Cultura | Libri

C’era una volta la fanzine italiana

L'artista e curatrice Dafne Boggeri ci ha raccontato i dietro le quinte della realizzazione dell'ambiziosa raccolta Out Of The Grid. Italian Zines 1978 - 2006, un volume di 400 pagine che riunisce i progetti indipendenti su carta di quegli anni.

di Federico Sardo

Pubblicato pochi mesi fa da SPRINT, Out Of The Grid. Italian Zines 1978 – 2006 è un volume di 400 pagine, stampato in mille copie, che si pone l’ambizioso obiettivo di mappare il rizomatico sbocciare di realtà indipendenti che in quegli anni si sono espresse nel nostro Paese attraverso l’autoproduzione di fanzine. Dafne Boggeri, con la collaborazione di Sara Serighelli e il contributo di Marta Zanoni, ne ha selezionate cento, ognuna presentata attraverso una scheda e delle scansioni dei materiali originali, ed è impressionante la varietà di un quadro non solo intergenerazionale ma anche multiforme negli stili, nelle tematiche, nei formati e negli immaginari di riferimento. Controculture, punk, hip-hop, collettivi queer, fantascienza, cyberpunk, tecnologia… Fanzine a volte conosciute solo ai loro autori e a una stretta cerchia di amici, e altre volte diventate parte di una sorta di vera e propria mitologia underground. Percorsi a volte molto distanti ma tutti accomunati da un trasporto e da una voglia di fare che in tempi pionieristici, e di difficoltà materiali oggi quasi impensabili per i più giovani, ancora trasmettono un’insopprimibile urgenza di comunicare passioni e suggestioni, per un progetto che non possiamo che accogliere con entusiasmo. Per questo abbiamo fatto una lunga chiacchierata con la sua curatrice Dafne Boggeri.

Intanto volevo chiederti di raccontare come ha funzionato la scelta dell’orizzonte temporale che va dal 1978 al 2006, quindi dopo le prime controculture ma in tempo per il punk, e fermandosi prima dell’esplosione dei social.
Esistono libri molto belli sulla scena editoriale italiana e straniera prodotta dalla controcultura tra gli anni Sessanta e Settanta, quella legata ai fogli di movimento, alle riviste più o meno ufficiali di liberazione e lotta sociale: diritto al lavoro, alla casa, depenalizzazione delle droghe leggere, movimenti anti-razzisti e di rivoluzione omosessuale, ma sentivamo la mancanza di una ricerca che si affacciasse sul dopo, su tutta quella produzione italiana rizomatosa e scomposta che abbiamo definito come “post-movimento pre-internet3.0”. Si parte da realtà autoprodotte che hanno inevitabilmente dovuto gestire, ognuna a suo modo, il carico emotivo e sociale della repressione post ’77, e i successivi eventi che hanno coinvolto il territorio, per citarne alcuni: la diffusione dell’eroina, l’epidemia dell’Hiv, il movimento studentesco della Pantera, il World Pride di Roma, i fatti del G8 di Genova. Si parte dall’arte postale, dalla new wave, che in Italia arriva prima del punk, si prosegue per tutte quelle espressioni musicali sfaccettate – dark, metal, mod, rock, garage, reggae – passando dal fanatismo per il calcio, per i film horror, ai giochi di ruolo, alla letteratura di fantascienza, allo skate, per arrivare al fenomeno delle zine di “style writing” in ambito hip-hop e alla scena rave, riot/femminista e queer. Attraverso un testo di introduzione, quattro conversazioni iniziali, e le schede delle 100 zine, più una, il libro è anche un pretesto per far emergere una mappa di luoghi, persone ed esperienze che hanno promosso una cultura e un agire fuori dagli schemi.

Immagino che una delle questioni più complesse sia stata reperire i materiali. Quanto tempo ha impiegato il lavoro?
L’idea è nata nel 2021, intorno al perimetro di un tavolino di un bar ai bordi di un marciapiede. Poi è stato un grande sforzo di gruppo, insieme a Sara Serighelli, Marta Zanoni, Ilenia Arosio, Leonardo Caldana, Maddalena Manera, Martina Censi, abbiamo lavorato a varie fasi del progetto. Ma il segnale del destino è arrivato quando abbiamo saputo di essere tra le realtà vincitrici del bando Italian Council 2022, promosso dal Ministero della Cultura. A quel punto il database esoterico sul quale lavoravo da un anno iniziava ad avere qualche chance di esondare nel reale. Trovate altre due realtà che credessero nel progetto e lo co-finanziassero insieme al Ministero, ovvero VANS e la fornitura di carta Sappi, siamo riuscite a tirare un sospiro di sollievo e iniziare a lavorare al volume. Una serenità relativa, perché a quel punto è iniziata la grande “danza” dei contatti (referenti dei progetti) e degli originali (per le scansioni). Il lavoro infatti non è stato solo di ricerca dei titoli ma anche del contatto con delle figure “fisiche” che potessero fare da referenti e darci l’autorizzazione a pubblicare il materiale, e agevolare il recupero degli originali o di scansioni pre-esistenti in alta risoluzione – nei casi in cui non fossimo già in possesso delle copie nelle nostre collezioni – in un clima tra La signora in giallo e Occhi di gatto

Come avete scelto quali titoli inserire? Come li hai trovati? C’è stato anche una sorta di lavoro collettivo, di passaparola? Alcune sono famosissime, mentre altre ignote ai più.
Il database si è costituito poco a poco. Il primissimo timido tentativo di allargare i nostri riferimenti è stato un invito mirato – ad alcune figure che si relazionano con una certa attitudine a varie scene – a compilare un form online. Ma ci siamo rese conto che era troppo impersonale come approccio, così abbiamo iniziato a strutturare una base di titoli imprescindibili che poi ci hanno traghettato ad altri, a cascata. Perché è proprio attraverso la lettura delle zine stesse che in alcuni casi abbiamo trovato riferimenti, recensioni o piccoli spazi promozionali dedicati a progetti affini. Alcuni immaginari li conosco bene, come quello hip hop, garage e queer, ma su altri temi come i giochi di ruolo o la letteratura di fantascienza è stata una scoperta.

Come avete selezionato concettualmente quali interventi volevate in apertura, oltre alle “schede” delle varie realtà?
Il volume si apre con quattro conversazioni tra persone chiave di varie scene, per contestualizzare meglio il clima in cui certe autoproduzioni sono state realizzate. È stato importante dare degli strumenti di base per aiutare a orientarsi su pratiche, luoghi e rituali che non esistono più, o che sono radicalmente mutati. Stefano Giardino e Glezös affrontano la prospettiva punk da Milano, tra la fine dei Settanta e gli Ottanta; Lorenza Pignatti e Gino Gianuizzi l’atmosfera del circuito on/off dell’arte a Bologna negli Ottanta; Fabiola Naldi e Pietro Rivasi il diffuso entusiasmo delle zine di style-writing dell’hip hop nei Novanta, che sono l’ultima grande ondata di autoproduzioni tematiche; mentre con Giulia Vallicelli di Compulsive Archive, in conversazione con me, introduciamo l’ambiente riot/queer femminista romano della fine Novanta, primi Duemila.

Qual è il motore principale che dà vita a un progetto di questo tipo? Volevate che restasse una testimonianza di realtà magari a rischio di essere dimenticate?
Ci sembrava il momento giusto per riuscire ad avere un confronto con le persone che quelle storie le hanno create e vissute, e per restituire un documento che serva come bussola di ricerca, studio o avvicinamento alle autoproduzioni italiane. Per questo motivo i testi sono in inglese, vogliamo che questo “oggetto” esca dal territorio nazionale e metta in connessione altri riferimenti e luoghi in cui quegli immaginari sono nati o si sono trasformati… L’idea di procedere cronologicamente e non per tematiche tiene insieme una sequenza “blasfema”, in cui si passa da una produzione all’altra con attitudini anche molto distanti tra loro. Credo si percepisca però sempre una tensione del momento, rispetto alle urgenze di vita, alle possibilità di usare certe tecniche di stampa e alla voglia di trovare alleanze per amplificare quella micro-nicchia di passioni e ossessioni.

Personalmente non ho ancora capito se restino di più le cose stampate o quelle in digitale. Quando chiude un sito non resta più nulla, però anche i materiali stampati decenni fa, soprattutto in ambito underground, sono quasi sempre pressoché irreperibili…
Le cose stampate restano, ma forse oggi più che mai dovremmo chiederci: cosa vale la pena stampare e come? Perché dalla stampa più semplice a quella più strutturata ci sono una serie di quesiti eco/etici che non possono più essere sottovalutati e che portano con sé una bella dose di complessità. Ma se parliamo di pubblicazioni non attuali allora luoghi come gli archivi, i centri di documentazione e le biblioteche, sia pubblici che privati, possono agevolare la ricerca di materiale. Per questo sono sempre più necessari, e il loro valore arricchisce il territorio e lo farà sempre di più, e le politiche culturali di una città dovrebbero orientarsi anche al supporto di queste strutture, in modo orizzontale e accessibile, non solo per le persone addette ai lavori. Poi c’è il grande mercato del collezionismo dei libri, il cui peso è paragonabile a quello del mattone. I libri sono il mezzo più accessibile per collezionare, su diversi livelli, come il loro prezzo di partenza e la sua rapida rivalutazione, le loro dimensioni ridotte e le caratteristiche di conservazione gestibili. In questo settore la domanda e l’offerta è come una marea, bisogna trasformarsi in un delfino molto motivato se si vuole trovare un determinato titolo a un prezzo accessibile, ma è anche un ambiente in cui c’è molta passione – che va oltre il commercio – e gli incontri che si fanno possono rivelarsi emozionanti.

Il quadro che esce dal libro è molto ampio, a volte convivono a poche pagine di distanza la fanzine sul writing hip hop e quella dedicata al feticismo dei piedi maschili, immagino anche con realtà e pubblici di riferimento molto distanti. Esiste secondo te una sorta di collante?
Il collante è la possibilità di poter ancora parlare del soggetto zine usando un vocabolario comune. Sembra banale ma dopo il 2006, con lo spazio sempre più ampio che alcune tecnologie hanno preso nella nostra vita e un cambio di paradigma culturale, sociale, del lavoro e del marketing, le stesse parole assumono caratteristiche troppo differenti e frammentate per poter essere tenute insieme da una categoria come questa. Da lì in poi crediamo si possa procedere solo per tematiche, contestualizzando in modo molto preciso quale significato si voglia dare a quale perimetro e a quale parola, e capita che si definisca “zine” qualcosa di diametralmente opposto nell’essenza.

Ci sono realtà che magari non conoscevi, che hai scoperto per questo lavoro, e ti hanno colpito particolarmente? (A me per esempio Fuck Bloc).
Adenoidi, un progetto di Gianni Romizi di Perugia dedicato alla mail art, pubblicato dal 1988 al 1989 su carta, e poi su floppy disk dal 1989 al 1991; e UnAla, zine degli anni Ottanta di fantascienza femminista promossa dal Club City Circolo d’Immaginazione di Milano, con testi tra i quali quelli dell’eccezionale Nicoletta Vallorani e qualche visionaria illustrazione di Marilena Maiocco.

Secondo te viene fuori un’identità di fondo tra tutte queste realtà anche molto diverse tra loro? Magari in un’ottica di valori condivisi.
Emerge la postura condivisa dell’autoproduzione, che è quell’attitudine a trovare risorse alternative con l’aiuto e il sostegno di una comunità di persone sensibili agli stessi riferimenti, inventandosi un modo di fare cose anche se non sai da dove partire, perché quel segno tangibile che crei – zine, audiocassette, dischi, scritte su una maglietta – poteva o può essere il primo passo per creare nuove relazioni inaspettate, che è poi una delle gioie del vivere.

E quale Italia ci mostrano? Mi sembra che, rispetto alla sua importanza, ci sia meno Roma di quanto uno potrebbe pensare, molto Nord, alcune sorprese, paesi che uno non si aspetterebbe, la forte presenza di Forte dei Marmi grazie a Vittore Baroni, ma che magari per chi non lo conosce è sorprendente… Quale quadro legato alla realtà socioculturale del territorio italiano vedi uscire? Secondo te come mai alcune zone, non necessariamente le più popolate o più attive artisticamente, emergono più di altre?
Il nostro carotaggio ha tracciato questa mappa ma se ne possono fare altre, infinite. Per noi è stato importante rappresentare un’ampia varietà di immaginari, da diverse parti del territorio, che avessero tratti di particolare incisività per contenuti o ricerca estetica. Da qui è chiaro che la prospettiva della voce maschile cis gender bianca è predominante, come la provenienza dal Nord Italia: tutte caratteristiche che rispecchiano la maggioranza della produzione in quegli anni, ma credo che si percepisca la cura e la volontà di far emergere anche un altro tipo di storie meno note, anche all’interno della stessa nicchia. C’è da considerare che l’accesso a una fotocopiatrice per produrre zine non era scontato fino all’inizio degli anni Duemila e comunque – anche con questo tipo di riproduzione a basso costo – l’investimento economico era notevole per un’adolescente o quasi. Oggi non è raro avere una stampante a casa, ma fino alla seconda metà degli anni Novanta le zine venivano composte con testi scritti con la macchina da scrivere, che poi venivano ritagliati e incollati sulle matrici. I titoli erano disegnati manualmente o utilizzando caratteri trasferibili, e per le immagini si fotocopiava la fotografia stampata su carta fotografica, spesso con risultati di contrasto e definizione poco esaltanti, o si creavano collage attingendo dai contenuti delle riviste.

Oggi le controculture comunicano attraverso Instagram?
Possono decidere di farlo ma anche no.

Fare fanzine “alla vecchia maniera” potrebbe ancora essere considerato rivoluzionario o sarebbe retroguardia, e i corrispettivi odierni di chi animava questi progetti decenni fa comunicano e creano comunità attraverso altri mezzi?
Dal 2013 a Milano, ogni fine novembre, curo – come pratica artistica – SPRINT, salone di editoria indipendente e libri d’artista, nel quale ospitiamo realtà locali e internazionali che promuovono zine, riviste, libri, dedicati a ogni linguaggio espressivo, dal disegno, alla fotografia, alla parola… La scena si è trasformata, ma la dinamica rimane simile: si presenta a distanza ravvicinata quello che si ritiene abbia senso e sia urgente comunicare. Non è detto che il risultato sia univocamente interessante ma essere selezionat3 con il proprio materiale e rappresentarlo davanti a una scia di persone che lo osserva e lo giudica non è da sottovalutare come momento di messa in gioco. Rispetto al passato sono profondamente cambiati gli argomenti. Oggi l’elemento artistico ricopre un grande spazio, e c’è meno spinta a rappresentare tematiche musicali/sociali che magari si ritiene più efficace promuovere su altri canali. Ma personalmente credo che rimanga fondamentale la questione dell’attitudine. Se parti da una zine perché vuoi arrivare al brand ti consiglierei di farlo direttamente, senza iniziare dalla zine.

Si dice (lo dice per esempio il New York Times Magazine) che oggi le sottoculture siano state sostituite dalle aesthetic, sei d’accordo?
In parte sì, e renderei la frase più esplicita: oggi le sottoculture sono spesso sostituite dal marketing – tra l’altro credo che potremmo definire la prima aesthetic moderna proprio quella italiana dei Paninari. Ma sulle sottoculture storiche e potenziali potremmo fare un simposio, perché gli aspetti da considerare sono moltissimi, legati a come si attraversa l’adolescenza, con quali sogni, desideri, aspirazioni e quale futuro si vuole costruire o si vuole distruggere. Ma qui lascerei spazio all’ignoranza, cioè a quello che ignoro e che magari sta nascendo dietro l’angolo e forse conosceremo per caso. Perché oggi si pensa che qualsiasi cosa che non è sulla rete non esista; ma magari c’è, o sta nascendo e non ha interesse a essere rappresentata in quel contesto… Poi chissà se ne rimarrà traccia attraverso una zine o altro.