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15:55 giovedì 18 settembre 2025
Israele vuole cancellare la sua versione degli Oscar perché ha vinto un film che parla di un ragazzino palestinese Anche perché, vincendo, The Sea è automaticamente candidato a rappresentare Israele agli Oscar per il miglior film internazionale.
Il candidato della Francia all’Oscar per il Miglior film internazionale è un film ambientato in Iran, che parla di Iran e diretto da un iraniano Dalla Palma d’Oro a Cannes alla candidatura francese agli Oscar, il viaggio di Jafar Panahi attraverso le crepe della politica e del cinema
Sulla tv del ministero della Difesa russo c’è uno show fatto con l’AI che trolla i politici stranieri Macron con i bigodini rosa, Trump che parla di gabinetti dorati, von der Leyen in versione soviet: questo il meglio che la "satira" russa offre.
Il late show di Jimmy Kimmel è stato sospeso per dei commenti di Kimmel su Charlie Kirk Commenti che però Jimmy Kimmel non ha mai fatto.
Nel nuovo film di Carlo Verdone ci sarà anche Karla Sofía Gascón, la protagonista caduta in disgrazia di Emilia Pérez La notizia ha permesso a Scuola di seduzione di finire addirittura tra le breaking news di Variety.
Enzo Iacchetti che urla «Cos’hai detto, stronzo? Vengo giù e ti prendo a pugni» è diventato l’idolo di internet Il suo sbrocco a È sempre Cartabianca sul genocidio a Gaza lo ha fatto diventare l'uomo più amato (e memato) sui social.
Ci sono anche Annie Ernaux e Sally Rooney tra coloro che hanno chiesto a Macron di ripristinare il programma per evacuare scrittori e artisti da Gaza E assieme a loro hanno firmato l'appello anche Abdulrazak Gurnah, Mathias Énard, Naomi Klein, Deborah Levy e molti altri.
Per Tyler Robinson, l’uomo accusato dell’omicidio di Charlie Kirk, verrà chiesta la pena di morte  La procura lo ha accusato di omicidio aggravato, reato per il quale il codice penale dello Utah prevede la pena capitale. 

Costruire la mitologia della moda ITALIANA

A Palazzo Reale la mostra che racconta i 30 anni in cui la moda italiana è diventata internazionale.

22 Febbraio 2018

L’annuncio, dello scorso luglio, che la mostra della primavera 2018 di Palazzo Reale sarebbe stata dedicata alla moda è stato salutato da molti come quel necessario cambio di passo che, in particolare nelle ultime stagioni e al marcare dei sessant’anni di Camera della Moda, potesse contribuire a reinventare il ruolo di Milano Moda Donna. O meglio ancora, come quel necessario momento di auto-celebrazione, o di “Bellezza Utile” come recita il titolo del bellissimo testo critico firmato dai curatori Maria Luisa Frisa e Stefano Tonchi, che potesse esplorare un patrimonio vasto, multiforme e interdisciplinare per vocazione e raccontarlo sia in rapporto al sistema italiano di cui è massima espressione, sia rispetto al panorama internazionale, che come sappiamo oggi è messo a dura prova. Lontanissima dall’essere un’agiografia glamour composta di facili momenti amarcord, ITALIANA. L’Italia vista dalla moda 1971-2001 (dal 22 febbraio al 6 maggio) è piuttosto un percorso dialettico, diviso in nove stanze e altrettanti temi (Identità, Democrazia, In forma di logo, Diorama, Project Room, Bazar, Post Produzione, Glocal, L’Italia degli oggetti) e fatto di abiti, opere d’arte, fotografie e riflessioni critiche. Un percorso che si muove attraverso quei trent’anni fondamentali che hanno visto la moda italiana affermarsi come fenomeno globale e che, sempre nelle parole dei curatori, è una sorta di «utopia distopica» formulata con la precisa «postura della militanza».

Proprio per questi motivi, ITALIANA non è la mostra di moda che uno si aspetta: di abiti, oggetti e fotografie bellissime ce ne sono a bizzeffe, certo, ma sono disposti nello spazio secondo principi non ovvi e non spettacolistici, che non puntano al “semplice” stordimento estetico né al rassicurare il visitatore su quanto già sa, ma invece richiedono un certo sforzo di comprensione attivo da parte di ques’ultimo, che seguendo un tracciato non cronologico, finirà per abbandonare molti dei suoi preconcetti sulla moda del suo Paese. C’è Giorgio Armani, ci sono i Versace, Elio Fiorucci, Miuccia Prada, Gianfranco Ferré e Franco Moschino fra gli altri, ma non sono incapsulati su piedistalli autosufficienti. Sono immersi invece in un tessuto di riferimenti dei quali, per nascere, si sono effettivamente nutriti: sono inquadrati cioè nel clima culturale che ne ha permesso e costituito la stessa esistenza, a dimostrazione della peculiarità di quell’Italian look che così bene ha descritto Silvia Giacomoni nel suo L’Italia della moda (1984): «Ma gli stampati di Pucci e le scarpe di Gucci non facevano un look italiano. Erano solo accessori Made in Italy, piccoli preziosi distintitivi, ricordo, nostalgia o speranza di un viaggio meraviglioso, di quelli che il cinema americano andava raccontando nel mondo (…) mentre l’Italian look è un’altra cosa (…) la cosa è tanto più difficile da capire in quanto esso non si sedimenta in alcune forme precise e stabili nel tempo, come i jeans americani, il blazer inglese, il loden austriaco. L’Italian look è proteiforme».

«Proteiforme», ovvero capace di assumere o rivelare improvvisamente aspetti o atteggiamenti diversissimi, come recita la definizione di Google: un look, un modo di vestire, che è diventato negli anni, in quegli anni, sinonimo di vestire bene, composto di volta in volta di capi e oggetti differenti, secondo la visione personale eppure collettiva di autori che si sono mossi in campi anche molto lontani fra loro. Il 1971 è l’anno in cui Walter Albini sceglie Milano per presentare, con una collezione unitaria, la prima linea che porterà il suo nome ed è convenzionalmente considerato l’anno di cesura che dà il via al prêt-à-porter italiano così come lo conosciamo. Il 2001, invece, è una data di chiusura emblematica, perché rappresenta il passaggio fra i due secoli e il momento in cui il sistema della moda cambia pelle e si avviano molti dei processi che vediamo in atto oggi, ma è anche l’anno dell’11 settembre, del ritorno di Silvio Berlusconi al governo e del G8 di Genova. La storia immaginata da Frisa e Tonchi si muove perciò tra questi due estremi, ideali e fattuali, scegliendo di raccontare tanto le aziende protagoniste delle confezioni italiane come Genny, Miroglio e Zamasport, che per prime puntarono su stilisti giovani come Gianni Versace o Romeo Gigli e inquadrandole in una filiera produttiva che, di fatto, è ancora oggi la migliore al mondo, quanto un lavoro di ricerca radicale come quello di Archizoom Associati, con il loro progetto di dressing design “Vestirsi è facile”, oppure accostando Ettore Sottsass e Krizia, perché in fondo si parlavano già.

Nell’ottica dei curatori, ITALIANA vuole ricostruire il discorso sulla moda italiana a partire dai molti fallimenti (soprattutto politici e istituzionali) nel costituirla, raccontarla e supportarla: è perciò un vero e proprio manifesto, sviscerato nel catalogo che accompagna la mostra e la cui immagine rappresentativa è quella scattata da Oliviero Toscani per il numero de L’Uomo Vogue del dicembre-gennaio 1971-72 e intitolata provocatoriamente “Unilook. Lui e lei alla stessa maniera”. Dentro c’è già quel concetto di performatività di genere teorizzato da Judith Butler di cui discutiamo moltissimo oggi, e che ha a che fare, anche, con il “sesso radicale” di Giorgio Armani (come l’ha definito Giusi Ferré nel suo omonimo libro del 2015). «I gesti evocati sono quelli del campionare, del riattivare, del ricombinare in modi inediti» scrivono ancora i curatori, che rivendicano così il filtro della contemporaneità nella rilettura del passato e ci costruiscono intorno una mostra intellettuale, difficile, di una bellezza utile come quella che sappiamo fare (diciamocelo, per una volta) solo noi italiani.

In apertura: Alfa Castaldi, Campagna Primavera-Estate 1971 di Walter Albini per Montedoro, da Vogue Italia dell’aprile 1971. Photo Courtesy Archivio Alfa Castaldi. Nel testo: Oliviero Toscani, Unilook. Lui e lei alla stessa maniera, da L’Uomo Vogue del dicembre-gennaio 1971-72.
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