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16:24 venerdì 26 dicembre 2025
Migliaia di spie nordcoreane hanno tentato di farsi assumere da Amazon usando falsi profili LinkedIn 1800 candidature molto sospette che Amazon ha respinto. L'obiettivo era farsi pagare da un'azienda americana per finanziare il regime nordcoreano.
È morto Vince Zampella, l’uomo che con Call of Duty ha contribuito a fare dei videogiochi un’industria multimiliardaria Figura chiave del videogioco moderno, ha reso gli sparatutto mainstream, fondando un franchise da 400 milioni di copie vendute e 15 miliardi di incassi.
A Londra è comparsa una nuova opera di Banksy che parla di crisi abitativa e giovani senzatetto In realtà le opere sono due, quasi identiche, ma solo una è stata già rivendicata dall'artista con un post su Instagram.
Gli scatti d’ira di Nick Reiner erano stati raccontati già 20 anni fa in un manuale di yoga scritto dall’istruttrice personale d Rob e Michele Reiner Si intitola A Chair in the Air e racconta episodi di violenza realmente accaduti nella casa dei Reiner quando Nick era un bambino.
Il neo inviato speciale per la Groenlandia scelto da Trump ha detto apertamente che gli Usa vogliono annetterla al loro territorio Jeff Landry non ha perso tempo, ma nemmeno Danimarca e Groenlandia ci hanno messo molto a ribadire che di annessioni non si parla nemmeno.
Erika Kirk ha detto che alle elezioni del 2028 sosterrà J.D. Vance, anche se Vance non ha ancora nemmeno annunciato la sua candidatura «Faremo in modo che J.D. Vance, il caro amico di mio marito, ottenga la più clamorosa delle vittorie», ha detto.
A causa della crescita dell’industria del benessere, l’incenso sta diventando un bene sempre più raro e costoso La domanda è troppa e gli alberi che producono la resina da incenso non bastano. Di questo passo, tra 20 anni la produzione mondiale si dimezzerà.
È appena uscito il primo trailer di The Odyssey di Nolan ed è già iniziato il litigio sulla fedeltà all’Odissea di Omero Il film uscirà il 16 luglio 2026, fino a quel giorno, siamo sicuri, il litigio sulle libertà creative che Nolan si è preso continueranno.

Guardare Lost oggi

Diario di un ultimo giapponese alle prese con la serie tv di J. J. Abrams nel 2017: cosa significa diventarne fan nell'era del binge-watching?

21 Marzo 2017

Era iniziato nella maniera più innocua, come tutte le esperienze che ti cambiano la vita: l’ineffabile algoritmo di Netflix l’aveva portato lì, in un placido angolo della ribollente schermata iniziale del servizio in streaming, corredato da un assertivo ma per me sinistramente ansiogeno «la serie culto del produttore J. J. Abrams ha vinto nove Emmy». «Invidio chiunque non abbia visto Lost», chiosava uno dei più recenti recensori entusiasti, e io, pur da solo nel mio salotto, un bel giorno di gennaio mi ero guardato intorno e avevo deciso di sfruttare una nuova tv e la mia invidiabile posizione di persona che non aveva mai visto Lost, la serie culto del produttore J. J. Abrams, vincitrice peraltro di nove – dicasi nove – premi Emmy.

Dire cos’è successo da allora non è semplice: il Behemoth televisivo da 92 ore di filmato cattura il neofita del 2017 con i suoi cliffhanger seriali, lo costringe a modificare le sue serate post-lavorative in favore di un autoesilio convinto e reticente, lo rende del tutto simile ai neofiti decisamente più à la page che l’hanno preceduto nel 2004. Com’era già noto a tutti tranne a noi ultimi giapponesi, la storia è divertente, poi incuriosente, poi snervante, poi ossessivamente divagante, e infine vorresti soltanto uscire dal tunnel, da qualche parte sai che ti sta facendo male (lo sai quantomeno da come cerchi l’icona di Netflix con la recalcitranza di quando devi svuotare la lavastoviglie), ma non sei più in grado di smettere. Tipicamente, si sa, hai bisogno di capire cosa sta succedendo ai naufraghi, e a guidarti è una specie di sesto senso recondito che sostiene che la prossima puntata, una volta chiarito quel punto focale, dipanerà la matassa in fili sottili e comprensibili: poi si potrà tornare a vivere.

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«Noi all’epoca ci credevamo», mi ha detto di recente con quella certa luce negli occhi un amico a cui stavo confessando il mio nuovo hobby-corvée. Con poche parole si è reso portavoce del sentimento del pubblico mondiale verso il famigerato Finale di Lost, andato in onda nel 2010, parente stretto di qualsiasi Bildungsroman televisivo e scena primaria freudiana di generazioni di telespettatori. Il Finale di Lost, ambito e inseguito come la vetta dell’Annapurna, ha deluso tutti: è disprezzato, parodiato e oggetto di rancori mai sopiti, è il rigore di Baggio della storia della tv. Naturalmente in questi tre lustri di inspiegabile digiuno noi novizi, simili ad astronauti aggiornati sulle vicende terrestri, abbiamo udito gli echi dell’indignazione, e oggi le nostre aspettative somigliano meno a verosimili citazioni tratte dalle memorie di Abbie Hoffman. Come i trenini delle feste romane frequentate da Jep Gambardella, sappiamo dall’inizio che Lost è la serie più bella perché non andrà da nessuna parte.

Ma a modo nostro, ci crediamo anche noi. Crediamo di poter vedere confermate le nostre opinioni ormai seccate (sono sempre stati tutti morti? Qual è il rapporto tra i mondi alternativi della serie? E se l’isola fosse “soltanto” l’Eden primordiale, e l’intero show una complessa metafora biblica?), e siamo cocciutamente persuasi di poter ottenere qualche risposta: qual è il ruolo di Libby? Benjamin Linus ha un animo nobile? Kate preferisce Sawyer a Jack? Intervistati da Wired prima della messa in onda dell’ultima stagione, i produttori esecutivi di Lost Damon Lindelof e Carlton Cuse hanno detto di aver solleticato volutamente l’approccio fideistico nel loro pubblico, rispondendo a chi chiedeva conto dei flashback con una serie di complessi flashforward, e a quelli che li imploravano di spiegare i misteri dell’isola con dilemmi ancora più inspiegabili, ché «nella scrittura di ogni singolo episodio della serie c’è stata una buona dose di scoperta» (Lindelof).

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Guardare Lost nel 2017 per certi versi è complicato quanto comprendere la grandezza di una piramide come poteva presentarsi sotto lo sguardo di Cheope: i tempi dello sviluppo dell’azione sono intollerabilmente dilatati per gli standard odierni, i dialoghi sulla lunga distanza non brillano per originalità, le sottotrame sono spesso irrilevanti, gli effetti speciali comprensibilmente datati. Eppure, puntata dopo puntata, si sa di stare assistendo a qualcosa di importante, che ha segnato un “prima” e un “dopo” nella televisione, il riferimento velato o manifesto di decine di prodotti culturali che sono venuti negli anni seguenti. C’è un po’ di ossequiosità consapevole, nel seguire le vicende di John Locke e Kate e Jin e Sayid e Hugo nell’era del binge-watching, che se non ripaga la talvolta faticosa visione perlomeno aiuta a trovare un altro solido motivo per proseguire fiduciosi verso il Finale.

Arrivato a due puntate dal termine, con lo sguardo ormai fisso su una vetta da cui non si vedrà niente, mi trovo a provare qualcosa di simile a una nostalgia preventiva; vorrei fermarmi qui, fare in modo che tutto questo sforzo non vada perso nel tempo come le famose lacrime nella pioggia, non dovermi trovare anch’io a invidiare fortunati (e indomiti) viandanti che si avvicinano alla fonte battesimale del thriller psico-filosofico di Abc, ovvero la televisione che ha iniziato a farci parlare di televisione. Guardando le sei lunghissime stagioni senza le sfibranti attese sofferte dagli uomini di inizio Duemila, non ho avuto modo di ricamare le mie supposizioni, e – mi convinco – questo mi lascerà un amaro in bocca meno pungente sul finire dell’esiziale ultima puntata. In ogni caso, in tempi in cui produzioni originali ma nella sostanza mediocri come The OA vengono forzatamente celebrate come dotate di spunti, stili e poetiche pioneristici, recuperare Lost potrebbe acquisire anche afflati pedagogici, utili a ristabilire cosa significa davvero creare un universo coeso e appassionante.

Come Andy Jones, inviato del Guardian a una proiezione non-stop della serie in un cinema di Londra nel 2010 (tempo totale sulla poltroncina: quattro giorni, la Lost-mania ha prodotto mostri peggiori di quello di fumo che molesta gli abitanti dell’isola) ha sentito dire a un fan accorso per l’occasione: «Nella vita ci sono tipi differenti di persone: ci sono quelli che lavorano e dormono soltanto, senza mai pensare. E poi quelli che vogliono comprendere il significato ultimo dell’esistenza, e Lost è per loro».

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