I Kneecap volevano essere famosi, sono diventati famigerati

La band hip hop irlandese viene da anni di provocazioni ed esagerazioni alle quali nessuno aveva fatto troppo caso, fin qui. Ma è bastata una frase su Gaza, Israele e Stati Uniti al Coachella per farli diventare nemici pubblici numero 1.

30 Aprile 2025

I Kneecap volevano essere famosi, il mondo li ha resi famigerati. La differenza è sottile come una lama, affilata e tagliente altrettanto: fama o infamia, in ogni caso i Kneecap adesso sono feriti. È facile giocare con il nome che si sono scelti: kneecap sta per gambizzazione, uno dei punishment attack preferiti da una parte e dall’altra della guerra civile irlandese, primo ed ennesimo dei riferimenti alla “provie culture” (un sistema estetico-valoriale derivato dall’esistenza del Provisional Irish Republican Army) che hanno contribuito grandissimamente al successo della band.

Come i terroristi

«Israel is committing genocide against the Palestinian people… It is being enabled by the US… Fuck Israel/Free Palestine», queste tre frasi sono bastate a fare dei Kneecap la band più pericolosa e ricercata del mondo. È successo al Coachella, davanti a un pubblico che come usanza vuole non seguiva il concerto con gli occhi ma lo registrava con la videocamera, quindi era scontato che ci sarebbero state conseguenze. Ci si immaginava un cazziatone a reti unificate, al massimo il ritiro del visto americano vita natural durante, niente più concerti negli Stati Uniti (almeno fino alla fine di questa amministrazione). È andata e sta andando peggio: i Kneecap adesso sono in mezzo a un’indagine di polizia, inseguiti a norma di una legge fatta per dare la caccia ai terroristi, il Terrorism Act approvato nel 2000 dal Parlamento del Regno Unito. Nei fascicoli, i loro nomi d’arte sono trattati come i nomi di strada dei criminali: Liam Óg Ó Hannaidh , alias Mo Chara; Naoise Ó Cairealláin, conosciuto anche come Móglaí Bap; J.J. Ó Dochartaigh, nome in codice DJ Próvaí.

Chissà cosa succederebbe se si facesse lo sforzo di tradurre i testi dei Kneecap dal gaelico all’inglese. Nei due album che hanno fatto fin qui (3CAG del 2018 e Fine Art del 2024, quest’ultimo finito in quasi tutte le classifiche dei migliori dischi dell’anno) di notizie di reato se ne trovano a iosa. Probabilmente finora l’avevano fatta franca perché in inglese si limitavano a cantare insulti e imprecazioni, le cose serie le dicevano in gaelico. È la missione che si sono dati quando hanno formato la band, d’altronde: se la lingua è cultura, allora una lingua morta è la prova che la cultura di cui parlava è morta pure lei. L’Irlanda invece è viva e quindi il gaelico va usato per parlare delle cose dei vivi: «andare alle feste e prendere droghe», combinare guai, fare casino, ricordare a tutti che la lotta di classe cuce quello che le guerre religiose strappano.

Esperienze, queste, che valgono alla stessa maniera per un ragazzino cattolico e per uno protestante, e che valgono ancora di più se raccontate nella lingua franca dell’hip hop (certo un hip hop strano, che a detta degli stessi autori mescola i bassi degli Arctic Monkeys, il folk irlandese, i synth dei Rubberbandits, la posa del Wu-Tang Clan, tutto stretto in una balaclava tricolore). In attesa della riunificazione dell’Irlanda e della definitiva cacciata degli inglesi: «Guilty conscience? No thanks! I meditate and have plenty of wanks! And I never spare a second thought for cunts in suits, when the revolution comes, I’m first out to loot, yaaaa!» (“Guilty Conscience”).

Avranno la coscienza sporca adesso, i Kneecap? Forse non sarebbe successo niente se fossero rimasti fedeli alla linea e quelle frasi sulla Palestina, su Israele e sugli Stati Uniti le avessero scritte in gaelico: chi è che si sarebbe preso la briga di andare a tradurre? Sicuramente non gli inglesi. Figuriamoci, non hanno avuto voglia nemmeno di ascoltare i loro dischi: 3CAG nella classifica UK non ci è mai entrato, Fine Arts si è fermato al 43esimo posto (in Irlanda è arrivato al secondo, in Scozia al terzo, se Nicola Sturgeon volesse tornare in politica e riprovarci con l’indipendenza via referendum, ha la sua colonna sonora, voto dei giovani assicurato).

Le scuse non servono

Invece le hanno scritte in inglese, la conseguenza è che adesso sono sotto inchiesta, accusati di aver incitato all’omicidio di deputati conservatori e (nientedimeno!) di essere fiancheggiatori del terrorismo islamico. Tutto quello che sta succedendo è prova sia delle ragioni che dell’ingenuità dei tre: avrebbero dovuto saperlo che a esprimersi nella lingua dell’invasore sarebbero stati guai. Hanno chiesto scusa, i Kneecap, anzi no, non basta, devono chiedere scusa di più e meglio e a tutti e per tutto: non basta dire di non voler ammazzare nessuno, nemmeno i deputati conservatori; non basta dire di non aver mai avuto niente a che fare né con Hamas né con Hezbollah, non serve prendersela con un mondo molto, molto più sensibile alla violenza rappresentata che alla violenza perpetrata.

«Le parole non sono violenza, uccidere 20 mila bambini sì, invece», hanno risposto i Kneecap ai loro accusatori. Allora non avete capito in che situazione siete, allora siete veramente la monnezza che dite di essere nelle vostre canzoni, hanno ribattuto gli accusatori. Proprio così, hanno chiosato i Kneecap, non scherzavano mica quando cantavano «I’m a H – Double O – D. Low life scum, that’s what they say about me» (“H.O.O.D”, canzone in cui la band spiega anche come comportarsi quando ci si ritrova in mezzo a una shitstorm: «You can beg, you can plead, you can tell us what we need, You can change your name, But you’re all the fuckin’ same»).

Quella dei Kneecap può sembrare l’ennesima storia grave ma non seria dell’hip hop contemporaneo: oggi sono loro, ieri era Tony Effe cacciato dal concerto di Capodanno a Roma, ieri l’altro erano i membri della P38 trattati dall’autorità giudiziaria come se fossero davvero le nuove BR. A un certo punto però dovremmo pure chiederci: ma il fatto che storie gravi ma non serie come queste si ripetano non è di per sé un fatto serio? Il fatto che per punire comportamenti che non sono reato (scrivere “Fuck Israel” e spernacchiare gli Stati Uniti, sostenere Gaza e i palestinesi, al momento nessun codice penale occidentale punisce nessuna di queste cose) si vada all’indietro nel tempo e nello spazio, si vedano e rivedano video di concerti vecchi di anni come ha fatto la polizia inglese, alla ricerca di comportamenti che potrebbero esserlo, non è di per sé un fatto serio? Che in uno dei momenti più violenti della storia recente, violenti in senso letterale, indugiamo ancora nell’ossessione collettiva per la violenza rappresentata (una che non lascia morti né feriti, dunque), non è di per sé un fatto serio? Che mentre facciamo di tutto per rimuovere dalla nostra consapevolezza quello che sta succedendo in parti vicine e lontane di mondo (in Ucraina, a Gaza, in Congo, in Sudan, nel Cecot di El Salvador) riusciamo a sbavare così copiosamente discutendo di tre cazzoni che mandano affanculo il mondo durante un concerto, non è di per sé un fatto serio? Che le stesse leggi si usino per terrorismo e hip hop, non è di per sé un fatto serio?

Teste di re e macchine della polizia

I Kneecap forse sono tre cazzoni, probabilmente lo sono, sicuramente si sforzano di sembrare tali. «Siamo politici ma con la p minuscola», hanno detto una volta, invitando tutti a non prenderli così sul serio, soprattutto le forze dell’ordine, invitate spesso a ricordarsi che si fa tutto per il craic, parola dialettale che potremmo tradure con cazzeggio. Ma resta il fatto che, magari solo intuitivamente, sono anni che portano avanti uno dei discorsi più interessanti e trascurati della cultura contemporanea: «La gente si incazza di più per un murales che ritrae una macchina che brucia che per una vera macchina che brucia», ha detto Mo Chara in una stupenda intervista concessa al Guardian, cercando di spiegare perché, nel 2022, la band decise di annunciare un imminente concerto a Falls Park, Belfast, commissionando il murales di una macchina della polizia che brucia. In un mondo come il nostro, in cui viviamo ormai nella convinzione che ogni cosa che accade accada su uno schermo, esiste ancora una differenza tra realtà e rappresentazione, tra verità e finzione, tra simboli ed eventi?

Prima del Coachella che li ha fatti diventare famigerati, durante un concerto a Melbourne i Kneecap erano saliti sul palco portandosi appresso la testa di re Giorgio V, tagliata non si sa da chi, non si sa quando nel giugno dello scorso anno. A gennaio 2024, prima della prima del loro film semiautobiografico al Sundance Film Festival – un incrocio tra Straight Outta Compton e i Looney Tunes con il quale al Sundance hanno pure vinto un premio che non si aspettavano proprio di vincere, tant’è che non lo hanno potuto ritirare di persona perché se ne erano già tornati in Irlanda – i tre hanno affittato un Land Rover, lo hanno sistemato in modo da farlo sembrare identico a uno dei mezzi del Police Service of Northern Ireland, poi sulla fiancata ci hanno scritto Kneecap in vernice verde acida, si sono seduti sul tettuccio, hanno acceso i fumogeni e si sono lasciati fotografare. La testa della statua di un re, la macchina della polizia, simboli verso i quali una band che vuole diventare famosa ha esercitato una violenza simbolica. La testa l’hanno restituita poi al legittimo proprietario, cioè al fan-vandalo che gliel’aveva prestata giusto per il tempo di un concerto. La macchina l’hanno ripulita e riportata intatta in concessionaria. In un mondo che sa ancora distinguere la realtà dalla rappresentazione, basterebbe questo a capire che i Kneecap vogliono solo essere famosi, non famigerati.

Tony Effe è il cattivo che non fa paura a nessuno

Dalla paghetta di 150 euro a settimana a Sanremo, dal dissing con Fedez al concertone di Capodanno saltato: come Tony Effe si è trasformato da trapper controverso a personaggio nazionalpopolare ormai noto anche alle nonne.

La storia grave ma non seria dei P38

Il collettivo musicale che mescola basi trap e riferimenti al terrorismo anni '70 è finito al centro di una grottesca inchiesta giudiziaria, di cui si inizia a parlare anche fuori dall'Italia.

Leggi anche ↓
Una nuova casa editrice indipendente pubblicherà soltanto libri scritti da maschi

Tratterà temi come paternità, mascolinità, sesso, relazioni e «il modo in cui si affronta il XXI secolo da uomini».

Murata Sayaka è la scrittrice di chi si sente a disagio sempre e dovunque

Ancora più dei suoi romanzi precedenti, Vanishing World , appena uscito per Edizioni E/O, sembra scritto da una macchina senza sentimenti che ci mostra tutte le variabili possibili e immaginabili della stupidità umana.

Sinners, il mio vampiro suona il blues

Negli Stati Uniti il nuovo film di Ryan Coogler è diventato un caso: un'opera indipendente, un B movie che mescola sesso, musica, horror e vampiri, che sta incassando quanto un blockbuster.

Alexander Payne sarà il presidente della giuria alla prossima Mostra del cinema di Venezia

Il regista torna sul Lido dopo un'assenza di otto anni: l'ultima volta ci era stato per presentare il suo film Downsizing.

Un’ossessione chiamata Franco Maria Ricci

Quando, come e perché la casa di una persona normale diventa un archivio – parziale, ma comunque abbastanza esteso – di tutto quello che ha pubblicato FMR?

Ottant’anni fa a piazzale Loreto

Le ore che precedettero quello storico 29 aprile 1945: il tragitto, la decisione, il simbolismo. Un estratto dal libro Una domenica d’aprile di Giovanni De Luna.