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L’invenzione di Hong Kong

Nel suo La città indelebile, la giornalista Louisa Lim tenta di tracciare un profilo psicogeografico di Hong Kong a partire dall’epopea di un graffitaro delirante. 

di Giuseppe Luca Scaffidi

Tracciare un profilo attendibile di Hong Kong come entità psicogeografica è un’impresa difficilissima: lungo un percorso così frastagliato, digiuno di fonti in grado di restituire certezze e pieno zeppo di contraddizioni, anche anche lo storiografo più determinato rischia di confondersi e inciampare un groviglio culturale confusissimo fatto di leggende, miti di creazione, rimossi coloniali, storie vere e inventate, cronache di ribellione depennate dai registri ufficiali e racconti di coraggio strozzati. Come opinione pubblica occidentale, di Hong Kong sappiamo pochissimo: nel corso degli anni il ruolo dei suoi abitanti è stato minimizzato, quando non azzerato del tutto, nelle cronache dei governanti, che rappresentano ancora oggi il nostro angolo di osservazione principale.

I fondamenti della memoria collettiva degli hongkonghesi affondano le radici in due narrazioni assolutamente antitetiche, quella britannica e quella cinese, che individuano un  terreno comune soltanto nella ferrea volontà di negare qualsiasi tipo di identità pre-coloniale a questi popoli. Nel 1841, durante la prima guerra dell’Oppio, Lord Palmerston preparò il terreno per legittimare una sua personalissima visione di Hong Kong, incastonando nell’immaginario collettivo britannico l’immagine di «uno scoglio deserto privo di qualsiasi abitazione» e negando ai suoi abitanti ogni passato. Per un secolo abbondante, nei dibattiti parlamentari, sui giornali e nei programmi di divulgazione, Hong Kong, l’isola di Kowloon e i Nuovi Territori sono stati presentati come porzioni di un’entità territoriale priva di qualsiasi carattere nazionale: spazi abitati da una popolazione migratoria e senza radici, capitata in questa pietrosa terra di nessuno grazie alle opportunità commerciali aperte dalla Gran Bretagna. Dall’altro lato, nella narrazione promossa da Pechino, Hong Kong fu suolo cinese per tempo immemorabile, fino all’azione usurpatrice degli aggressori britannici. Questo tipo di utilizzo pubblico della storia è assimilato quotidianamente da legioni di scolari cinesi: uno dei testi scolastici più famosi, An Outline History of Hong Kong, scritto dall’accademico Liu Shuyong nel 1996, un anno prima della restituzione alla Cina, ne parla come di un deposito di tradizione cinese secolare, con migliaia di residenti già ai tempi dell’approdo degli inglesi.

Com’è possibile recuperare una propria storia nazionale quando si hanno a disposizione dei riferimenti così fragili e incerti? Una prima strada è quella di prendere coraggio, improvvisarsi sceneggiatori e scrivere autonomamente la propria origin story, un po’ come fecero Jerry Siegel eJoe Shusternel 1933 con Superman. I miti che circondano la città sono tantissimi, su tutti quello dei Lo Ting, una tribù immaginaria di creature metà uomini e metà pesci, spesso celebrati come il primo popolo indigeno di Hong Kong. Un’invenzione partorita dagli stessi hongkonghesi nel disperato tentativo di colmare un vuoto semantico, storico e identitario e creare un comune senso di appartenenza.

L’altra possibile via di fuga è quella suggerita da Louisa Lim nel suo La città indelebile. Hong Kong tradita e ribelle, recentemente portato in Italia da Add con la traduzione di Simone Roberto. Lim ha trascorso a Hong Kong buona parte della sua vita, sia come studentessa che come corrispondente della Bbc. Continua a raccontarla in veste di editorialista sulle principali testate americane e, negli anni, ha sviluppato una vera e propria ossessione per il recupero di una memoria collettiva insabbiata da decenni di propaganda e repressione. Si è laureata all’università di Melbourne con una tesi intitolata “In Search of the King of Kowloon; Hong Kong’s Identity Crisis and the Media Creation of an Icon”, che ha rappresentato il punto di partenza per la realizzazione del libro. Il Re di cui parla è Tsang Tsou-choi, un coltivatore di verdure con problemi psichici ritrovatosi a vestire i panni di vera e propria icona della resistenza grazie a un’imponente campagna di “graffitismo” (le stime suggeriscono che, con la sua calligrafia sghemba e frenetica, il Re abbia invaso il suolo pubblico con ben 55.845 opere) che ha attraversato le due fasi coloniali di Hong Kong: a metà anni Cinquanta, accusava gli inglesi di avergli rubato la terra; a partire dal 1997, il suo obiettivo polemico divenne la Cina, messa in stato di accusa per i suoi costumi vetusti e le sue pretese estrattive.

Secondo quanto ricostruito da Lim, Tsang iniziò a scrivere in pubblico nel 1956, venendo tacciato di vandalismo e acquisendo di volta in volta la fama di svitato, sciamano, bocca della verità, santo giullare e “guerrilla street calligrapher”. Nel 2003 fu il primo hongkonghese a rappresentare il territorio alla Biennale di Venezia, regalando a migliaia di spettatori alcuni scorci della sua scrittura storta e claustrofobica. In un gustoso passaggio, Lim scrive che «Come artista fu Banksy prima di Banksy e Keith Haring prima di Keith Haring (…). Nemmeno Davide e Golia potevano rendere giustizia alla radicale asimmetria di forze rappresentata da un pensionato ossessivo, con disabilità mentali e fisiche, che ogni mattina si alzava dal letto per sfidare due superpotenze globali».

Il fatto che proprio Tsang, un contadino privo di istruzione e con una salute mentale piuttosto fragile (sul finire degli anni Sessanta trascorse infatti diciotto mesi in un ospedale psichiatrico per aver sfondato con un sasso la vetrina di un ufficio postale) sia riconosciuto come il simbolo più visibile dell’identità degli hongkonghesi riassume al meglio l’urgenza che questo popolo attribuisce al tema della memoria. Le pennellate di Tsang hanno agito come catalizzatrice di istanze sottaciute, liberando un desiderio di partecipazione strozzato. «Pensare al Re o scrivere di lui significava riflettere sulle sue ossessioni: territorio, sovranità, perdita. Aveva sollevato pubblicamente questi temi in un periodo in cui nessuno osava anche solo pensarli». Alla microstoria del Re, Lim intreccia elementi della sua biografia: l’altro grande filo conduttore narrativo del libro sono perciò le sue esperienze personali e professionali, dalla crescita come euroasiatica a Hong Kong all’osservazione dei momenti decisivi delle proteste nel 2019. A partire dal giugno di quell’anno, Lim ha assistito alla decisa reazione degli hongkonghesi nei confronti dell’emendamento alla legge sulle estradizioni, un segnale inequivocabile dell’ingerenzasempre più accentuata di Pechino nell’autonomia di Hong Kong, vivendo una serie di momenti in cui si è vista costretta a passare da osservatrice degli sviluppi politici ad attivista.

Il dilemma sollevato da Lim è riassumibile, più o meno, in questi termini: come si bilancia l’ideale della neutralità giornalistica con il desiderio di partecipare, di prendere parte alle proteste, di rivendicare a gran voce che Hong Kong si pretende libera? La risposta è semplice: se il lavoro giornalistico sulla Cina nell’era della legge sulla sicurezza nazionale, dei campi dove vengono internati gli Uiguri e del loro genocidio per lungo tempo dimenticato, deve avere un significato, per Lim deve abbracciare una prospettiva immune da ogni tipo di ignavia e scegliere di schierarsi. Da questo punto di vista, La città indelebile è un esempio eccezionale di giornalismo militante.