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Rileggere Mattatoio n.5 è un buon modo per riscoprire il pacifismo

Il capolavoro di Vonnegut è la lettura giusta per chi vuole conoscere un pacifismo adulto, consapevole dell'inevitabilità della violenza e capace di respingere i tentativi di ridicolizzazione.

di Ferdinando Cotugno

C’è una voce alla quale penso spesso in queste settimane, da quando ho riletto il suo capolavoro anti-militarista all’indomani del 7 ottobre, nei giorni dell’assedio di Gaza e del massacro di migliaia di civili: è quella di Kurt Vonnegut. Lo scrittore è scomparso nel 2007, e tanto di quello che aveva da dire lo ha lasciato nel romanzo Mattatoio n.5, uscito nel 1969 per la prima volta. Vonnegut aveva fatto l’esperienza di uno dei più spietati bombardamenti mai fatti su degli esseri umani, quello di Dresda da parte degli Alleati nel 1945, e l’aveva fatta da ostaggio, da fante americano prigioniero dei tedeschi, chiuso dentro un mattatoio a sperare di non morire, come quasi tutti in città. Lui non morì, e ci mise più di vent’anni a dare un senso a quell’orrore da decine di migliaia di vittime in pochi giorni. Mattatoio n.5 esce quindi alla fine degli anni Sessanta, inevitabile commento a un’altra grande guerra del Novecento, quella del Vietnam, ed è un libro che servirebbe riprendere in mano a ogni nuova guerra, quindi a questo punto converrebbe lasciarlo permanentemente sul comodino, come un breviario.

Il romanzo è una torta con tanti strati temporali e narrativi che si intrecciano. C’è l’autore che vuole scrivere un libro su Dresda. C’è il soldato protagonista del libro, Billy Pilgrim. Ci sono gli alieni tralfamadoriani che spiegano a lui e a noi la vita e il tempo, e che ne fanno anche un caposaldo della fantascienza americana. Nel primo strato, dove Vonnegut è Vonnegut, senza maschere, l’autore racconta a un produttore cinematografico il suo progetto di scrivere una storia contro la guerra, e lui gli risponde sprezzante: «Perché non scrive un libro contro i ghiacciai, allora?». È andata che aveva ragione e torto, quel produttore: la guerra è rimasta, amplificata in ferocia e crudeltà, ma nel frattempo abbiamo iniziato a perdere anche i ghiacciai. So it goes, così va la vita, avrebbe detto Vonnegut.

Quando presenta la prima bozza del libro sul bombardamento di Dresda, Vonnegut scrive al suo editore: «È così breve, stonato, confuso, perché non c’è nulla di intelligente da dire su un massacro. Dopo un massacro tutto dovrebbe tacere, e infatti tutto tace, sempre, tranne gli uccelli». Dire del proprio libro sulla guerra che sulla guerra sarebbe stato meglio tacere è un paradosso, ed è lo stesso paradosso in cui ci troviamo tutti oggi. Eppure non possiamo tacere, proprio come Vonnegut non poteva non scrivere Mattatoio n.5.

Una mente anti-militarista è una mente affascinante, sono anni in cui il pacifismo viene sostanzialmente deriso più che confutato, raccontato come un’ideologia allo stesso tempo sciocca e granitica, la religione acritica degli ingenui, e invece Vonnegut descrive i processi mentali e in un certo senso l’autobiografia collettiva del pacifismo. Sarà stato anche sconfitto dalla storia, proprio come i ghiacciai, ma il pacifista la storia la conosce, la frequenta, sa guardarla nella sua interezza, cosa che i generali e i loro fan non sanno spesso fare. Mattatoio n.5 disinnesca l’orrore che racconta con uno strumento peculiare: il senso dell’umorismo. È un libro divertente, si ride spesso leggendolo. Come ha scritto Salman Rushdie sul New Yorker, in Mattatoio n.5 «c’è tanta comicità, come in ogni cosa che scriveva Kurt Vonnegut. Non si spinge a vedere la guerra come una farsa, ma come una tragedia così grande che solo la commedia ci permette di guardarla negli occhi. Vonnegut è un comico con la faccia triste, è Buster Keaton».

Sotto la maschera di questa comicità, c’è una traccia di quel pacifismo adulto che sa confrontarsi con l’inevitabilità della violenza senza farsene schiacciare. Oggi invocare la pace sembra una postura retorica, per anni l’abbiamo associata più a chi vince un concorso di bellezza e chiede la «pace nel mondo», che a una posizione morale e politica che si può ancora avere di fronte al mondo. «La verità», scrive Rushdie, «è che Mattatoio n.5 è un romanzo realista. Forse è impossibile fermare le guerre, ma vale ancora la pena cercare una forma e un linguaggio che ci ricordino cosa sono le guerre, che le chiamino col loro vero nome. Ed è quello che fa il realismo». E riappropriarsi del realismo, come faceva Kurt Vonnegut parlando della sua Dresda massacrata, deve tornare a essere una postura legittima.

È un realismo diverso, rispetto a quello militarista, la cui posizione perenne è: le guerre ci sono sempre state, le guerre ci saranno sempre, quindi è meglio combatterle senza farci troppe domande esistenziali. La statistica è dalla loro parte, però il realismo pacifista ha pazientemente contribuito a disinnescare un Olocausto nucleare, che a un certo punto, per generazioni, è sembrato uno scenario plausibile, con il quale convivere, e invece (per ora) non si è verificato. L’illusione della pace, soprattutto nell’Europa dell’Unione costruita dopo secoli di reciproci conflitti, ci ha indirizzato su altre minacce, al massimo ci siamo occupati di terrorismo, perdendo le parole per opporci in modo radicale e sensato alla guerra. Il pacifismo nel frattempo è invecchiato, oggi sembra una cosa da anziani. Il paradosso è che i più attrezzati a prendere parola contro la guerra sembrano i patriarchi di un altro secolo (Santoro, Ovadia, o Strada, se fosse ancora vivo) oppure i giovanissimi che ci chiedono «Ma siete pazzi?», con le generazioni di mezzo che spesso non sanno cosa dire. Il pacifismo occidentale ha perso decenni di crescita, di evoluzione, di confronto con le contraddizioni della realtà, e infatti si è trovato in crisi cognitiva quando ci sono state queste due nuove, grandi guerre generazionali una attaccata all’altra. Rileggere Mattatoio n.5 è un buon modo per ritrovare un pacifismo realista, che non deve avere paura di sé stesso, della scala della sua richiesta.

In una delle scene più belle del libro, Vonnegut cerca un suo vecchio commilitone per farsi aiutare a ricordare cosa è successo a Dresda. Gli telefona, compra un whisky e va a trovarlo. Il personaggio interessante di questa scena non è il suo amico ma la moglie, che si chiama Mary O’Hare. Lei non conosce lo scrittore, ma lo tratta malissimo, sbatte le cose quando apparecchia, è ostile e alla fine se ne va. Vonnegut chiede al suo amico perché sua moglie lo odi senza motivo e alla fine torna lei a spiegarglielo.

Mary non voleva che lui scrivesse un libro sulla guerra. Non solo perché non si può dire niente di intelligente su un massacro, ma perché «eravate solo dei bambini, durante la guerra. Come quelli che stanno giocando di sopra». E poi prosegue: «Lei fingerà che eravate degli uomini anziché dei bambini, e poi ne tireranno fuori un film interpretato da Frank Sinatra o John Wayne o da qualcun altro di quegli affascinanti vecchi sporcaccioni che vanno pazzi per la guerra. E la guerra sembrerà qualcosa di meraviglioso, e ne avremo tante altre. E a combatterle saranno dei bambini, come quelli che ho mandato di sopra». Vonnegut le promise che non ci sarebbe stata nessuna parte per John Wayne o Frank Sinatra, e che il libro si sarebbe intitolato La crociata dei bambini, che è il sottotitolo di Mattatoio n.5. Mary O’Hare metteva in guardia lui e noi sulla trasformazione della guerra in metodo, in un metodo desiderabile, bambini che poi la tramanderanno fingendosi uomini, diventando John Wayne, portando lo stesso massacro da un secolo all’altro, da un tipo di armamento all’altro, da una crociata dei bambini all’altra.

In un altro punto del libro, Vonnegut racconta che il soldato Billy Pilgrim durante il bombardamento è messo così male che altri prigionieri, degli inglesi, gli dicono: «Mio dio, ma cosa ti hanno fatto, ragazzo? Questo non è un uomo, è un aquilone rotto», che mi sembra la miglior definizione possibile per i corpi umani che stanno provando a resistere al genocidio a Gaza: aquiloni rotti. E poi Vonnegut racconta che Billy si chiedeva «se da qualche parte ci fosse un telefono. Voleva chiamare sua madre, per dirle che era vivo e stava bene». Non era un pensatore ingenuo, era tutt’altro che un ingenuo, comprendeva le complessità della storia, e di ogni storia. Ci chiedeva solo di ricordarci, a un certo punto, che questa è sempre una crociata fatta dai bambini sui bambini, costretti a fingersi uomini, che poi si racconteranno come tali per tutta la vita, e poi John Wayne, e poi altre guerre, altre vendette, e così via, fino a qui.