Anche a un cuore spezzato, dopo un po’, ci si affeziona

Cosa fare col dolore che viene dalla fine di una relazione è una domanda che ci facciamo da sempre, da Platone a Gondry passando per Barthes e Sex and the City. La risposta ancora non l'abbiamo trovata.

21 Settembre 2025

Uno dei ricordi di cui mi vergogno di più risale a una dozzina di anni fa. Mio padre era stato male, l’avevano portato in ambulanza in un ospedale nella zona sud della città e le infermiere ci avevano avvisate di tenerci pronte, che non avrebbe superato la notte. Poi, invece, il quadro clinico era a poco a poco migliorato, e circa un mese dopo avevamo festeggiato il suo ritorno a casa in un ristorante piemontese che, secondo lui, serviva un ottimo bollito misto. Di fronte al mio piatto di biancostato e mostarda, però, non ero stata capace di fargli capire quanto fossi sollevata, e felice, per come erano andate le cose. Al contrario, non riuscivo a smettere di piangere, ed era toccato a lui provare a consolarmi, in quel modo un po’ goffo da uomo nato negli anni Cinquanta che ha scarsa dimestichezza coi sentimenti propri e altrui, mentre mia madre tratteneva a stento il disappunto.

Il mio fidanzato era sparito da dieci giorni, e io ero disperata. All’anulare della mano sinistra portavo un anellino che mi aveva regalato lui, ma il suo telefono era sempre spento, i miei messaggi restavano invariabilmente senza risposta e quando avevo provato a contattare la sua famiglia mi avevano detto che no, non era a Milano, ma non sapevano di preciso dove si trovasse – l’avrei scoperto tempo dopo: era andato all’Elba con la baby sitter che si prendeva cura di lui quand’era bambino. A conferma del fatto che, a volte, la realtà supera l’immaginazione.

Appunti su un cuore spezzato

La protagonista di Appunti su un cuore spezzato di Annie Lord, romanzo autobiografico pubblicato da Mondadori con traduzione di Alessandra Castellazzi, si trova in una situazione analoga quando, di fronte alla nonna allettata, non può fare altro che lamentarsi di quanto stia soffrendo perché Joe, il suo ragazzo, l’ha piantata di fronte alla stazione di King’s Cross senza troppe spiegazioni.

È un dolore sempre nuovo, quello che si sperimenta nei mesi che seguono un abbandono. Per quante persone abbiano potuto ferirci e per quanti anni siamo stati in terapia, un cuore spezzato, come il fegato di Prometeo, sembra capace di ricomporsi solo per essere spezzato di nuovo, all’infinito. Annie attraversa questo tormento, perde l’appetito, non dorme, dà l’assillo a tutte le sue amiche, non riesce a parlare d’altro, è esasperata dai suoi stessi pensieri e si domanda, impaziente, quanto ancora durerà tutto questo dolore. La vulgata – autorevolmente rilanciata da Sex & The City – vorrebbe che ci si impieghi metà della durata di una relazione per superarne la fine. Silvio Muccino, in un film che ha segnato la formazione sentimentale dei Millennial italiani, sospirava invece «Vorrei dormire, e svegliarmi tra tre anni, quando tutto sarà finito, perché so che come te non ci sarà nessuno mai», proiettando la fine delle sofferenze un migliaio di giorni dopo la fine dell’amore, e tutti abbiamo sperato che stesse esagerando.

Le giornate di chi soffre per amore sono un carosello di elucubrazioni, fantasie, ricordi messi in fila nel tentativo di stanare il momento in cui si è aperta la crepa e l’amore è svanito, di attese vane e faticose, di false ripartenze, di piccole delusioni tutte le volte che il telefono vibra e no, di nuovo non è lui. Sono un supplizio.

«Ho un materasso di parole scritte apposta per te», cantava Lucio Dalla, e quelle parole continuano ad affiorare anche quando il loro destinatario si è eclissato. Sfuggono al nostro controllo e non si può fare a meno che ripeterle come un mantra, tutti i giorni gli stessi discorsi, con variazioni minime: il nome, il suo nome che riempie ogni angolo della coscienza. E pazienza se ogni “what if” che ci figuriamo prolunga la nostra sofferenza, anche a quella, dopo un po’, ci si affeziona, come se fosse l’ultima, preziosa testimonianza dell’amore che abbiamo vissuto, la prova che non è stato solo un sogno. Tutto, pur di non lasciar andare.

Frammenti di un discorso amoroso

«L’assenza diventa una pratica attiva, un affaccendamento (che mi impedisce di fare altro); ha luogo la creazione di una finzione con ruoli multipli (dubbi, rinfacciamenti, desideri, malinconie). Questa messa in scena di linguaggio allontana la morte dell’altro. Manipolare l’assenza significa far durare questo momento, ritardare il più a lungo possibile l’istante in cui l’altro potrebbe, dall’assenza, piombare bruscamente nella morte», scrive Roland Barthes in Frammenti di un discorso amoroso.

Quando l’altro scompare dall’orizzonte si trasforma in figura fantasmatica: non è mai presente, eppure c’è sempre, è dappertutto. Come faccio a tornare in quel posto, se l’unica volta che ci sono stata ero con lui? E come faccio a riascoltare quella canzone, ad abbandonarmi a un altro corpo, a salire su un regionale diretto proprio in quella città?

Per tutto il romanzo Lord alterna la prima alla seconda persona: mentre racconta il proprio sconforto al tempo presente torna a rivolgersi di continuo all’ex fidanzato al tempo passato, ed è attraverso questi frequenti e immaginari confronti con Joe che il lettore ricostruisce la nascita del loro amore fra i corridoi dell’università, il periodo della convivenza, tutti i dettagli che hanno fatto della loro relazione quella relazione e che hanno contribuito alla creazione di una mitologia di coppia che, quando la coppia non c’è più, fa male solo a pensarla.

Dopo i primi giorni di disperazione anche Annie decide di sparire. Risoluta, si ritira in sé stessa, smette di cercarlo, lo blocca su Instagram, fa tutto quello che serve per prendere le distanze – ma la postura stoica di chi sopporta il dolore con riserbo è solo un gioco di finzione, uno scenario posticcio messo in scena per un pubblico che non si sa neanche se stia ancora guardando lo spettacolo, o se abbia già cambiato sala. «Piango perché ho seguito tutte le regole», si trova a confessare dopo qualche tempo. «Sono diventata un fantasma, ma lui non ha sentito la mia mancanza quando sono scomparsa». Si tormenta, convinta che Joe sia andato avanti e abbia dimenticato tutto; lei, invece, è ancora lì ferma in attesa del suo ritorno.

Platone e Jim Carrey

Non soffriamo solo perché ci manca quella persona così eccezionale, ma anche perché, andandosene, il nostro innamorato si è portato via un pezzo importante di noi. Nell’Alcibiade primo Platone scrive che per conoscere sé stessi è necessario osservare la propria pupilla riflessa nell’occhio di un altro, perché solo nell’altro è possibile osservare la parte migliore di noi stessi. È quello che succede nell’amore: l’immagine che ci viene restituita dallo sguardo della persona che amiamo rivela potenzialità di noi che non sapevamo neanche esistessero, ci fa rilucere. «Nel tempo ho imparato ad amare il mio corpo attraverso il tuo amore. Prendendo in prestito i tuoi occhi. Ma ora non ci sei più e ai miei occhi non piace più quello che vedono», scrive Lord, che si vede costretta a ricostruirsi daccapo, a darsi una nuova identità facendo affidamento solo sullo sguardo che le viene restituito dallo specchio e che spesso si rivela impietoso.

“Devi ricominciare a pensare a te”, dicono le amiche dopo un po’. “Dimenticalo”, ripetono tutti, ed è vero, chi soffre per amore confida strenuamente nel potere dell’oblio che, prima o poi, arriverà a ripulire i pensieri. «È la condizione per la mia sopravvivenza; poiché se io non dimenticassi, morirei. L’innamorato che non dimentica qualche volta, muore per eccesso, fatica e tensione di memoria», scrive Barthes.

In Eternal Sunshine of a Spotless Mind, Clementine (Kate Winslet) decide di rivolgersi alla clinica Lacuna per dimenticare Joel (Jim Carrey), dopo che la loro storia è finita. Quando Joel lo scopre rimane così ferito da decidere di fare altrettanto, ma mentre gli elettrodi agiscono sulle sue sinapsi qualcosa va storto: una parte di lui non vuole davvero scordarsi di Clementine e fa di tutto per aggrapparsi al suo ricordo.

«Beati gli smemorati perché avranno la meglio anche sui propri errori», si dice nel film citando Nietzsche, perché ricordare è anche e sempre una condanna all’infelicità. Forse Joel, nel suo disperato tentativo di resistere all’oblio, è mosso dal bisogno di sentire ancora un legame con Clementine. O forse non vuole cancellare una persona che ha segnato la sua vita, di cui riconosce il valore e che merita di sopravvivere nel ricordo anche a costo di generare così tanta nostalgia. «So che non passerò il resto della mia vita con te, ma passerò una fetta di vita più grande con la lezione che abbiamo imparato insieme, e con la persona in cui mi hai trasformato», scrive Annie Lord nelle ultime pagine di Appunti di un cuore spezzato, trovando forse una pacificazione con quanto è accaduto.

Il finale del film di Gondry, però, apre anche a una nuova speranza. Clementine e Joel si ritrovano sulla spiaggia di Montauk, proprio dove lei, un attimo prima di essere cancellata dalla sua memoria, gli aveva detto di cercarla. I due protagonisti, mossi da una forza molto più potente di loro, finiscono per innamorarsi di nuovo – basta uno sguardo e i loro cuori si ricompongono, come se certe affinità elettive fossero così profonde da non poter essere davvero rimosse, o come se il tempo trascorso insieme li avesse ormai modificati e li calamitasse inesorabilmente l’uno verso l’altra, a dispetto di tutti i pianti, e la fatica, e il rischio di spezzarsi ancora.

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