Cultura | Libri

I libri del mese

Cosa abbiamo letto a febbraio in redazione.

Lisa Taddeo nel suo studio nel video pubblicato da Simon & Schuster Books su YouTube il 19 dicembre 2019.

Lisa Taddeo, Tre donne (Mondadori)
Trad. di Ada Arduini e Monica Pareschi

Per scegliere le storie da raccontare in questo libro – bestseller numero uno del New York Times, accolto come «un capolavoro allo stesso livello di A sangue freddo» – Lisa Taddeo, giornalista americana di origini italiane, ha incontrato oltre cento donne (Simon & Schuster ha realizzato un video che racconta com’è nato e come si è sviluppato il processo di ricerca). Diverse persone, racconta la stessa Taddeo nell’introduzione, hanno cambiato idea durante il percorso e a un certo punto si sono ritirate per paura di esporsi. Alla fine ne sono rimaste tre, selezionate anche perché «capaci di essere veramente oneste con sé stesse, anche nel riconoscere il loro ruolo ambiguo, non soltanto di vittime». Con queste donne l’autrice ha trascorso centinaia di ore, distribuite in 8 anni, e in due casi si è addirittura trasferita nelle loro città, intervistando amici, parenti, colleghi, accompagnandole nella loro routine quotidiana e ascoltando i loro racconti.


Tre donne,
di cui abbiamo già scritto più approfonditamente qui, è un’indagine dell’evoluzione e della natura sfaccettata e contraddittoria del desiderio sessuale femminile. L’autrice indaga le modalità con cui il desiderio prende forma, cambia e si manifesta raccontando le vite di donne molto diverse tra loro dal punto di vista emotivo, intellettuale, caratteriale, sociale – Sloane, ad esempio, proviene da una famiglia ricca e sofisticata, mentre Maggie ha origini decisamente più umili – e anche fisico: Sloane è (e si sente) bellissima e magrissima mentre Lina riscopre il sesso (al di fuori del matrimonio) anche grazie a una consistente perdita di peso che le permette di percepire il suo corpo in modo diverso, mentre Maggie, che al liceo si innamora del suo professore sposato, con cui ha una relazione, quando lo porterà in tribunale, anni dopo la fine del loro rapporto, si sentirà sfiorita e fuori forma, anche se avrà poco più di vent’anni. Storie d’amore e di sesso appassionate e, soprattutto nel caso di Maggie, problematiche (anche dal punto di vista etico e legale). Il risultato di questo libro nella mente e nel cuore del lettore è decisamente maggiore della somma delle singole esperienze di Sloane, Maggie e Lina. Alla fine, ci si accorge di non aver letto soltanto le storie di tre donne, ma la storia di tutte le donne. (Clara Mazzoleni)

Leonardo Sciascia, Atti relativi alla morte di Raymond Roussel (Adelphi)

Uscito nello stesso anno del Contesto (1971) prima come inchiesta per Il Mondo, poi per una Sellerio che all’epoca aveva appena due anni (e si chiamava ancora Edizioni Esse), ritorna adesso da Adelphi, che dal 1986 ripubblica tutta l’opera di Sciascia, questo libretto che fa parte insieme ad altri lavori decisamente più conosciuti (L’affaire MoroI pugnalatori) della produzione “fattuale” dello scrittore siciliano. Fatti realmente successi e, in questo caso, addirittura documenti, “atti”, come il verbale del pretore di Palermo che racconta in uno stile antiquatamente burocratico il ritrovamento del cadavere di Raymond Roussel, scrittore francese di qualche conto – ha influenzato tutte le correnti più sperimentali della letteratura francese dal Novecento, dall’Oulipo al Nouveau Roman – all’Hotel des Palmes di Palermo, il 14 luglio 1933. Il dottor Rabboni, perito presente nella stanza 224, fa scrivere che «Il suddetto Roussel ritengo sia deceduto per morte naturale probabilmente causata da una intossicazione da narcotici e sonniferi rinvenuti in grande quantità nella stanza», ma le cose ovviamente non sono così semplici. Lo scrittore parigino si accompagna a una donna di 53 anni che parrebbe essere la sua amante, a un autista e a un cameriere personali e conserva diari su cui annota tutte le droghe (sotto le sembianze di farmaci) che assume, sullo sfondo di un’Italia già irreparabilmente fascista, che si avvia a firmare il patto di non belligeranza con Germania, Francia e Inghilterra. Una lettura per respirare aria di decadenza novecentesca e provincia mediterranea e per imparare come raccontare una storia quasi senza scriverla, ma lasciando che si racconti da sola. (Cristiano de Majo)

Alejo Carpentier, L’arpa e l’ombra (Sellerio)
Trad. di Linda Verna

Quando, nella primavera del 2017, negli stati meridionali degli Stati Uniti si discuteva dell’opportunità di rimuovere le statue dei criminali confederati, in Italia si è preso a ragionare sulle architetture costruite durante il fascismo, un parallelo storto che manca il bersaglio di chilometri. L’obiettivo di quella che sarebbe un’utile – ma probabilmente impossibile, nei prossimi decenni – rivalutazione storica è il nome più presente nella toponomastica dell’Europa mediterranea, Italia e Spagna soprattutto: Cristoforo Colombo. In La conquista dell’America – Il problema dell’altro Tzvetan Todorov aveva mostrato il navigatore come fanatico cristiano – che ordinava di bruciare vivi gli indigeni che gettavano per terra le icone sacre, che riempiva le stive di schiavi, che paragonava uomini a cose – e ossessionato dal Paradiso terrestre, nel romanzo L’arpa e l’ombra Alejo Carpentier, uno dei più grandi scrittori latinoamericani di sempre, la prende più sullo scherno. La storia di Cristoforo Colombo, raccontata con le sue parole nelle ultime ore di vita, è la confessione di un cialtrone, mellifluo, avventuriero e truffatore, consapevole di essere tutte queste cose. Lo fa con ironia e umorismo, e usa queste armi per sfottere e sbriciolare il mito della superiorità Occidentale, nata in Europa, sul resto del mondo, ancora presentissimo in ogni angolo di questa cultura. (Davide Coppo)

John M. Hull, Il dono oscuro (Adelphi)
Trad. di Francesco Pacifico

Questo non è un libro specialistico ma, semplicemente, speciale. Non rientra nei canoni della saggistica, e nemmeno della finzione letteraria: perché indaga a fondo sull’intreccio tra vissuto e impressione di un uomo che non è nato cieco, ma lo è diventato a quarant’anni. «Il dono oscuro non è stato scritto di getto, ma dettato a intervalli», spiega il neurologo Oliver Sacks nella prefazione all’opera di John MHull, pubblicata per la prima volta in Inghilterra nel 1990, sottolineando la straordinaria immediatezza, priva di pietismo, della cronaca della trasformazione dell’autore: intesa come l’ingresso in un mondo cognitivo differente. «Da quanto tempo bisogna essere ciechi prima che i sogni perdano i colori?». La frase in apertura, scritta quando Hull ha già iniziato a vedere con tutto il corpo. Quando ha iniziato a sprofondare, nell’estate dell’83, prima ancora che i volti dei suoi figli venissero smarriti per sempre. Cosa significa non poter vedere crescere le persone che amiamo? Come si fa a dare una forma ai luoghi nuovi se non si sa come sono fatti? Con quali parole ricordare a Thomas, il più piccolo, che «quando siamo in macchina mi urla “Guarda papà!”, e prova a indicarmelo», che così non lo può fare? Quella di Hull è una teologia della cecità affrontata attraverso domande e interpretazioni, fatta di sorrisi che sono solo immaginati. Un viaggio che conduce alla perdita di ogni cosa, inghiottita da una nube nera che è impossibile dissipare; fino a ritrovarsi in quello stato raro che è «il dono oscuro», in cui la mente recide le immagini che proveremo a vedere solo attraverso le dita. Mentre da qualche parte, là fuori, c’è un mondo di luce, a John MHull rimane il suono del vento, che crea gli alberi e definisce gli angoli degli edifici dove prima non c’era niente. Sostituiti da tutte quelle sensazioni visive che popolano i frammenti con cui l’opera è composta. Che è resoconto affascinante, testimonianza, riflessione: dono oscuro. (Corinne Corci)

Nickolas Butler, Uomini di poca fede (Marsilio)
Trad. di Fabio Cremonesi

Lyle Hovde vive in una piccola cittadina in Wisconsin, la stessa dov’è cresciuto e dove ha sviluppato il suo senso della famiglia, dell’attaccamento, della bellezza. È un uomo schietto al quale piacciono i cimiteri, soprattutto quello in cui è sepolto il figlio che gli è morto a nove mesi, una cosa che non lo rende incline al melodramma ma a un’introspezione fatta di silenzi, quotidianità e affetti consolidati. Con sua moglie Peg conduce una vita lineare, illuminata dalla presenza del nipotino Isaac, da poco tornato a vivere con loro insieme all’unica figlia rimasta, Shiloh. Nella calma apparente che domina la vita di Lyle Hove, Nickolas Butler – già autore degli apprezzati Shotgun Lovesongs e Il cuore degli uomini – introduce sin da subito l’elemento altro, e cioè Dio. Dopo una giovinezza difficile, Shiloh ha infatti trovato conforto in un gruppo di preghiera guidato da un carismatico pastore, del quale è innamorata, e che l’ha convinta che suo figlio ha magici poteri curativi, mentre Lyle Dio l’ha seppellito insieme al figlio infante. Uomini di poca fede è il racconto dell’esplodere dell’altro in una vita già contemplativa come quella del protagonista, immune al richiamo della religione e concreto – anzi terreno – come l’America che lo circonda. (Silvia Schirinzi)

Emmanuel Carrère, I baffi (Adelphi)

Trad. di Maurizia Balmelli

Di certi autori capita che non si legga subito la loro primissima produzione. Magari è uscita in sordina, magari il loro è un successo venuto in un secondo tempo. È successo più o meno lo stesso con Emmanuel Carrère. Ma le 150 pagine di I baffi s’impongono a una lettura avida e ininterrotta sin dalla prima pagina. Il terzo romanzo di Emmanuel Carrère – ri-edito ora da Adelphi con una nuova traduzione di Maurizia Balmelli – in realtà è uscito nel 1986 in Francia ed è diventato anche un film diretto dallo stesso scrittore (L’amore sospetto, 2005). Marc decide di tagliare i baffi che ormai da dieci anni caratterizzano il suo volto, ma quando la moglie Agnès rincasa, l’effetto non è affatto di stupore. «Non li hai mai avuti, i baffi» gli dice. Da lì inizia un angosciante racconto di quello che in psicanalisi è l’Unheimlich, il perturbante: il sospetto, il sinistro, lo straniamento continuo e repentino tra il giusto e lo sbagliato, tra chi ci sembra il buono e chi il malefico. Carrère mette in scena un thriller psicologico che si snoda tra Parigi e l’Estremo Oriente, e se nella città europea il ritmo è incalzante e veloce, lì tutto si diluisce in un’aria liquida e afosa. Il risultato è per certi versi simile alle vicende hitchokiane di Notorious e alle paranoie care a Philip K. Dick: chi legge I baffi in realtà rincorre Marc, si guarda allo specchio insieme a lui e come lui è incredulo di quello che ci trova riflesso. Non si arriva mai a un punto, nel libro così come nel film, ma la fine arriva rapida come un taglio di rasoio. (Teresa Bellemo)