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Come si scrive una serie italiana di successo

Ne abbiamo parlato con gli sceneggiatori Leonardo Fasoli e Massimo Bavastro, autori di Io ti cercherò, la fiction andata in onda su Rai1 a ottobre e diventata un libro.

di Leonardo G. Luccone

Una scena da Io ti cercherò, su Rai 1 lo scorso ottobre

Io ti cercherò è una serie tv andata in onda su Rai1 nel mese di ottobre in prima serata; quattro puntate che hanno raggiunto uno share medio del 19 per cento e un’ottima accoglienza critica («Tratti crudi e realismo che rinviano all’esempio delle migliori serie crime americane», Stefano Balassone su la Repubblica). La serie è stata scritta da una squadra di sceneggiatori esperti: Leonardo Fasoli, Maddalena Ravagli, Monica Rametta e Massimo Bavastro, per la regia di Gianluca Maria Tavarelli (Il giovane Montalbano, La mossa del cavallo). Negli stessi giorni è uscito per Longanesi un romanzo con il medesimo titolo e scritto dal solo Bavastro. L’aspetto rilevante e anomalo è che il libro è stato scritto mentre erano in corso le riprese. Abbiamo parlato con Fasoli e Bavastro e siamo entrati nel laboratorio dei due progetti.

ⓢ La prima cosa che voglio chiedervi è se siete soddisfatti, da sceneggiatori e da spettatori.
Bavastro: Credo che in fin dei conti ognuno di noi lavora per degli spettatori che ha nella testa. Da qualche anno per me sono i miei figli, e la domanda è «sono orgoglioso di guardare questa cosa con loro?» La risposta stavolta è sì: ce la siamo guardata insieme e ci è piaciuta. La sceneggiatura è il testo dal quale parte il lavoro, coordinato dal regista, di cinquanta persone che sono il costumista, lo scenografo, il direttore della fotografia… Quindi quel materiale che tu hai scritto può esplodere e andare anarchicamente in mille direzioni. In questo caso, anche grazie al rapporto stretto, e che dura da tempo, tra Leonardo e il regista, Tavarelli, questa unità di intenti si è realizzata e la serie è proprio quella che ci immaginavamo.

ⓢ Farei un passo indietro e partirei – Leonardo se te lo ricordi – da quando alla Rai hai presentato il pitch di Io ti cercherò. Ti ricordi come glielo hai presentato?
Fasoli: No, con esattezza no. Quello che ricordo è che cercavo una storia dove i sentimenti e i personaggi fossero familiari e condivisibili e ho pensato al rapporto padre-figlio, o meglio al modo in cui i padri guardano i figli. Mi è subito venuto in mente mio padre: per lui non ero esattamente il figlio che avrebbe voluto. Non me lo diceva, però dal suo sguardo lo capivo: ero troppo buono, un po’ fragile, sensibile, non ero abbastanza agguerrito, e pensava che essere così non mi avrebbe aiutato nella vita. Nei suoi occhi leggevo questa leggera delusione, che diventa per un giovane incolmabile. Allo stesso tempo ora, avendo dei figli, cerco di osservare questa stessa situazione: perché, a volte, mi aspetto che mio figlio sia una mia reiterazione all’infinito e non qualcosa di completamente diverso? Da questo nodo, da come un padre guarda un figlio, è venuta fuori l’idea che ho tradotto in una crime story, dove il padre era un poliziotto, e ho immaginato che padre e figlio vivessero una sorta di incomprensione dovuta alle loro opposte visioni del mondo: quella del poliziotto che tende sostanzialmente alla chiusura, e quella del figlio, invece, all’apertura.

ⓢ Ho l’impressione che qui, come lavoro di sceneggiatori, sia passato molto della vostra proposta e abbiate teso la corda della Rai, che abbiate proposto un prodotto decisamente innovativo per Rai1 e più in generale per la proposta della prima serata. Avete sentito che dovevate farlo in questo momento con questo tipo di storia, volevate farlo comunque, avete osato, o non ve ne siete nemmeno tanto accorti – solo poi, quando ve l’hanno accettata e avete cominciato a lavorarci, avete detto «cavolo com’è possibile?».
Fasoli: Il mondo della serialità, della scrittura, dei network, sta cambiando rapidamente e in maniera progressiva: è un processo nuovo col quale ancora tutti, Rai compresa, stanno prendendo le misure. Noi da sceneggiatori abbiamo sempre provato a innovare, ma con risultati alterni. Ricordo che una delle primissime proposte innovative – più di venti anni fa – riguardava una serie di gialli con un’investigatrice che aveva delle visioni e vedeva alcune parti dei delitti. La Rai pareva entusiasta: «Ah che bella questa serie, la vogliamo fare assolutamente, però dobbiamo togliere le visioni dell’investigatrice». E io: «Ma quella è proprio l’idea della serie!». Con il passare degli anni le resistenze della Rai sono diminuite e noi abbiamo continuato a fare proposte che ci sembrassero giuste soprattutto da spettatori. Non crediamo, infatti, in quella teoria per cui il pubblico della Rai è un pubblico che se vede cose realistiche e poco rassicuranti, dove il cielo non è tutto azzurro, e non ci sono preti o suore che risolvono brillantemente qualunque caso di omicidio in un piccolo paese, perde la testa e disdice l’abbonamento. Crediamo, al contrario, che esista una fetta di pubblico che anzi vuole essere sollecitata con prodotti che vanno seguiti con più attenzione, che stimolano le domande. Ogni volta proviamo a scommetterci e quando va bene, come in questo caso con Io ti cercherò, ci sentiamo rassicurati perché probabilmente anche per la Rai può diventare un innesco per produrre altri racconti del genere.

Bavastro: Ho scritto le prime serie per la tv insieme a Leonardo quasi vent’anni fa – erano Ultimo, L’infiltrato con Bova e R.I.S Delitti imperfetti. Da allora sento che abbiamo sempre provato ad alzare l’asticella. A volte ci siamo anche riusciti, con 48 ore per esempio, una serie prodotta da Mediaset nel 2004. Però l’hanno mandata in onda la notte di ferragosto, perché il coraggio per produrla c’era stato, ma quello per sostenerla e per metterla in una programmazione per cui fosse competitiva, e potesse veramente giocarsi la partita, no. Era una serie cupa, come lo è Io ti cercherò. Ed era scura anche cromaticamente. E allora dalla seconda puntata l’avevano schiarita, erano intervenuti in post-produzione pensando che fosse troppo scura: insomma, c’era stato una sorta di tradimento immediato.

Fasoli: La televisione fino a dieci anni fa, almeno per la maggior parte dei casi, doveva raccontare “storie”, si riteneva che la gente non volesse conoscere la realtà. Alla Rai questa linea di pensiero veniva espressa con chiarezza evidenziando due punti: il primo era ritenere che la gente avesse bisogno di evasione, quindi guardare la tv significava allontanarsi dalla realtà, tutto doveva essere azzurro, pulito, chiaro, casi semplici da risolvere. Il secondo punto era considerare che chi guardava la televisione lo facesse distrattamente. La tv, con quel piccolo schermo, era un oggetto che stava lì in salotto tra mille altri. La conseguenza per noi era che bisognava spiegare con la voce tutto quello che accadeva. Su Canale 5 Valsecchi riempiva qualsiasi vuoto con le voci, mettiamo una scena in cui si raccontava un attacco alla casa del boss: «Ecco stiamo attaccando la casa del boss, tirate fuori le pistole, nella seconda finestra vedo un uomo che si sta armando». Queste modalità sono profondamente anti-cinematografiche – il cinema è un linguaggio visivo – e hanno fatto sì che la tv divenisse una specie di sorella di serie B, tra la radio – perché una serie in questa veste somigliava più a un radiodramma – e il cinema; la tv era incastrata in mezzo a due titani. Negli ultimi dieci anni, questo è cambiato completamente per diverse ragioni: oggi le televisioni dentro casa hanno dei megaschermi con una definizione altissima, inoltre dall’estero richiedono continuamente storie che siano vere, la fame di realtà è diventata un’esigenza percepita da tutti quelli che lavorano in questo campo. È anche cominciata una battaglia tra cinema e televisione come forma di racconto della realtà, che vede, in certi casi, il cinema sconfitto quando, per esempio, racconta storie facili o di supereroi; e così la televisione, al contrario, è diventata il luogo dove poter raccontare con più profondità personaggi, sfumature, dove potersi permettere tempi morti, sperimentazioni, pensiamo a Mad Men. E noi, che eravamo in mezzo tra cinema e televisione, ci siamo ritrovati fortunatamente a poter giocare quella partita che ci era sempre stata negata.

ⓢ Per estendere un po’ il ragionamento e concentrandoci sull’oggi, voi come sceneggiatori trovate che la differenza tra la Rai e Netflix, i vostri possibili interlocutori, sia così marcata? Mi chiedo: se tu firmi un contratto con Netflix, scrivi la serie in un altro modo?
Fasoli: No, tendenzialmente non cambia il mio modo di scrivere in base all’acquirente che ho di fronte. In qualsiasi caso bisogna tener presenti le eventuali ingerenze, è una continua battaglia prima di arrivare alla fine. È un mondo, come ho già detto, in una fase di grande cambiamento; spesso cambiano solo le ragioni delle ingerenze. Con Netflix, per esempio, hai a che fare con persone che cambiano idea in corso d’opera perché seguono un algoritmo, per cui se la settimana precedente ti hanno detto: «Guarda, bellissima questa parte delle due donne», la settimana successiva magari – perché l’algoritmo ha calcolato che al pubblico piacciono di più i rapporti tra adolescenti – potrebbero chiederti: «Non è che riusciamo a inserire personaggi che sono più giovani, una magari che ha sedici anni?»; con Canal+, in Francia, puoi dover considerare altre cose. A seconda dei paesi, dei dirigenti, in questo mercato che si sta aprendo, hai delle cose diverse da considerare. Spesso ci ritroviamo a proporre un progetto e a dover resistere il più possibile per mantenere la rotta e, paradossalmente, è possibile trovare meno resistenza in strutture che stanno cercando di cambiare piuttosto che in Netflix.

ⓢ Un altro punto che mi sembra importante è la definizione del genere di questa serie. Se ripenso al serpentone di messaggi su Twitter durante la diretta si va dal «perché l’hanno fatta in questo romano così verace? Devono mettere i sottotitoli» a «ma che cos’è, un noir? una storia d’amore padre-figlio?». Ho citato queste ultime perché mi sembra voi siate riusciti a intrecciare due cose che vanno forte ma quasi mai compaiono insieme, forse in qualche polar francese di molti anni fa. A tratti ho sentito il lato familiare e torbido del noir, alla Hammett per capirci, e questo afflato mélo. Mi sembra interessante questa miscela. Era deliberato o queste tinte le avete scoperte a mano a mano?
Fasoli: Sicuramente è una richiesta che viene fatta adesso; per esempio Netflix chiede moltissimo di provare nuovi generi o di creare intrecci tra generi diversi. Personalmente, mentre scrivo, non penso mai né al genere né alla struttura vera e propria, non mi concentro nel pensare se sarà da tre o cinque atti. Cerco di lavorare sulle idee belle, sulle immagini potenti, di approfondire con grande passione il mondo che ho scelto di raccontare: studio tutto quello che posso studiare, leggo tutto quello che sia leggibile, intervisto ogni persona in grado di aiutarmi, faccio una totale immersione in un certo contesto e poi lascio andare la mia parte «creativa»… Quello che emerge è un misto di generi: ci sarà la commedia, il dramma, il thriller; è un po’ quello che accade nel nostro vissuto, almeno nelle parti più intense. A volte è interessante inserire anche le parti noiose. Possiamo immaginare un personaggio seduto su una sedia per ore a non fare niente, fantastica, scriveremo sul cartellino: “Stava seduto a pensare”. In True detective ci sono un sacco di parti dove il protagonista anziano si annoia, o sta lì che pensa o passeggia e sono scene molto belle. La cosa migliore è, per me, quella di pensare fuori dal genere, di non mettere la gabbia intorno a noi.

ⓢ Qual è stata la vostra impressione quando avete visto il montato? C’è qualche scena o qualche momento della serie che volete citare perché particolarmente sorprendente sia in un senso che nell’altro?
Fasoli: Mi viene in mente una scena che non mi ha convinto, si tratta dei funerali di Ettore. Per quella mi ero ispirato a un vero funerale di un ragazzo che si era ucciso e al quale avevo assistito. C’era un gruppo di dieci amici che si era avvicinato all’altare, camminando come in formazione tartaruga degli antichi romani, uno abbracciato all’altro, proprio per tenersi in piedi perché se fosse crollato uno sarebbero crollati tutti, e avevano parlato di questo ragazzo – sempre tenendosi tutti abbracciati – in un modo molto solare, erano sorridenti e vederli creava sensazioni fortissime. Quell’abbraccio e quelle risate erano così stridenti rispetto alla gravità di quanto successo, ma dietro a quell’apparente leggerezza si riusciva a percepire tutto il dolore. Nella scena della serie, invece, tutti piangevano, era esattamente l’opposto di quello che avevo scritto e di quello che avevo vissuto.

Bavastro: Neanche io ho amato il modo in cui è stata girata quella scena. Allo stesso tempo però ho scritto delle scene che non avrei mai osato scrivere per nessun altro regista e per nessun’altra serie: abbiamo scritto delle scene quasi mute fidandoci del fatto che il regista avrebbe saputo raccontare quei gesti e quegli sguardi.

Fasoli: Oggi, nelle nuove serie, al regista è richiesto un certo livello di preparazione, deve essere in grado di fare certe cose. Gianluca Tavarelli è bravissimo, possiede quella preparazione che oggi viene cercata in un regista. E noi sceneggiatori vogliamo che venga girato quello che viene scritto. Oggi il pubblico giovane è più esigente e noi, di conseguenza, dobbiamo essere più esigenti con il nostro lavoro di scrittura e più esigenti anche con chi realizza quello che noi scriviamo.

Bavastro: Celebriamo questo momento in cui le cose vanno sempre meglio. Ricordo una riunione, quindici anni fa, in cui eravamo noi due e il regista che si apprestava a girare una serie che avevamo scritto. E tutto quello che il regista ci aveva detto di una serie di ventiquattro puntate da cinquanta minuti era stato: «Ho pensato che questo personaggio è un appassionato di orologi, quindi mi piace immaginarlo che mette a posto i suoi orologi». Questo era tutto quello che era passato tra il regista e gli sceneggiatori per mettere su una serie.

Il libro omonimo di Massimo Bavastro, per Longanesi

ⓢ Vorrei dire qualcosa sul passaggio dalla sceneggiatura al romanzo. Questo racconto è un’anomalia perché di solito è il romanzo a dare vita a un film o una serie; in questo caso invece il romanzo è stato commissionato dopo la realizzazione della serie. Si passa da un team di quattro sceneggiatori a un narratore che apparteneva a quel team; il libro è uscito per Longanesi, un editore che si occupa specificamente di quel tipo di narrativa. Insomma, le condizioni ci sono tutte. Massimo com’è andata?
Bavastro: Partivo da un lavoro molto accurato che avevamo fatto sulla sceneggiatura. Che da una parte aveva questa struttura super solida, era un noir con una struttura di ferro; e dall’altra proponeva dei personaggi forti e che, a parere di tutti, potevano essere ulteriormente approfonditi.  La struttura della serie, questa vicenda noir che si snoda in modo così preciso, incalzante, pieno di colpi di scena, era una specie di argine e di guida che io potevo seguire. L’idea che avevo mentre scrivevo è che mi trovavo su una canoa e mi stavo facendo trascinare dalla corrente: quello che vedevo seguendo la corrente erano tutti gli avvenimenti che accadevano; e io potevo fermarmi ogni volta, mettere il remo nell’acqua e indugiare su una situazione. Ed è questo che ho cercato di fare, lavorando sull’approfondimento dei personaggi. Spero di aver scritto un noir inattaccabile dal punto di vista strutturale ma allo stesso tempo un romanzo che sia uno studio di personaggi.

Il secondo aspetto a cui fai riferimento, e cioè il fatto che mentre scrivevo c’erano già delle immagini, è stato un ulteriore elemento molto interessante. Un giorno ho chiesto al montatore di mostrarmi non le scene, ma semplici fotogrammi: volevo sapere in che modo le nostre idee visive erano state realizzate. Lo scrittore assorbe in sé quello che nel cinema è diluito tra il direttore della fotografia, il costumista, lo scenografo, ecc. Ogni romanziere deve essere tutte queste cose insieme: deve vestire i suoi personaggi, deve raccontare la luce che li colpisce, deve cercare l’ambiente più suggestivo all’interno del quale farli muovere… Una sceneggiatura è un testo che da una parte deve essere abbastanza chiara da permettere a tutti quelli che poi faranno il film di realizzarlo, ma anche poi non così vincolante, in modo da permettere a tutti gli altri di metterci il loro, di arricchire questo materiale. Nel momento in cui mi sono messo a scrivere il romanzo avevo anche a disposizione il frutto di questi semi che erano stati posti con la sceneggiatura e tornavano fecondati dal lavoro di tutti gli altri professionisti. Ovviamente alcune scelte erano più prevedibili, altre erano sorprendenti.

ⓢ Vuoi fare un esempio?
Bavastro: L’attaccapanni pieno di cappelli da carabiniere durante la festa di capodanno a casa di Valerio. Avevo visto un fotogramma che mostrava gli ospiti della festa e dietro, molto piccolo, c’era un attaccapanni da cui pendevano i venti cappelli. Lo scenografo, che doveva arredare una festa nella casa di un carabiniere, aveva semplicemente fatto il suo dovere. Ma per me, che dovevo riscrivere la scena in forma di romanzo, quell’attaccapanni è diventato un elemento simbolico centrale. Ne ho fatto il perno della scena, perché ho immaginato Valerio, il protagonista, che guarda questo attaccapanni felice, e continua ad attaccare questi cappelli – e il fatto che questi cappelli non stiano sull’attaccapanni significa che la sua casa è piena di carabinieri e a lui questa cosa piace tantissimo, perché lui è cresciuto in una famiglia di carabinieri: è figlio di carabiniere, marito di un carabiniere, fratello di carabiniere, e in questo attaccapanni pieno di cappelli vede una specie di apoteosi, di realizzazione esistenziale. A un certo punto porta il figlio davanti a questo attaccapanni e gli dice: «vedi, questo per me è il vero albero di Natale». È una cosa visiva e narrativa e non avevo bisogno di nient’altro per descrivere Valerio e il suo spirito di appartenenza.

Fasoli: Per me era una stonatura, non me l’ero immaginata così. Nel mercato americano, che in questi anni ha segnato, più di ogni altro, la svolta nella produzione delle serie, è richiesto allo scrittore di sapere tutto, poi questo quadro che ha costruito mentalmente gli verrà fatto vedere. In America lo showrunner, lo scrittore, segue tutte le fasi lavorative, e ci sarà uno scenografo che, seguendo le sue richieste, gli porterà diverse foto per mostrargli come ha immaginato gli ambienti, poi è lo sceneggiatore a decidere quale somiglia di più alla sua idea. Questo processo oggi è necessario, non possiamo scrivere una scena senza sapere tutti i dettagli che la comporranno. Nella scrittura di impronta americana la sceneggiatura è scritta con molta precisione, va anche detto che cosa inquadrare, come allargare l’inquadratura. Sei sì costretto, a differenza di quanto avviene con il romanzo, a un linguaggio sintetico – anche per questo serve l’apporto di uno scrittore come consulente – però lo sceneggiatore deve conoscere tutto nel dettaglio, avere assoluta certezza del mondo che sta raccontando. Quello che manca quasi totalmente è la possibilità di scrivere gli stati d’animo e i pensieri dei personaggi: nella scrittura cinematografica il pensiero tendenzialmente non c’è o viene affidato a una voce off, però è una modalità che contrasta con il concetto di scrittura per immagini. Ecco cosa mi diceva Sollima quando scrivevamo Gomorra: «A frate’, te pago una cena per cinque scene senza una battuta de dialogo». Nella scrittura per immagini contano le immagini.

Bavastro: Che cosa pensi della scena del motel con la vasca con l’idromassaggio nella camera? Ci sono delle situazioni in cui si viene un po’ colti di sorpresa, o solo io sono stato colto di sorpresa nel vedere che l’incontro al motel tra Valerio e Sara si svolge in quella stanza così arredata?

Fasoli: Avevo in mente un altro ambiente.

Bavastro: Esatto, anche io. Avevo in mente un’ambientazione del tutto diversa. E però questa e altre scelte che sono uscite dal controllo degli sceneggiatori mi sembra di averle usate in modo interessante. Nel romanzo ho usato questo ambiente contro lo scenografo: faccio dire ai personaggi «che cazzo c’entra questo idromassaggio da bordello con noi due?». In questa scena c’è tra loro due il redde rationem. Sara dice a Valerio le stesse cose che gli dice nella serie. Ma che le dica qua, in un posto “sbagliato”, stridente, che sembra un bordello e perciò tradisce il senso profondo della loro storia, le rende a mio parere ancora più dolorose.

Fasoli: Questa è una cosa che noi scrittori di serie non possiamo più accettare. Lo scenografo deve proporre quello che è giusto, non quello che vuole lui. Ci deve essere un regista che dirige tutto e che decide quali delle cose che gli stanno proponendo sono più vicine a quella che vuole lo sceneggiatore. Ogni reparto è al servizio di un immaginario preciso: se prima era l’immaginario del regista, oggi deve essere quello dello scrittore. Laddove lo scrittore non ha avuto la capacità di immaginare con precisione il mondo che sta proponendo ha fatto male il suo lavoro. Oggi non è più permesso delegare, e ritenere la sceneggiatura una sorta di canovaccio da cui poi tutti gli altri partono per riempire con le loro idee. Oggi lo scrittore controlla e conosce il mondo che sta proponendo, il suo apporto nella fase di realizzazione è essenziale, tanto è vero che nelle serie migliori, sia in America che in Italia, è lui a dirigere la scena. Avviene un continuo travaso di esperienze tra lo scrittore e la regia, con una perfetta sintonia tra i due ruoli. In Italia, purtroppo, ancora troppo spesso vediamo scrittori-canovaccio e registi-dittatori, ed è questa la battaglia che va combattuta, lo sceneggiatore deve avere più spazio.

ⓢ Considerazione laterale: mi piace che avete usato la parola «scrittore» come se «sceneggiatore» fosse insufficiente. Massimo, questo è di fatto il tuo primo romanzo. Quanto sei riuscito ad assecondare la tua passione per Simenon? Come hai lavorato sulle due voci narrative presenti nella sceneggiatura?
Bavastro: Quando è arrivata la proposta di scrivere il romanzo ovviamente la prima chiacchierata l’ho fatta con Leonardo. Secondo lui poteva essere raccontato moltiplicando le prospettive, inserendo intercettazioni telefoniche, documenti che poi erano quelli reali che stavano alla base della scrittura, e questa era sicuramente una possibilità. Un’altra era quella di tenere almeno l’altra voce che è presente nella serie (oltre a quella, prevalente, di Valerio, il padre), e cioè quella di Ettore, il figlio. Ogni puntata è introdotta da un flashback che riguarda Ettore, e ciascun flashback è accompagnato dalla voce fuori campo del ragazzo. La mia prima scelta è stata perciò quella di provare a tenerla dentro il romanzo. Invece non funzionava: quella voce letteraria era perfetta per la serie ma non andava bene sulla pagina, e quindi alla fine ho ristretto la prospettiva a Valerio. L’ho raccontato in una specie di soggettiva in terza persona, che è appunto il modo in cui Simenon ha raccontato quasi tutte le sue storie. C’è un protagonista, che è la guida del romanzo, e tutto quello che noi sappiamo lo sappiamo perché lo sa il protagonista, il lettore non è mai più avanti rispetto a lui. Ecco: mentre nella serie ci sono almeno dei droni che ogni tanto offrono una visione dall’alto della città, il romanzo non è mai rischiarato da nessuna prospettiva simile.