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Katy Perry, nonostante tutto

Katy Perry è molto imperfetta, nemmeno tanto intonata. Eppure vende tanto, tantissimo, più di (quasi) ogni altra. Ritratto del fenomeno pop che ricorda tanto una compagna del liceo non bellissima, ma che piaceva più delle altre. E della sua scalata al successo.

di Mattia Carzaniga

Katy Perry non sa fare niente. Katy Perry è bravissima.
Se sei d’accordo con me almeno sull’assunto, allora puoi continuare a leggere.

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Torna indietro, torna a scuola.

Avrai avuto pure tu una compagna non particolarmente carina, non particolarmente sveglia, non particolarmente niente, che però stava simpatica a tutti. Media del 6.7, debito in latino a settembre. Però faceva delle gran belle feste di Natale. Si concedeva quei tre minuti in più di intervallo per fumare in bagno, e persino la prof di matematica riusciva a non prenderla di mira, come da lessico di quinta ginnasio. Una sua dedica sulla smemo valeva più di tutte le altre, e però non rischiava mai l’effetto Regina George, non diventava la mean girl che prendeva per il culo il cardigan rosa salmone della Benny, l’occhialuta che piangeva dopo il compito di verbi greci. Non era una gattamorta, e però piaceva a tutti i maschi. Ha delle belle tette, diceva Gianlu del terzo banco.

Credo nasca così una sweetheart. Un’arrizzacazzi inconsapevole, la tipa che ti tira in mezzo, la cazzona però tutta glassa di zucchero, quando serve. Credo nasca così pure nelle scuole superiori della California, del Missouri, di ovunque, purché sia un paese occidentale. Credo sia nata così anche Katy Perry. Non particolarmente carina, non particolarmente sveglia, non particolarmente niente. Eppure.

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Era il 2008, e Katy Perry pubblicava I Kissed a Girl. Sembrava una partenza molto diversa dalle altre, tutte le altre. Non raccoglieva l’eredità di nessuna baby one more time precedente, ma non suonava neanche madonnara, intesa come Louise Veronica. Non sembrava stesse facendo una dichiarazione di guerra, quantomeno. Era una, ed era pure un po’ rock, toh, guarda, vuoi vedere che ci siamo liberati per sempre delle Britney, e pure delle zarre alla J.Lo, vuoi vedere che anche per il pop un altro mondo è possibile? Katy Perry, per un attimo, è stata la Puerto Alegre della canzonetta americana da classifica.

Aveva la faccia da ragazza qualunque, cantava furbescamente ritornelli sui gay in tempi non sospetti (Ur So Gay, registrata prima ma famosa un po’ di tempo dopo), e pure sulle lesbiche («I kissed a girl, and I liked it», appunto), ma lesbiche da bacio nelle camerette del liceo, sufficientemente smaliziate ma non ancora così consapevoli, o anche solo porche. Un po’ punkettona facile, ma senza alanismorissetteggiamenti che facevano già sembrare vecchia pure una undicenne come Avril Lavigne.

Aveva la faccia da ragazza qualunque, cantava furbescamente ritornelli sui gay in tempi non sospetti (Ur So Gay, registrata prima ma famosa un po’ di tempo dopo), e pure sulle lesbiche («I kissed a girl, and I liked it»)

Madonna, intesa come Louise Veronica, l’aveva subito presa in simpatia: non è qui per rompere le palle, non vuole rubarmi nessuno scettro, non vuole mettersi a giocare nel mio campionato come tutte quelle là. (Non ancora.) E difatti l’aveva endorsata, come aveva fatto con molte delle altre, errori di valutazione poi sbattuti giù a calci dal piedistallo. Perry era quel genere di compagna di liceo non particolarmente sveglia, è vero. Ma un pochino sveglia lo è sempre stata. E non aveva scambiato neanche per un secondo quel bacio della morte per la benedizione di una madrina con l’acqua santa.

Le cose sono andate come sono andate. Perry ha smesso presto i panni della lesbica del liceo, quelle che stanno a pomiciare sulle scale del cortile di dietro, dove non le vede nessuno ma qualcuno sì, quelle che prendono il microfono alla riunione del kollettivo e poi occupano per prime. È diventata grande, ha fatto due soldi e due conti. «Quasi quasi mi conviene diventare una popstar».

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Due anni dopo.

Arriva, all’improvviso, Teenage DreamTeenage Dream è l’album perfetto, di quelli che capitano una sola volta nella vita. È l’instant classic della canzonetta pop, come 21 di Adele lo sarà per la ballad strappacuore. Di fatto ogni canzone è singolizzabile (e difatti quasi tutte lo sono state), è un campionario di nostalgia American Graffiti e contemporaneità social network di precisione entomologica. Sta tutto in quel filo rosso che lega «I’ma get you heart racing in my skin-tight jeans» che si sente nella title track a «pictures of last night ended up online» di Last Friday Night, la stessa cosa detta in modi e tempi diversi, l’eterna adolescenza di chi canta e chi ascolta, i ricordi ingenui di una volta e le fotine su Facebook di oggi. La ragazza non particolarmente carina e non particolarmente sveglia del liceo, sempre quella.

Perry finisce per occupare, di colpo, la casella Sapore di mare degli anni duemila, è la voce dei giovani da emoticon (in questo senso la parola definitiva spetta al lyric video di Roar, ma ci tornerò più avanti) e insieme di quelli che nei ’90 guardavano Beverly Hills 90210 – c’era pure un certo Luke Perry, sarà un caso? Sì, ma che importa.

Le adolescenti americane appendono Justin Bieber e One Direction, mica Perry, eppure i suoi versi sono i più esatti per spiegare gli eterni amori di gioventù, le sbronze del weekend, le ripetizioni di chimica del martedì pomeriggio e il tipo carino della squadra di basket che non ti caga.

Perry è cantante per grandi e piccini, come si sarebbe detto ai tempi di Fivelandia, una Cristina D’Avena con però quel twist intellettuale, Yoko Ono che rifà (malamente, per alcuni sarebbe addirittura un fake) la sua Fireworks al Moma, come se Kiss me Licia fosse diventata, all’epoca, un’installazione della Triennale di Milano (ma, all’epoca, le installazioni ancora non esistevano, o almeno non si chiamavano così).

È quell’immaginario mai sepolto da poster in cameretta, con l’intelligenza di chi sa che sui poster in cameretta non ci finirà mai. Le adolescenti americane appendono Justin Bieber e One Direction, mica Perry, eppure i suoi versi sono i più esatti per spiegare gli eterni amori di gioventù, le sbronze del weekend, le ripetizioni di chimica del martedì pomeriggio e il tipo carino della squadra di basket che non ti caga.

È tutto lì, stuck, non cambia mai. Il capolavoro (un altro) di Teenage Dream è The One That Got Away. «Summer after high school when we first met, we make out in your Mustang to Radiohead, and on my 18th birthday we got matching tattoos». È tutto lì, tutto giusto, tutto più vero del fu Amici con Lella Costa. E poi, subito dopo: «In another life 
I would be your girl, we’d keep all our promises 
be us against the world». Gli amori che sono o non sono stati, i cd che abbiamo consumato e oggi non li possiamo sentire più nell’autoradio, perché sono troppo rigati e comunque c’è Spotify, letteratura latina che credevo di aver recuperato con l’interrogazione programmata, e invece mi becco il debito a settembre. Che poi ci pensi per tutta la vita.

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Katy Perry non sa fare niente. Non ha voce, e con quella poca che si ritrova canta pure piuttosto male, non balla, non è la figa modello Beyoncé-va-con-tutto che basta guardarla, che le vuoi dire.

Non è neanche una gran sgobbona, del resto non è mai stata la compagna di classe che si ammazzava sui libri di storia dell’arte il pomeriggio – no: era quella per cui la priorità, tornata a casa da scuola, era il nuovo episodio dei Simpson su Italia 1.

Agli ultimi American Music Awards Unconditionally era tutta scenografata stile Memorie di una geisha, pagode, kimono, ombrellini, per un singolo numero ci saranno voluti i soldi che servono per produrre un film medio italiano.

Le sue esibizioni ai vari awards, di stagione in stagione, funzionano solo perché c’è talmente tanta roba che non puoi fare a meno di notarle. Roar l’ha cantata sotto il ponte di Brooklyn illuminato a giorno: non esattamente la performance di Arisa a Sanremo, per dire. Agli ultimi American Music Awards Unconditionally (altra gran bella canzone) era tutta scenografata stile Memorie di una geisha, pagode, kimono, ombrellini, per un singolo numero ci saranno voluti i soldi che servono per produrre un film medio italiano. Ai Grammy Dark Horse (canzone meno inutile di quanto possa sembrare al primo ascolto) è passata in versione un po’ gotico-demoniaca, pure lì un sacco di quattrini per un’esibizione da Yavanna di lusso.

Madonna le aveva fatto da madrina quando si credeva (noi tutti) che Perry avrebbe continuato la sua strada di rockettara 100% organic, schitarrate clean, senza droga e senza sesso. Madonna che, oggi, starà lanciando il telecomando contro lo schermo del televisore. «Ero io, quella che “la voce è zero, i numeri sono tutto”! Ero io! Io!».

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Poi è arrivato John Mayer. John Mayer è il più grande cantautore folk d’America (per avere 36 anni e non 62, dico). John Mayer e Katy Perry, a un certo punto, si sono fidanzati. (Poi si sono sfidanzati, e quindi rifidanzati, forse da qualche ora non stanno neanche più insieme, così dice E! Entertainment, fonte attendibilissima, è che sono poco attendibili le coppie famose.)

Mettere insieme John Mayer e Katy Perry sarebbe stato come fidanzare, all’epoca, Francesco Guccini con Marcella Bella – a pensarci bene, Senza un briciolo di testa è un testo che oggi canterebbe Perry.

John Mayer e Katy Perry si sono fidanzati con uno scopo molto preciso: occupare la musica americana. Ne è uscito l’estate scorsa un duetto nella miglior tradizione Johnny Cash-June Carter

Lei veniva da un matrimonio-burla con l’inesplicabile inglese Russell Brand, che puntava a Perry per rimediare una carriera di cantante e attore negli Stati Uniti, non avendone una particolarmente brillante manco in patria. Lui veniva da molte storie (l’ultima con Taylor Swift, altri poster, altre camerette), la più chiacchierata delle quali con Jennifer Aniston, che puntava a Mayer per rimediare un po’ di copertine da “fidanzata di cantautore colto” e non più da ex moglie di Brad Pitt.

John Mayer e Katy Perry si sono fidanzati con uno scopo molto preciso: occupare la musica americana. Ne è uscito l’estate scorsa un duetto (Who You Love, pezzo molto bello contenuto nell’ultimo album di lui Paradise Valley) nella miglior tradizione Johnny Cash-June Carter, con loro due a cavallo, un po’ Brokeback Mountain etero e senza patimenti sulle camicie nell’armadio, volendo anche un po’ indimenticabile, non fosse uscito nello stesso momento o quasi il video di Kanye West feat. Kim Kardashian coi puledri selvaggi e molti più motivi d’interesse.

L’intenzione di Mayer e Perry era: diventiamo la coppia della musica 100% organic, Sonny & Cher che bevono soy latte, io (John) mi metto un maglione un po’ sdrucito così sembro molto country, tu (Katy) un cappello texano così aggiungi un nuovo look al tuo parco-numeri (la Madonna di Don’t Tell Me avrà lanciato altri telecomandi contro lo schermo del televisore).

Abbiamo il physique du rôle per cantare gli It Ain’t Me, Babe dell’era Instagram, meno tormento e più gattini, io un Johnny Cash che non ha bisogno di entrare in rehab, tu una June Carter ancor più deliziosamente stomachevole di June Carter. (Parentesi: nella biografia cinematografica di Johnny Cash Walk the Line, June Carter è interpretata da Reese Witherspoon, che per quel ruolo vinse l’Oscar. Reese Witherspoon e Katy Perry hanno la stessa mascella volitiva, altrimenti detta scucchia. Reese Witherspoon è stata una delle ultime grandi America’s sweethearts. Completate voi il sillogismo.)

Pare sia finita. Ma, si sa: le cose perfette non durano mai sempre.

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C’è un messaggio politico nelle canzoni di Katy Perry? E, se sì, quale?

Il lyric video di Roar, primo singolo dell’ultimo album Prism uscito l’anno scorso, era in buona sostanza la fedele riproduzione di una conversazione su WhatsApp. Poi è arrivato il video ufficiale, quello con Perry nella giungla come in uno spot delle Gocciole, ma a me interessa il primo.

Il testo di Roar appariva, dicevo, come una chat tra due utenti quindicenni medi, con tanto di emoticon, parole abbreviate, sul ritornello «You’re gonna hear me roar» compariva la faccina di un tigrotto, di quelle che selezioni tra i simboli dell’iPhone, e si capiva tutto, senza bisogno di troppe spiegazioni.

Basterebbe questo, come messaggio politico e generazionale, se non ci fosse, nel testo di questa canzone, anche il verso-chiave per capire i famigerati giovani d’oggi meglio che in un qualunque talk show del pomeriggio. «I stood for nothing, so I fell for everything». Solo nove parole, e una puntualità d’analisi che non s’era mai vista altrove sulla generazione (post) Facebook, mai indignata, forse sdraiata, chiamatela un po’ come volete.

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Il blog-mondo frocio l’altr’anno ha ingaggiato una lotta senza quartiere tra Katy Perry e Lady Gaga (laddove per quartiere s’intende la fanzine dell’una e la fanzine dell’altra). Uscivano pressoché nello stesso momento con i primi singoli dei loro nuovi album, Roar la prima, Applause la seconda. Perryani contro gaghiani, non credo si dica così, non sono un esperto in materia di interventismo queer-pop, comunque è andata così, neanche un (il) film con Bette Davis e Joan Crawford arrivava a toni tanto accesi (laddove per Bette Davis e Joan Crawford s’intende l’admin della fanzine dell’una e l’admin della fanzine dell’altra).

Ha vinto – per numero di copie vendute su iTunes – Katy Perry. Ha vinto la zuccherosa adolescente-vecchia contro la concettuale (almeno per un teenager dell’Oklahoma) artista-baracca con velleità da Marina Abramović. Una scelta evidentemente di campo, di immedesimazione, di normalizzazione della canzonetta pop al tempo della Crisi.

(Poi è arrivata quella non-umana di Beyoncé e se le è magnate tutte, ma questa è un’altra parentesi, un’altra storia.)

Nel frattempo, mentre i fanzinari si tiravano i capelli a vicenda, spuntava la tizia che era un po’ l’anello di congiunzione tra le due, la ragazzina e però anche instant-icona, la bambina e però anche porca, la gattina hipster sgambata inedita pure nell’immagine (per gli americani, non per noi che abbiamo avuto Patty la petineuse del Grande Fratello). Insomma: Miley Cyrus.

In una delle sue ultime apparizioni, Katy Perry è in prima fila a un concerto del Bangerz Tour della fu Hannah Montana. Miley, a un certo punto, si avvicina a Katy e la bacia in bocca. Quegli stessi baci da lesbiche del liceo, alla Caterina va in città, perché l’immaginario lì si è fermato, crash, come una macchina che va a sbattere contro un muro. E insieme, però, un altro potenziale bacio della morte. Un chiaro, chiarissimo «Sto pisciando sul mio territorio».

A meno che Perry – che aveva calcolato tutto, aveva trovato la posizione perfetta tra Madonna e, per dirne una, Selena Gomez – non faccia quello che ha sempre fatto. Rubare la scena. Forse la vedremo con un body anni ottanta, oppure nuda sopra una palla demolitrice. Forse farà così per riprendersi quello che – senza saper cantare, senza saper ballare, senza saper fare niente – si è guadagnata fino a oggi. Non particolarmente carina, non particolarmente sveglia. Eppure.

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La più bella canzone dell’ultimo album di Katy Perry s’intitola Ghost. «You said I text, it’s like the wind changed your mind». Di sicuro era un WhatsApp, di sicuro con emoticon.

 

Nell’immagine in evidenza, Katy Perry durante un concerto al Washington Convention Center il 19 gennaio 2013, Joe Raedle / Getty Images.

Nell’immagine nel testo, la cantante durante gli AMA di Los Angeles il 24 novembre 2013, Kevin Winter / Getty Images.

 

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