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È stato ritrovato il pilot dei Griffin, che tutti pensavano fosse andato perduto 30 anni fa. La scoperta l'ha fatta un utente del sito Lost Media Community, che lo ha subito pubblicato su YouTube.
La sorprendente somiglianza tra Jude Law e Vladimir Putin nella prima immagine del film Il mago del Cremlino. Diretto da Olivier Assayas, è l'adattamento del romanzo omonimo di Giuliano da Empoli.
I ministri di Trump hanno aggiunto per sbaglio un giornalista in una chat in cui si discuteva di bombardamenti in Yemen. E non un giornalista qualsiasi: il direttore dell'Atlantic Jeffrey Goldberg.
Hamdan Ballal, uno dei registi di No Other Land, è stato aggredito dai coloni in Cisgiordania e sequestrato dall’esercito israeliano. Al momento non si sa dove sia né in che condizioni versi.
Herbie Hancock ha detto che non fa un album da 15 anni perché si distrae continuamente con YouTube. «Sono vittima di questa cosa, ma che ci vuoi fare, è la vita», ha detto in un'intervista a Bbc.
Su YouTube è uscito il sequel di Leaving Neverland, il documentario sui presunti abusi sessuali commessi da Michael Jackson. Il regista è lo stesso e i "protagonisti" sono sempre Wade Robson e James Safechuck, i due uomini che accusarono Jackson nel 2019.
Bong Joon-ho ha chiesto a John Carpenter di scrivere la colonna sonora del suo prossimo film e lui ha detto subito sì. I due si sono messi d'accordo durante una proiezione della versione restaurata de La cosa.
Si è scoperto che prima di fare il ministro, Guido Crosetto ha lavorato con Marlene Kuntz e Afterhours. E di diverse altre band, grazie a un'associazione culturale chiamata Zaboom: lo ha raccontato in un'intervista a "Un giorno da pecora".

Il Gladiatore II è il film per chi non smette mai di pensare all’impero romano

Dopo 24 anni Ridley Scott torna a Roma e realizza un film perfetto per i tempi di internet: una memizzazione dell'originale, un'opera per la quale gli aggettivi bello o brutto valgono quasi nulla.

14 Novembre 2024

Nell’autunno del 2023 un reel svedese su Instagram ci ha svelato una verità sull’essere umano di sesso maschile che ancora non avevamo messo a fuoco: il pensiero ricorrente dell’impero romano. Non solo Alberto Angela, Valerio Massimo Manfredi e Corrado Augias ci pensano su base giornaliera. Sui social network fidanzate e mogli hanno scoperto che le loro dolci metà ogni giorno si prendono un momento per riflettere sulle gesta dei Cesari. Ridley Scott non si limita a pensarci, all’antica gloria di Roma. Lui è un uomo del fare, un regista che a ottantasette anni d’età presenta un blockbuster sopra i centoquaranta minuti di durata ogni dodici mesi. Laddove i suoi colleghi ancora lontani dagli anta annaspano nel tentativo di dirigere il Grande Film Americano, lui ha capito il vero senso della contemporaneità, ha intercettato i turbamenti del popolo cinematografico-elettorale, che si manifestano in cabina elettorale e in sala.

Gli ci sono voluti parecchi tentativi a vuoto. Dopo aver conquistato le masse con The Martian, si è perso un po’ per strada con un paio di grandi storie (italo)americane. The Last Duel aveva tutto: storia solida, ricostruzione medioevale dignitosa, uomini veri lanciati in una spirale suicida per una pericolosissima questione di principio. Bello, coerente, ben recitato, ma è passato sotto silenzio. Al che Scott, la vecchia volpe, ha capito che il punto non è più fare un buon film, non necessariamente. Magari s’è anche arrabbiato, ma ad averla vinta è stata la sua voglia di battaglie: ideologiche, ma soprattutto militari, tra eserciti o a mani nude, tra uomini forti. Ne è uscito il peggior film da lui diretto di questa decade, l’irredimibile Napoleon.

Doveva essere la sua Waterloo, è diventato il momento in cui ha messo a fuoco i suoi errori. D’accordo l’uomo forte, ma non deve stare solo al potere e in scena. Non ci sono più Giulio Cesari in una realtà in cui ognuno guarda al suo totem e non lascia ma la sua cassa di risonanza social. Senza lasciare dunque il circolo magico dell’editoria milanese, vi riporto due conversazioni origliate durante l’anticipata stampa de Il Gladiatore II (che nelle sale esce oggi). La prima, pre-proiezione, ha per protagonista una giovane collega eccitatissima al pensiero di vedere le cosce sode di Paul Mescal scoperte dall’armatura da combattente. “Moriremo tutti” di fronte a questa visione, parole sue. Ridete pure, poi fatevi un giro online e scorrete le decine di pezzi, editoriali, approfondimenti dedicati alla star del cinema indie pubblicate nell’ultimo biennio dalle più illustri firme della testate più chic.

Quando ancora non era una star da blockbuster multimilionario, Mescal si è messo ad andare in giro per New York e Los Angeles in microshorts (di cui ha una collezione, come ama ricordare). Per la sua carriera ha fatto più questa scelta di stile che una serie ammirabile di ruoli in cui dimostrava un talento non da poco. Paul Mescal non è il vero protagonista del sequel de Il Gladiatore, relegato com’è nel ruolo di un post adolescente ribelle che “c’ha rabbia dentro”, ma ne esce bene e senza scalfire la sua aura da attore di qualità. In più quando indossa la famosa armatura del primo capitolo, ecco che rende palpabile il cambiamento dell’immaginario maschile e mascolino. Non riempie l’armatura di Massimo, la porta con fare elegante, felino. Non è un “omo de sostanza”, almeno non di quella russellcroweniana. È delicatezza e rabbia, occhi brillanti e capaci di commozione, ricci sudati, cosce definite ma non steroidee.

Qualche giorno dopo, a un’altra anticipata stampa, sento due colleghi di sesso maschile commentare scorati l’assoluta mancanza di carisma di Mescal, dicendosi “almeno c’è Pedro Pascal”. Lì capisco il vero genio di Ridley Scott. Vedendo il film mi ero chiesta perché chiamare un attore così richiesto per un ruolo così ingrato, così di risulta. Esattamente per questo, per dare a chi pensa con rimpianto al Massimo di Russell Crowe un epigono che incarni quel tipo d’Impero romano, quella mascolinità d’inizio millennio, sudata, un po’ stropicciata ma moralmente inamovibile, che per giunta piace anche a una bella fetta di signore. L’uomo forte innanzitutto nei princìpi, un gentiluomo non privo d’ironia, che gli uomini eterosessuali possono ammirare senza sentire il bisogno di aggiungere “eh, no homo”.

I due colleghi poi commentavano, un po’ scorati, che oggi non esiste un erede di Russell Crowe. Hanno ragione, ma solo Ridley Scott, il suo sceneggiatore e il team produttivo del film sembrano aver capito perché, agendo di conseguenza. Aiutino: per lo stesso motivo per cui oggi le star sono esseri umani e non divinità inarrivabili. I social, la globalizzazione, la frammentazione del pubblico, lo scontro generazionale con ogni fascia d’età che vuole cose diverse, lo spazio che i media alternativi danno alle voci che all’epoca de Il Gladiatore rimasero mute sui media tradizionali: scegliete voi la causa principale. Repetita iuvant: viviamo in un’epoca in cui piace l’uomo forte al potere, ma nessun caesar convince davvero tutti. Perciò meglio un triumvirato: Pedro Pascal, Paul Mescal e ovviamente, il vero colpo di mano, Denzel Washington.

Sulla carta Washington è il cattivo del film, nella sostanza è il protagonista del storia, quello con l’arco narrativo migliore, il taglio di capelli più stiloso e il guardaroba più appariscente. Lui si diverte un mondo a fare il cattivo quasi disneyano, a sussurrare all’orecchio cattivi consigli dei giovani imperatori e a perculare i vecchi senatori ed ex membri del cast originale, che ne escono malissimo. La scena se la prende lui. Il film non ha le idee chiare su cosa far fare nemmeno a lui, ma Denzel sa come essere sornione e sedurre, perciò funziona. Funziona il tempo di una clip, di un meme, di una reazione. Il Gladiatore II lavora così: non come storia lineare, ma come eterno fluire di scene spettacolari, senza però la possibilità di scorrere alla successiva se non ci piace quello che vediamo.

Siccome Ridley Scott è animato dalla voglia di far menare le mani ai suoi protagonisti e di girare grandi battaglie, apre il film con un combattimento navale e si diverte come un appassionato con i soldatini e le miniature. Quando arriviamo all’arena, si gioca la carta degli animali, tutti animati con la peggiore delle effettistiche visive (ma il punto non è fare bene, è suscitare una reazione forte). Si parte con delle scimmie molto incattivite: le avevo scambiate per macachi zombie, non escludo del tutto la possibilità. Si passa poi a un rinoceronte cavalcato da un gladiatore senza volto. Infine arriviamo alla scena clou del trailer: gli squali che sfrecciano velocissimi per il Colosseo allagato durante una (seconda) battaglia navale.

Ridley se la gode tantissimo. A patto di spegnere il cervello che pensa all’antica Roma e s’interroga su passaggi segreti azionati da quella che sembra corrente elettrica, sui soliti mosaici in latino e in inglese e su simili assurdità, è discretamente divertente. Il momento in cui avrei voluto alzarmi e urlare touché, il mio personale impero roman-ridleyano, è stato quando un senatore viene inquadrato mentre è intento a leggere un quotidiano. Una sorta di giornale con gli articoli impaginati, non si capisce se stampati o scritti, ma non stiamo a cavillare. Come lamentarsi per l’assurdità del dettaglio quando Ridley Scott fa girare all’attore il quotidiano per rivelarci che il titolo della testata è Pomeridia. A quel punto ho capito che qualsiasi cosa fosse successa, Scott aveva già vinto.

Pazienza se il film si muove tra tanti personaggi poco sviluppati che portano avanti la medesima agenda politica – la distruzione di Roma – ma osteggiandosi a vicenda. Pazienza se poi i più riusciti e tra i più carismatici sono due scimmie. Quella piccola sulla spalla di Caracalla, la cui discesa nell’agone politico è forse meglio spiegata di quella del personaggio di Denzel Washington. Scimmietta che per giunta sfoggia anche lei una serie di outfit strepitosi (e qui, vorrei sottolinearlo, non sono ironica).

C’è poi l’altra scimmia, una di quelle brutte e cattive realizzate in Cgi, glabre come gli attori di Hollywood, che io ho scambiato per uno zombie. Un collega mi ha scritto in chat che è lei il vero cattivo del film. Una boutade, ma non è forse il modo migliore di commentare un film che ti conquista la mente una sparata alla volta? È protagonista del momento più genuino del film. Un animale che attacca un uomo ridotto in schiavitù, che reagisce in maniera animalesca per sopravvivere un giorno in più. Qualche scena dopo quello stesso personaggio, ancora per poco ultimo degli ultimi, dirà che Roma è “stata allevata dagli animali” mentre il carro che lo trasporta come bestiame passa sotto un arco sormontato dalla Lupa che allatta Romolo e Remo. C’è un grandissimo film dentro queste due scene e forse c’è un grande film dentro Il Gladiatore II, diventato in queste settimane il mio impero romano. Ci penso e ci ripenso. Penso che mi ha divertita e insieme disgustata. Soprattutto mi ha lasciato ammirata per come Ridley Scott ha guardato dentro il pubblico e il cinema d’oggi, tirandoci fuori un film dettato dai gusti dell’arena ma che gli permette di fare ciò che vuole, ciò che ancora lo stimola e interessa.

Penso alla povera Connie Nielsen unica sopravvissuta in un “mondo di uomini, fatto di uomini”, che tira fuori un’interpretazione così insoddisfacente che a questo punto sarebbe stato più onesto cancellarla dalla sceneggiatura. Perché non lasciare che il film sia quel coacervo di padri surrogati, figli frustrati, cattivi maestri e comandanti indomiti che spesso le fantasie romane finiscono per essere? Non saprei dire se Il Gladiatore II dirà qualcosa al pubblico tra dieci anni o tra dieci mesi, ma se qualcuno mi chiedesse qual è il mio impero romano cinematografico, il film a cui mi ritrovo d’improvviso a pensare, probabilmente tirerei fuori proprio questo titolo tra quelli del 2024.

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