Cultura | Cinema

Radical Godard

È morto a 91 anni uno dei padri della Nouvelle Vague, un autore che ha riscritto le regole del cinema e influenzato generazioni di registi in tutto il mondo.

di Francesco Gerardi

M’immagino la reazione di Jean-Luc Godard mentre legge tutti i coccodrilli che usciranno in tutto il mondo scritti in tutte le lingue del mondo nei prossimi giorni. In realtà, non ho bisogno di immaginarla, posso dire di conoscerla con ragionevole certezza: quando gli chiesero un’opinione sul biopic che Michel Hazanavicius stava girando su di lui, sulla sua storia con l’attrice Anne Wiamzemsky cominciata sul set de La cinese, Godard rispose «Non voglio nemmeno sentirne parlare! Non mi piace. Anche se, in realtà, non me ne frega niente. È un’idea stupida, molto stupida».

Parlare di Godard significa parlare della Nouvelle Vague e parlare della Nouvelle Vague significa parlare del rapporto tra Godard e Truffaut: prima l’amicizia che li unì e poi le differenze che li separarono contribuiranno più di ogni altra forza a definire il nuovo cinema francese. Godard e Truffaut si incontrarono per caso, vagando per le strade di Parigi alla ricerca di qualcosa che li aiutasse a passare il tempo: entrambi scoprirono il cinema così. Godard era di buona famiglia, aveva trascurato gli studi presso le migliori scuole della capitale e si era inimicato i parenti vendendo ai trafficanti d’arte un quadro di Renoir che apparteneva a suo nonno, tutto per pagarsi l’ingresso in sala. La famiglia di Truffaut, invece, era povera, lo detestava e lui ricambiava. Fu Godard a dire che lui e Truffaut si incontrarono come si incontrano «i bambini abbandonati». Tutto il loro rapporto si può riassumere nel primo aneddoto che entrambi raccontavano quando gli si chiedeva di parlare dell’altro. Erano sicuri di essersi conosciuti al cinema sul finire degli anni Quaranta ma non riuscirono mai a mettersi d’accordo su quale cinema: uno diceva il Cinémathèque e l’altro il Ciné-Club du Quartier Latin, quest’ultimo gestito da un critico e professore all’anagrafe noto come Maurice Schérer e al cinema come Eric Rohmer.

Rohmer e Bazin furono le persone che diedero a Truffaut e Godard il loro posto ai Cahiers du Cinéma, il luogo in cui cominciò la Nouvelle Vague, in cui una generazione di registi trovò il modo di mettere assieme la Hollywood di Hitchcock e Hawks e i classici di Chaplin e Murnau, tenendo tutto attaccato con il collante del disprezzo per lo status quo del cinema francese. È qui che Truffaut definì la grammatica, l’estetica, la poetica che poi il mondo conobbe con I 400 colpi. Ed è dal successo de I 400 colpi che cominciò quello di Godard. Mentre a Cannes Truffaut diventava uno dei registi più famosi e apprezzati del mondo, Godard era in Svizzera a lavorare alla costruzione di una diga sulla quale poi voleva girare un documentario. A un certo punto decise di partire per Cannes, si fece comprare il biglietto del treno dall’amministrazione dei Cahiers e arrivato in città andò subito da Truffaut per convincerlo a lasciargli girare quel film di cui anni prima avevano provato a scrivere la sceneggiatura alla stazione della metro Richelieu-Drouot di Parigi. Era una versione romanzata della storia di Michel Portail, un delinquente che nel 1952 aveva rubato una macchina della polizia, ucciso un agente che lo aveva riconosciuto ed era riuscito a rimanere nascosto a Parigi assieme alla sua fidanzata americana per due settimane prima di essere stanato in un barchino ormeggiato sulla Senna. Truffaut ormai non era più interessato alla storia e sapeva che difficilmente Godard avrebbe trovato un produttore disposto a metterci dei soldi (ci avevano già provato assieme, fallendo miseramente). Stavolta, però, Godard aveva una cosa che gli mancava nel tentativo precedente: la possibilità di portare come garanzia il nome del regista de I 400 colpi. Godard trovò tale Georges de Beauregard, produttore che accettò di mettere i soldi in quel film solo perché Truffaut risultava l’autore della sceneggiatura (non era vero, ma questo de Beauregard non fece in tempo a scoprirlo). Quella sceneggiatura divenne Fino all’ultimo respiro, il film che fu l’inizio della carriera di Godard e forse quello che più e meglio di tutti racconta il suo cinema: Fino all’ultimo respiro fu girato tra le strade di Parigi, usando quasi soltanto luce naturale e seguendo una sceneggiatura alla quale veniva aggiunta una pagina nuova ogni giorno.

L’unica persona che ha potuto vantare su Godard un’influenza pari a quella di Truffaut è Anna Karina, che fu sua moglie per otto anni e protagonista di quelli che probabilmente sono i sette film migliori che abbia mai girato. Le Petit Soldat, La donna è donna, Questa è la mia vita, Bande à part, Alphaville, Il bandito alle 11, Una storia americana (a questa lista va obbligatoriamente aggiunto Il disprezzo, adattamento e stravolgimento del romanzo di Moravia), rientrano tra le visioni indispensabili di una cinematografia immensa – 124 film in tutto – per ricerca artistica, mode attraversate, tecnologia utilizzata. Nessuno degli attori e delle attrici che si legarono a Godard per un film o per una carriera – Jean-Paul Belmondo, Michel Piccoli, Jean-Pierre Léaud, Brigitte Bardot, Jean Seberg, Jane Fonda, Marina Vlady, Mireille Darc, Nathalie Baye, Macha Meril – potrà mai vantare con lui la stessa affinità. In un’intervista del 2016 a Filmmaker Magazine, Karina disse che del suo rapporto sentimentale e professionale con Godard le restava una frase che lui aveva pronunciato una volta: «Mandate Anna a parlare di me, lei mi conosce meglio di tutti».

Come molti artisti europei della sua generazione, Godard era politico e radicale, non respingeva anzi apprezzava la definizione di rivoluzionario. Nel 1968 contribuì – assieme, ovviamente, a Truffaut – all’interruzione anticipata del Festival di Cannes. «Noi vogliamo esprimere la nostra solidarietà agli studenti e ai lavoratori e voi ve ne state qui a parlare di dolly shots e di primi piani. Siete degli stronzi», disse ai giornalisti che gli chiesero cosa c’entrassero i film con le proteste del Maggio francese. Con questa consapevolezza fonderà il collettivo artistico Dziga Vertov – nome scelto per non lasciare dubbi su quale dei due blocchi fosse il suo preferito – con il quale girò i suoi film più politici: Vento dell’est con Gian Maria Volonté, Crepa padrone, tutto va bene con Jane Fonda e Lotte in Italia, racconto della sinistra extraparlamentare prima commissionato e poi rifiutato dalla Rai.

Spentosi il furore politico degli anni Sessanta e Settanta, Godard continuerà a dirigere più o meno un film all’anno nonostante una rilevanza ormai persa. Di lui si ricominciò a parlare nel 1987 per uno dei più clamorosi film-disastro della storia del cinema: un suo adattamento del Re Lear come racconto post apocalittico (in realtà dell’opera shakespeariana nel film c’erano solo citazioni sparse) che doveva mettere assieme il disastro di Chernobyl e il teatro di Bertolt Brecht, con un cast che nelle intenzioni di Godard avrebbe dovuto annoverare Normain Mailer, Orson Welles, Ingmar Bergman, Prince, Sting e pure Richard Nixon. Mailer abbandonò il film quasi subito, Welles morì, Sting fu alla fine giudicato non idoneo da Godard e Nixon fu costretto a rifiutare l’offerta di 500 mila dollari per girare una sola scena pervenutagli dal regista. Nessuno si prenderà il rischio di distribuire King Lear nelle sale per quindici anni.

Negli anni 2000 il cinema aveva cominciato a trattarlo come un venerabile maestro, ma lui preferiva continuare a considerarsi come il solito stronzo. Nel 2010, dopo l’uscita di Film socialisme, l’Academy decise di premiarlo con l’Oscar alla carriera: lui rispose che di certo non sarebbe andato fino a Los Angeles per ritirare «un pezzo di metallo». Negli ultimi anni, nel suo buen retiro svizzero, pensava sempre più spesso ai primi anni, quelli ai Cahiers du Cinéma. La vecchiaia lo aveva reso più conciliante, capace di riconoscere i meriti altrui nei suoi successi: «Devo ammettere che a me non sarebbe mai venuto in mente di andare a vedere Hitchcock», diceva alla fine, ricordando l’inizio.