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Justin Bieber ha pubblicato un nuovo album senza dire niente a nessuno Si intitola Swag e arriva, a sorpresa, quattro anni dopo il suo ultimo disco, anni segnati da scandali e momenti difficili.
Damon Albarn ha ammesso che la guerra del Britpop alla fine l’hanno vinta gli Oasis Il frontman dei Blur concede la vittoria agli storici rivali ai fratelli Gallagher nell’estate della loro reunion.
La nuova stagione di Scrubs si farà e ci sarà anche la reunion del cast originale Se ne parlava da tempo ma ora è ufficiale: nuova stagione in produzione, con il ritorno del trio di protagonisti.
La danzatrice del ventre è diventato un mestiere molto pericoloso da fare in Egitto Spesso finiscono agli arresti per incitazione al vizio: è successo già cinque volte negli ultimi due anni, l'ultima all'italiana Linda Martino.
Ferrero (e la Nutella) va così bene che starebbe per comprare la Kellog’s Per una cifra che si aggira attorno ai tre miliardi di dollari. Se l'affare dovesse andare in porto, Ferrero diventerebbe leader del settore negli Usa.
Il cofanetto dei migliori film di Ornella Muti curato da Sean Baker esiste davvero Il regista premio Oscar negli ultimi mesi ha lavorato all’edizione restaurata di quattro film con protagonista l’attrice italiana, di cui è grandissimo fan.
Nell’internet del futuro forse non dovremo neanche più cliccare perché farà tutto l’AI Le aziende tech specializzate in AI stanno lanciando nuovi browser che cambieranno il modo di navigare: al posto di cliccare, chatteremo.

Roman Polanski, inquisito e inquisitore

In J'accuse, il regista guarda a un fatto lontano (l'affare Dreyfus) con uno sguardo molto vicino.

26 Novembre 2019

Probabilmente il cinema di Kubrick, benché all’epoca nessuno se ne fosse accorto, era una specie di nana bianca, e quella che continua a arrivare in sala oggi, nei casi migliori, è la luce di qualcosa che ha smesso di esistere molto tempo fa. Sarà un’immagine azzardata, ma ha i suoi riscontri. Per citare l’ultimo, L’ufficiale e la spia (si chiamerebbe molto più sensatamente J’accuse, ma prima che il cinema si spenga del tutto i distributori italiani avranno comunque tempo di brutalizzare qualche altro migliaio di titoli originali) è in primo luogo un remake occulto di Orizzonti di gloria. Solo a seguire, uno straordinario film di Roman Polanski. Col passare del tempo, e lo stratificarsi dei rimbrotti per fatti commessi decenni prima, quindi ormai molto affannosamente ricostruibili, Polanski tende a sperimentare sui suoi personaggi il trattamento che continua a subire da inquisitori grandi e piccoli di mezzo mondo: li incastra in un angolo, gli toglie l’aria, e sta a vedere, da dietro la macchina, come se la cavano.

Qui, piuttosto male. Il film riduce a un dramma da camera una materia che si sarebbe prestata a qualsiasi forma di sagone epicizzante. Ma riduce è un espressione impropria, e il primo punto sono proprio le camere. Mentre in Orizzonti di gloria i luridi generalini inamidati – Adolphe Menjou in testa – ricevevano Kirk Douglas in immani e sontuosi interni principeschi, che ne riducevano ulteriormente la statura, i loro predecessori di un paio di generazioni devono quasi piegarsi per non sbattere la capoccia in soffitti dostoevskijani – aggettivo che si può tranquillamente traslare allo stato di pulizia degli interni, specie nel dipartimento lenzuola. Tutto è lurido, spiegazzato, sfatto, opaco. Incluse le trame della macchinazione antidreyfus, che dalle presunte geometrie complottiste Polanski degrada a quello che assai verosimilmente sono state: traffici di una casta meschina e corrotta, e tapponi messi uno sopra l’altro a peggiorare il buco. Con gli esterni ridotti a brevi flash di raccordo, tutto ricade sulle spalle dei protagonisti. Polanski si è fatto un giro alla Comedie Française, sicuro di trovarci sei o sette fenomeni  in grado di esprimere i sentimenti che furono, a suo tempo, la tonalità prevalente dell’affaire: odio, arroganza, bassezza, livore, stupidità e così via. E li ha trovati eccome, al punto che in qualche passaggio gli attori più popolari sembrano un tantino irrigiditi (persino Dujardin, ma soprattutto quella sardina – non in quel senso, è un fatto fisiognomico – di Garrel). L’unica signora del cast Polanski non ha invece avuto bisogno di cercarla, dal momento che ce l’aveva in casa: ma chapeau anche a Seigner, che qui fornisce una versione della matrona zozza non più circolata dai tempi di Petronio.

Il film è buio, fangoso, fumoso. Tutti infatti fumano compulsivamente, a incrementare le difficoltà respiratorie, stavolta, dello spettatore. Il primo a soffrirne però è Dujardin, che tenta invano di aprire una finestra per arieggiare i locali. Niente da fare: la finestra è rotta, e J’accuse è talmente crudele verso tutti e tutto che ai titoli di coda uno spera di veder comparire almeno la scritta “Nessun attore è stato maltrattato durante le riprese”. Di nuovo, niente da fare, ma era ovvio.

Comunque sia, difficile tornare su un fatto così lontano usando uno sguardo così vicino, ma stiamo parlando di Polanski. Cui molto evidentemente premeva dire qualcosa – o più di qualcosa – sulle oscene fobìe xenofobe (nel senso più ampio) che rischiano di soffocarci e che, trasformate in facce, smorfie e tic fanno ancora più orrore. Fieri dei calzoni rossi che nei primi mesi della Grande Guerra saranno la pacchia dei mitraglieri crucchi, questi colonnelli e capitani sono così simili (in quel senso) ai loro epigoni da cui siamo, su base oraria e a qualsiasi latitudine, ammorbati, da rendere superflue le uniche due attualizzazioni grossolane del film: l’arringa livida contro gli stranieri invasori a opera di un ufficiale ucciso dalla sifilide, un po’ telefonata, e le stelle a sei punte dipinte dalla folla sulle vetrine dei commercianti ebrei – sarebbe successo altrove e qualche tempo dopo, anche se in materia la Francia di fine Ottocento non scherzava neanche un po’. Ma tant’è: dati i tempi e la sordità generale, repetita iuvant.

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