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John Baldessari ci ha insegnato cos’è l’arte contemporanea

È morto a 88 anni l'artista californiano e professore amatissimo, che con le sue opere fatte di gesti, immagini e parole ha cambiato la storia dell'arte concettuale.

di Clara Mazzoleni

John Baldessari, Kissing Series: Simone Palm Trees, 1975

Nel 2009, in occasione della Biennale di Venezia dal titolo Fare Mondi, a cura di Daniel Birnbaum, John Baldessari ricoprì la facciata del Padiglione centrale con la gigantesca immagine di un paesaggio paradisiaco: l’oceano, il cielo azzurro e due palme. L’opera “Ocean and Sky (with Two Palm Trees)” funzionava come un fondale, un invito a fotografarsi davanti allo sfondo per trarre in inganno chi avrebbe visto le immagini, dando l’idea non di una visita alla Biennale di Venezia ma di un viaggio in un luogo completamente diverso, un mondo altro. Baldessari è morto il 5 gennaio 2020 a 88 anni: ha fatto in tempo a ricevere il Leone d’oro alla carriera alla Biennale di Venezia (proprio quell’anno, il 2009), a vedersi celebrato dalla Tate Modern di Londra con una grande retrospettiva, Pure Beauty (passata per il Los Angeles County Museum of Art, il MoMA e approdata al Macba di Barcellona nel 2011) e a farsi mettere al collo una bella medaglia, la National Medal of Arts, da Barack Obama, nel 2015.

Nato a National City (tra San Diego e Tijuana) nel 1931, da una coppia di immigrati – lui italiano, lei olandese – Baldessari ha lavorato decenni come professore al California Institute of Arts (dal 1970 al 1988) e all’Università della California di Los Angeles (dal 1996 al 2005), formando generazioni di artisti e ricoprendo un ruolo fondamentale per la vitalità della scena artistica californiana, utilizzando il tema dell’insegnamento dell’arte e delle aspettative nei confronti degli artisti come motore e ispirazione per le sue opere più satiriche (come “Tips For Artists Who Want To Sell“, 1966-1968 o “Teaching a Plant the Alphabet” del 1972). Un’arte concettuale che si prende gioco di se stessa, rivelando come le preoccupazioni artistiche, spogliate dal contesto, appaiano ridicole e assurde. È soprattutto tra gli anni ‘60 e ‘70 che Baldessari ha lasciato il segno nella storia dell’arte occidentale, suggerendo una direzione poi intrapresa con grande naturalezza da un’infinità di epigoni. Con il suo atteggiamento divertito, spiritoso, ha trasformato una pratica impersonale e speculativa come quella dell’arte concettuale in un rinfrescante gioco per la mente, realizzando opere che sono in grado di emozionare e incantare lo spettatore, di farlo scoppiare a ridere o mettere in crisi i suoi pregiudizi e punti di vista consolidati. Il tutto senza rinunciare all’azzurro, alle palme e ai paesaggi californiani, molto spesso catturati nelle sue opere.

Tutto iniziò con un funerale, “The Cremation Project”: nel 1970, a San Diego, bruciò tutte le opere create tra gli anni ’50 e ’60 e usò una parte delle ceneri come ingrediente speciale per cucinare dei biscotti che espose al Museum of Modern Art di New York, nell’importante mostra collettiva sull’arte concettuale Information. Come racconta il New York Times, Baldessari ricordava quell’azione con un po’ di imbarazzo, «un gesto molto simbolico, un po’ come annunciare a tutti che ti sei messo a dieta sperando che così riuscirai veramente a farlo». La dichiarazione d’intenti è una delle sue cifre, insieme ai suggerimenti e alle istruzioni: un’altra delle sue opere più famose è del 1971 e consiste nell’indicazione data ad alcuni studenti, attraverso un video e un esempio su carta, di scrivere ossessivamente sui muri, a mo’ di punizione (impossibile non pensare a Bart Simpson – a proposito: l’artista è comparso anche in una puntata dei Simpson, intervistato da una giovane Marge), “I will not make any more boring art”.

Self-Portrait (with Brain Cloud), 2010, Marian Goodman Gallery, NY / Paris (fotografia di Franziska Wagner)

Non c’è niente di noioso, in effetti, nell’arte di Baldessari, che ha mescolato i colori della pop art e l’ironia dadaista con le speculazioni filosofiche di Joseph Kosuth, raccogliendo con entusiasmo l’eredità di Duchamp – il ready-made, l’oggetto da fare proprio, rifiutando il concetto di manualità (l’artista che deve produrre da sé le sue opere, con le sue mani) e rivendicando lo smisurato potere della mente, dell’idea – e anticipando le pratiche dell’appropriazionismo degli anni ’80, che non si limita più a trasformare cose di uso comune in opere d’arte, ma arriva a rubare le opere di altri artisti, ridefinendole come proprie. È quello che fece nel 2010 nella mostra Giacometti Variations per la Fondazione Prada, facendo arrabbiare la Fondazione Giacometti, che lo portò in tribunale perché aveva osato riprodurre 15 enormi figure nello stile dello scultore svizzero e, soprattutto, le aveva utilizzate come modelle o manichini, mettendogli addosso trench e parrucche, come in una tragicomica sfilata immobile.

Ma la mostra sostenuta da Miuccia Prada (qui intervistata e fotografata insieme a Baldessari e altri artisti dal New York Times) è soltanto uno dei tanti esempi dei suoi scherzi, esperimenti di appropriazione, operazioni di montaggio, censura parziale e reinterpretazione che fanno di lui un precursore della cultura in cui oggi siamo immersi, quella delle immagini che acquistano ulteriore senso in base alle caption (su Instagram) o che ci fanno ridere perché qualcuno ci ha scritto sopra qualcosa di intelligente e ridicolo o ha modificato in qualche modo un punto di vista dato per scontato (i meme). «Spesso penso a me stesso come a uno scrittore frustrato», aveva detto a Calvin Tomkins del New Yorker nel 2010, «penso che una parola e un’immagine abbiano lo stesso peso, e gran parte del mio lavoro deriva da questo tipo di pensiero». In effetti nella maggior parte delle sue opere il testo – titoli, riflessioni, dichiarazioni d’intenti, indicazioni allo spettatore, finte istruzioni – ha un ruolo fondamentale.

Meno conosciuta della famosa serie dei “dots”, in cui Baldessari utilizza piccole sfere di carta per eliminare dettagli di fotografie preesistenti – spesso le teste – costringendo lo spettatore a concentrarsi su altri particolari e riconsiderare il punctum dell’immagine, è la bellissima serie degli anni ’90 ispirata a Goya, in cui l’artista fa il verso alle strane didascalie di “Los desastres de la guerra”, 82 incisioni realizzate da Francisco Goya tra il 1810 al 1820 nel tentativo di descrivere l’orrore della violenza (e l’inadeguatezza del linguaggio) e le accosta a immagini comuni – un paio di forbici, un vaso di fiori, un libro, una bocca – generando un effetto inquietante e poetico, costringendo lo spettatore a permanere in un luogo mentale indecifrabile, sospeso. «Mi ricorderanno come quello che metteva i pallini sulle facce», dice nel meraviglioso video di soli 5 minuti A Brief History of John Baldessari, narrato da Tom Waits. Lo ricorderemo per moltissime altre cose.