Cultura | Libri

La generazione dei blocchi

Possiamo sapere molte cose delle guerre nella ex Jugoslavia, e della Guerra Fredda. Ma quanto sappiamo delle giovani generazioni che sono cresciute in quei momenti? Quanto erano simili a noi? Raccontiamo tre libri che le raccontano.

di Cristiano de Majo

A distanza di pochi mesi uno dall’altro sono usciti nel 2013 due libri per molti aspetti diversi, che però hanno in comune il fatto di raccontare la stessa generazione sottorappresentata. Molto sappiamo o possiamo sapere sulla Guerra dei Balcani; pochissimo, invece, abbiamo saputo di tutti quelli che allo scoppiare di quel conflitto erano ragazzi, che sono diventati adulti sotto le bombe, adolescenti che il fossato immaginario della guerra ci ha fatto apparire come corpi senza volto, prototipi anonimi della vittima, del fuggitivo o del soldato. La figlia di Clara Usón (Sellerio) è la ricostruzione, tra l’altro molto interessante sul piano formale, della vita di Ana, figlia del boia Mladic, suicida a 23 anni. Il libro delle mie vite di Aleksandar Hemon (Einaudi) è, invece, una bellissima raccolta di brevi memoir e personal essay di un autore ormai americano (scrive in lingua inglese), la maggior parte dei quali raccontano della sua adolescenza vissuta a Sarajevo tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta. Leggendo entrambi questi libri ho provato una forma di rivelazione: quella di non essere mai riuscito a immaginare che la gioventù balcanica degli anni Ottanta-Novanta potesse essere stata così simile e vicina alla nostra. Il rock, le canne, quella forma di ribellione autistica origine di tante disperate implosioni individuali. Uno pensa: il regime, l’indottrinamento, la censura, i blocchi contrapposti, la Cortina di ferro… e vede le cose con i contorni sfocati, coperte dalla nebbia della non conoscenza.

Tavola tratta da Graphic Novel is Dead, di Davide Toffolo, Rizzoli Lizard 2014

Scrive Hemon: «Essere anche solo presi in considerazione per un soggiorno in America era lusinghiero, certo, perché per evitare la cultura americana nella Sarajevo della mia giovinezza bisognava essere sordi, muti, ciechi e in coma. All’epoca in cui conseguii la maturità, nel 1983, il mio film preferito era Apocalypse Now. Veneravo Patti Smith, i Talking Heads e i Television, e il CBGB era per me quello che Gerusalemme dev’essere per un devoto credente. Spesso imitavo la dizione (in versione tradotta) di Holden Caulfield e una volta manipolai il mio inconsapevole padre affinché mi comprasse un libro di Bukowski per il mio compleanno. Quando mi laureai, nel 1990, con mia sorella eravamo in grado di riprodurre interi pezzi di dialogo (storpiati) da La signora del venerdì. Mi arrabbiavo con chi non riusciva a vedere il genio di Brian De Palma. Potevo declamare le rabbiose invettive dei Public Enemy ed ero un patito dei Sonic Youth e degli Swans. Leggevo religiosamente le antologie dei racconti americani disponibili in traduzione, dominate da Barth e Barthelme. Il famoso saggio di Barth in realtà non l’avevo letto, ma trovavo che il concetto di letteratura dell’esaurimento fosse molto fico. Scrissi un saggio su Bret Easton Ellis e il capitalismo corporativo».

In nome di queste coordinate per me riconoscibilissime, leggevo provando l’inconfessabile sensazione che la guerra iugoslava fosse da considerare qualcosa di ancora più oltraggioso dal momento che aveva coinvolto persone che ascoltavano la stessa musica, leggevano gli stessi libri, guardavano gli stessi film che guardavo io. O quasi. Hemon è in realtà nato nel 1964, fa parte quindi di un generazione precedente alla mia, che sono nato nel 1975. Una generazione che posso considerare di fratelli maggiori e che mi ha sempre molto affascinato, forse per la sua natura impalpabile e poco mitizzabile, forse per la relazione di genitorialità culturale che intrattiene con la mia. Molti di noi sono cresciuti, e forse crescono ancora, con gli stanchi ritornelli dei favolosi anni Sessanta o dei rivoluzionari anni Settanta. Nessuno, credo, è cresciuto e crescerà con il modello dei nichilisti e individualisti e autodistruttivi Ottanta, o degli ironici e implosivi Novanta.

Così, leggevo Hemon pensando che nonostante la guerra, con tanto di pulizia etnica e selvagge rese dei conti, i ragazzi iugoslavi fossero a tutti gli effetti ragazzi europei o occidentali e che in nessun altra epoca precedente si fossero realizzati così estesamente i risultati dell’invenzione dei giovani (cit. Jon Savage). Difficile individuare il momento storico in cui i giovani di tutto il mondo hanno finito per risultare indistinguibili in quanto a estetiche e gusti culturali, ma forse sarebbe erroneo farlo risalire esattamente alla Caduta del Muro. Bisognerebbe, invece, andare ancora un po’ più indietro. Per gli appassionati cacciatori di momenti simbolici, ne avrei uno da proporre: il folle volo di Mathias Rust dalla Germania Ovest alla piazza Rossa di Mosca (1987), che prese per il culo il rigidissimo sistema radaristico sovietico. Ma in realtà bisognerebbe andare ancora più in là e citare, appunto, dischi, film, libri, in grado di catalizzare e allo stesso tempo costruire, mattone su mattone, quello che oggi è un assodato immaginario comune.

Un altro libro uscito alla fine del 2013 racconta con un punto di vista molto insolito la relazione tra giovani dei due blocchi contrapposti appena un anno prima che tutto si sbriciolasse. L’ha scritto Marco Drago e s’intitola La prigione grande quanto un paese (Barbera). Nato nel 1967, Drago racconta di una esperienza realmente vissuta, una specie di Erasmus estivo in un campus della scricchiolante Repubblica Democratica Tedesca fatto ai tempi dell’università, una storia che parla, come si legge nel preambolo, di un gioventù autentica. E anche qui si sprecano le citazioni culturali: «L’anno prima, il 1987, era successo che il gruppo pop di Manchester The Smiths si fosse sciolto tra i litigi. Per me era stato un brutto colpo, mi piacevano oltremodo le canzoni che il duo Morrissey/Johnny Marr sfornava da tre anni con prolificità adrenalinica. Ma tre album è, grosso modo, quello che dura una band sana di mente, non c’era niente da fare. A Magdeburgo scoprii il primo album solista di Morissey Viva Hate, con quel titolo così smithsoniano. Rory si era portato con sé la cassetta originale e la suonavamo di continuo, alternandola a Zappa, a Dead Letter Office dei R.E.M. e ai due album solisti di Syd Barrett».

Zappa a parte, una bella dose di teenage angst, non c’è che dire. Lo scenario, completamente diverso, è quello di una università frequentata da giovani di mezzo mondo, occidentali e non, che diventa una specie di isola di libertà estetiche nel mezzo del grigiore totalitario. C’è da dire in verità che il modo in cui Drago descrive la gioventù tedesca non corrisponde alle somiglianze che si trovano nei ritratti di Hemon. E un po’ perché probabilmente quei giovani comunisti rivestivano nell’università dello “scambio culturale” dei ruoli istituzionali che implicavano fedeltà all’ideologia dominante senza sbandamenti, un po’ perché c’era sicuramente una differenza tra i giovani iugoslavi di fine anni Ottanta e i loro corrispettivi tedeschi dell’est; sicuramente i primi erano, per una serie di motivi politici e storici, molto più vicini all’Ovest dei secondi.

Quello che però colpisce molto è la capacità dello scrittore di delineare i contorni di un affresco generazionale tratteggiandolo, nel confronto di civiltà, come se utilizzasse un negativo fotografico. Eravamo questo, sembra il sottotitolo di questo libro di memorie, perché non eravamo quell’altro: La povera realtà della DDR non poteva reggere il confronto con la mia vera vita, che non era proprio niente di speciale, semplicemente era la vita di un ventenne italiano degli anni dell’edonismo finalmente sdoganato dopo un periodo di pauperismo sbandierato, di austerità, di violenze e ideologie basate soltanto sul sentito dire. D’altra parte, proprio l’impalpabilità che caratterizza questa generazione di nati negli anni Sessanta rende complicata qualsiasi sintesi. Non volevano cambiare il mondo, non si sono battuti contro il potere, non hanno lottato per la parità tra uomo e donna, non hanno manifestato per la pace o i diritti civili, quale potrebbe essere allora il loro epitaffio? Hanno ascoltato molti dischi, letto bellissimi libri, guardato film stupendi?

Tavola tratta da Graphic Novel is Dead, di Davide Toffolo, Rizzoli Lizard 2014

L’assenza di un impulso collettivo verso qualcosa – il futuro? Il progresso? – accompagnato paradossalmente dalla più estesa condivisione collettiva di desideri e bisogno espressivo mai riscontrata (contraddizione ancora più paradossale nella generazione raccontata da Hemon alle prese con una guerra fratricida)… È questo, credo, il denominatore comune che mi ha fatto avvertire una strana ma sintomatica consonanza tra i libri di Drago e di Hemon e un terzo libro ancora, letto in questi giorni, il graphic novel di Davide Toffolo, Graphic Novel is Dead, appena uscito per Rizzoli Lizard. Anche lui nato nel 1965, quindi coetaneo di Drago e di Hemon, cantante dei Tre Allegri Ragazzi Morti e fumettista con un grande seguito nel circuito alternativo, ha scritto una bella autobiografia a fumetti in grado di elevare questa forma di sottile depressione generazionale, di cervellotica senza sbocchi, di nostalgia senza oggetto in un canto epico o persino eroico. Rock’n’roll. Un giorno su. Tre giorni giù, si legge nella tavola in cui il protagonista-autore si lancia dal trampolino e scompare nell’acqua di una piscina, in una versione lo-fi del celebre splash di Hockney, che sintetizza alla perfezione la caratteristica alternanza di pulsione all’onnipotenza e desiderio di invisibilità. Ma fino a quando durerà questo nascondino? Mi chiedo, e non senza coinvolgimento personale, se tra dieci o vent’anni i giovani degli Ottanta e dei Novanta, saranno considerati come quelli dei Sessanta o dei Settanta, altrettanto cruciali per la storia. E mi dico: probabilmente no.