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La lunga e ancora attuale storia dei finti umili su internet

Tra le categorie umane più antiche, presenti e rappresentate sui social ci sono loro: in inglese si chiamano humblebragger, persone dotate del talento di vantarsi e lamentarsi nello stesso momento.

di Andrea Beltrama

«Sto per decollare da Milano verso Istanbul, e nessuno dei miei tre BlackBerry funziona». Twittava cosi, il 12 ottobre 2011, Arianna Huffington, fondatrice dell’Huffington Post. Il giorno in cui un malfunzionamento globale aveva mandato in tilt tutti i dispositivi, seminando il panico tra i proprietari. È una storia che sembra provenire da un’altra galassia. Gli smartphone erano un bene di lusso, Whatsapp non esisteva e Twitter era ancora un romantico guazzabuglio di giornalisti, whistleblower e appassionati sportivi, che scrivevano più o meno tutto quello che passava loro per la mente. E infatti, quando schiacciò il tasto “invio”, l’autrice del tweet non avrebbe mai pensato che il suo dispaccio dalla pista di Malpensa sarebbe diventato un caso scuola di un fenomeno ormai di fama globale: la pratica dell’humblebragletteralmente, il “vantarsi umilmente”. Ovvero, tirarsela in maniera obliqua, celando la propria protervia dietro lamentele, preoccupazioni, manifestazioni di dolore. Apparentemente indici di sofferenza, ma in realtà squisitamente funzionali all’autocompiacimento. Come appunto farci sapere di avere 3 BlackBerry ed essere su un volo internazionale (se Succession ci ha insegnato qualcosa, è che per gli americani di alto bordo il prestigio di Milano è pari a quello di Parigi, se non superiore). Oppure condividere l’inarrivabile mortificazione ci chi si trova a sturare il cesso 36 ore dopo aver vinto un Oscar. Come fatto da Lee Unkrich, regista di Toy Story 3, che vinse la statuetta nel 2011. Guadagnandosi una fetta di immortalità non solo nella storia del cinema, ma pure in quella degli humblebragger più famosi di sempre.

Il termine in questione, nonostante il fenomeno esista più o meno da sempre, è piuttosto recente. Venne coniato e reso famoso nel 2010 dal comico Harris Wittels, peraltro tristemente scomparso pochi anni dopo. Che prima creò l’account twitter @humblebrag, con il solo scopo di diffondere gli esempi più eclatanti in cui si imbatteva in giro per la rete. E poi iniziò una rubrica su Grantland, popolare sito di sport e cultura americana, in cui stilava la top ten degli humblebragger che si erano distinti nel mese precedente. Uno stillicidio spietato ed esilarante di cui cadevano vittima personaggi di tutti i ranghi e le estrazioni. Da vip di caratura globale come Oprah Winfrey, a oscure figure del sottobosco californiano come il titolare dell’account @totesmcgotes. Un palazzinaro di San Diego che, tra le altre cose, si struggeva di essere riuscito a docciarsi solo in uno dei cinque bagni della sua villa, e non vedeva l’ora di riscattare una faticosa giornata di lavoro con un giro sulla barca – proprio così, con l’articolo determinativo – sperando di vedere le orche bianche al largo del Pacifico. Secondo l’illuminato parere di Wittels, era proprio lui il miglior humblebragger dell’epoca, con il secondo che arrivava terzo: un maestro di costanza e creatività, di un’altra categoria rispetto ai blandi tentativi di emulazione di personaggi ben più famosi. Peccato solo che il suo account Twitter sia al momento sospeso, privandoci dell’opportunità di tenerci aggiornati sui suoi travagli quotidiani.

Amplificata dalla crescente popolarità dei social media, la caccia all’humblebrag divenne presto un passatempo virale. Facendoci scoprire in breve tempo che i finti umili si annidavano ovunque. Da un lato, proliferavano in nicchie specifiche, ad esempio quella della ricerca universitaria: un mondo popolato da personaggi impazienti di raccontarci la loro vita tremenda. Resa invivibile da attacchi violenti di Sindrome dell’Impostore, prontamente documentati in thread chilometrici, e dal malcostume di studenti sconosciuti che osano addirittura mandare messaggi senza preavviso (venne anche inventato pure un termine apposta: cold-emailing, “mandare le email a freddo”). Dall’altro, gli humblebragger venivano stanati senza pietà pure in ambiti nazionalpopolari, come quello dello sport. Annoverando tra le proprie fila le icone globali più insospettabili. Come Roger Federer, che decise di mostrare in pubblico la propria umiltà ringraziando i tifosi per averlo votato loro tennista preferito per 12 anni filati – con tanto di screenshot da Wikipedia. O LeBron James, che un giorno pianse miseria per la sfiga di essere così forte fisicamente da resistere ai falli più duri, facendoli sembrare agli arbitri meno violenti di quello che davvero erano. Insomma, ovunque ci si girasse fioccavano decine di fulgidi esempi, che noi comuni mortali facevano a gara per vivisezionare ed esporre al pubblico ludibrio. Fu proprio la natura incredibilmente trasversale del fenomeno a spingere l’American Dialect Society a votarla “parola più utile dell’anno” nel 2011, e i dizionari di tutto il mondo anglosassone ad aggiungerla alle proprie liste lessicali. Nel frattempo, sofisticati studi di psicologia sociale si premuravano di avvertirci del tremendo pericolo che correvamo ogni volta che ci accingevamo a scrivere qualcosa sui social media. Ricordandoci che, se proprio non potevamo fare a meno di tirarcela, era meglio farlo apertamente, piuttosto che facendo i falsi modesti.

Quasi quindici anni dopo, non sembra essere cambiato molto: la pratica dell’humblebragging continua a essere in ottima salute, e con essa la nostra ossessione nei suoi confronti. Col tempo, è pure emerso una sorta di sottogenere di giornalismo scandalistico: sciatte liste da tabloid a metà tra clickbaiting e gossip di terza mano, che si prefiggono la missione di scoprire i casi di humblebragging più cringe. Salvo ovviamente sconfinare nel cringe esse stesse. E così, mentre ci chiediamo se davvero l’intero documentario di Harry e Meghan si possa considerare l’humblebrag più gigantesco cui abbiamo assistito, si fa strada il dubbio che la crociata contro la falsa umiltà ci abbia condannato a un paradossale puritanesimo. In cui parlare di noi stessi, su qualsiasi argomento, rischia solo di ritorcersi contro, costringendoci a ricorrere a complesse acrobazie verbali per scongiurare la prospettiva di passare per arroganti. Basti pensare all’ormai radicata formula shameless self-promotion, “auto-promozione senza pudore”, con cui qualcuno che ha recentemente pubblicato qualcosa di importante lo annuncia su Twitter. Un ammiccamento che all’inizio riusciva a mitigare il rischio di apparire presuntuosi ma è presto diventato un cliché talmente inflazionato da sprizzare falsa modestia da tutti i pori. Reincarnandosi nel problema stesso che cercava di risolvere, e lasciandoci la sensazione di trovarci in un labirinto senza uscita.

C’è allora forse un unico modo di spezzare il circolo vizioso: fare un salto indietro, mettere da parte l’ardore giacobino, e chiederci perchè l’humblebragging continui a essere così diffuso. Nonostante chi vi ricorra rischi perennemente di lasciarci la faccia. Probabile abbia a che fare con qualche tipo di pressione socioculturale: come quella che ci spinge a mostrare le nostre crepe prima delle nostre forze, così da sembrare più amichevoli e meno minacciosi verso il prossimo. Anche quando vogliamo effettivamente asserire la nostra forza. Ma potrebbe anche esserci una componente più specificamente linguistica. Che non ha tanto a che fare con cosa diciamo, ma piuttosto con come lo diciamo. Vantarsi con umiltà presenta infatti una preziosa opportunità di esibirsi nella sottile arte di alludere senza esporsi, di dire senza dire, che da sempre gioca un ruolo chiave nel modo in cui usiamo la lingua per costruire la nostra identità. Facendo leva su uno dei principi comunicativi più studiati da filosofi e linguisti: l’idea che le cose più importanti, quelle che davvero vogliamo rivelare di noi agli occhi di chi ascolta, è più efficace menzionarle sotto traccia, indirettamente, piuttosto che dichiararle apertamente. Rendendole così più difficili da mettere in discussione, e più propense a rimanere impresse nell’interlocutore. Certo, il fatto che la strategia di denigrarsi per celebrarsi sia tutto sommato razionale non la rende efficace, e men che meno immune dal provocare antipatia. Del resto, risultare davvero cool è privilegio per pochi: bisogna riuscire a esserlo senza dirlo, ma pure senza sforzarsi di sembrarlo. E per uno che ci riesce davvero, centinaia falliscono miseramente, regalandoci il perfido piacere di smascherare la loro figuraccia. Almeno fino a quando sulla lista nera degli humblebragger non ci finiremo anche noi.