comunità. Come reperite le storie, e cosa significa per te questo modello di giornalismo?
Noi ci definiamo un progetto di street level journalism. In pratica raccontiamo la città attraverso la voce delle persone che la vivono. Fin dall’inizio abbiamo dato attenzione a tante piccole realtà: le attività a conduzione familiare, i venditori ambulanti, i truck di tacos, gli artisti locali, le associazioni di quartiere. Javier Cabral, il nostro caporedattore, ha avuto un ruolo importante in questo. È stato molto bravo a scoprire persone nelle comunità e incoraggiarle a scrivere di temi che conoscono bene, che vivono in prima persona e su cui hanno un’autorità naturale. È un approccio opposto a quello che chiamiamo parachute journalism: quando un giornalista arriva da fuori, non conosce nulla di una comunità, scrive un pezzo e poi se ne va. Noi facciamo l’opposto: cerchiamo chi appartiene a quella comunità per raccontarla. Quindi abbiamo costruito relazioni solido. Dopo anni di lavoro, di contatti e di fiducia conquistata, oggi siamo considerati un punto di riferimento da molte comunità di Los Angeles che spesso vengono ignorate dai grandi media. E questo si vede soprattutto ora che molte di queste comunità si sentono sotto attacco. Il fatto di aver creato relazioni di fiducia fa sì che oggi ci chiedano esplicitamente di occuparci di certe storie. Anche se L.A. Times o i grandi canali televisivi se ne occupano, la gente vuole comunque sapere cosa ne pensa L.A. Taco. Ci chiedono continuamente: “È vero questo? Potete verificare? Potete scrivere di questa storia?”. Ed è così che siamo diventati una fonte credibile e vicina per tante persone a Los Angeles.

ⓢ Il punto di svolta sembra essere stato lo scorso giugno, con le massicce retate dell’Ice a Los Angeles, quando i vostri reportage hanno catturato l’attenzione in un modo che i media tradizionali non hanno fatto. In che modo quel momento ha cambiato la vostra direzione editoriale?
Per noi la data che ha segnato l’inizio di tutto è il 6 giugno. Quel giorno ci fu il primo raid degli agenti dell’Ice. È successo in un’azienda di abbigliamento del centro di Los Angeles, un piccolo magazzino che produce vestiti. Sono arrivati una trentina di agenti e hanno arrestato circa quaranta persone. La scena è stata caotica: il quartiere è sceso in strada, la gente gridava contro gli agenti, e quando uno dei loro veicoli ha cercato di andarsene, alcuni residenti hanno provato a bloccarlo. Gli agenti quasi li hanno travolti: hanno colpito una persona con la macchina, facendola cadere a terra e ferendola alla testa, e poi sono fuggiti. Era un venerdì pomeriggio, verso le quattro, noi eravamo già pronti a chiudere la settimana. Poi iniziano ad arrivare gli avvisi, le notifiche. Ricordo il nostro caporedattore che scriveva a tutti: “Dov’è il nostro reporter investigativo?”, “Qualcuno lo ha sentito?”. Dopo mezz’ora lui risponde: “Sono già lì”. Era arrivato prima di tutti, perché già riceveva decine di messaggi e segnalazioni dalle comunità.

Da lì in poi ci sono stati nove giorni di proteste. La destra e i media conservatori parlavano di rivolte e incendi, ma non è vero: all’inizio erano proteste pacifiche, ma poi abbiamo visto un dispiegamento di forze di polizia impressionante. Io sono stato a tantissime manifestazioni nella mia vita, anche durante le proteste di Black Lives Matter per George Floyd. Ma una reazione così violenta non l’avevo mai vista. È stata la peggiore di sempre. Sembrava quasi una gara a chi fosse più violento contro i manifestanti.

Quei nove giorni sono stati come un unico grande evento, un catalizzatore. Ci siamo detti: “Questa è la realtà, dobbiamo esserci. Dobbiamo coprirla”. Da lì in poi è diventata una routine: ogni giorno arrivavano segnalazioni, video, messaggi di raid in tutta la California del Sud. Io passavo ore a guardarli, verificare, ricostruire i fatti. E da quella mole enorme di informazioni è nato il mio daily memo: un riepilogo quotidiano, in cui raccoglievo e organizzavo tutto quello che era successo, cercando di verificare ogni dettaglio.

ⓢ Come spesso accade, l’attenzione mediatica è calata e dei raid dell’ICE a Los Angeles oggi si parla molto. Com’è la situazione attualmente?
Ogni giorno succede qualcosa di nuovo. Io penso: “Ok, oggi è stato il giorno peggiore”. E invece no: il giorno dopo riescono a superarsi. Un giorno arrestano una donna incinta, il giorno dopo sfondano con la macchina l’ingresso di una casa. Si comportano come dei selvaggi. È il caos totale, e si vede chiaramente che metà di loro non ha ricevuto un addestramento adeguato.

Le comunità, intanto, hanno iniziato a organizzarsi, a trovare modi per proteggersi. La gente ha cominciato a capire la gravità della situazione. Così sono nati i Rapid Response Network, cioè gruppi locali sparsi in varie zone della città che segnalano la presenza degli agenti dell’Ice. Poi ci sono realtà come la Los Angeles Tenants Union, l’organizzazione che difende gli inquilini, che ha iniziato a presidiare i parcheggi dei Home Depot, perché lì l’Ice fa molti dei suoi raid. Allo stesso modo, ci sono genitori che fanno turni per controllare se ci sono agenti Ice nei paraggi delle scuole. È nata così una rete capillare di vigilanza e autodifesa comunitaria.

ⓢ Los Angeles e la California in generale sono al centro di un grande dibattito sul funzionamento di queste come modelli sociali credibili e sostenibili. Dall’immigrazione di massa dei californiani verso il Texas, agli incendi, passando per la crisi umanitaria dei senza tetto, questo territorio viene descritto come in una fase di profonda difficoltà. Te come giudichi la situazione attuale?
Quello che trovo sempre affascinante è come il mondo fuori da Los Angeles sia in qualche modo ossessionato da questa città. Sentiamo dire che la gente sta scappando da L.A., che la città è in fiamme, che ci sono rivolte ovunque, che la violenza è fuori controllo. Ma in realtà, gran parte di queste narrazioni arrivano da persone che non sono di qui. Ed è proprio per questo che esiste L.A. Taco: per raccontare cosa succede davvero, per celebrare i quartieri e le culture della città.

Detto questo, oggi la città sta vivendo un momento pessimo, non possiamo negarlo. La polizia è completamente fuori controllo, e una fetta enorme del bilancio cittadino viene destinata a loro

La leadership politica non riesce a governare, i costruttori fanno pressioni continue sul consiglio comunale e l’economia della città cade  a pezzi. Abbiamo attraversato gli incendi, la pandemia, e lo sciopero degli sceneggiatori che ha messo in crisi Hollywood. Poi sono arrivati i raid dell’Ice: in una città a maggioranza composta da persone razzializzate e immigrate, con una forte presenza latina e messicana, hanno colpito proprio le comunità da cui dipende gran parte del tessuto economico. Risultato: cantieri bloccati, lavori di manutenzione fermi, venditori ambulanti costretti alla chiusura. La maggior parte di Los Angeles sta soffrendo. Certo, a Beverly Hills o Santa Monica magari la crisi si percepisce meno. Ma nei quartieri popolari, quelli che fanno davvero vivere la città, la situazione è durissima.

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