Una scena di Melancholia (2011) di Lars von Trier

Cultura | Idee

Il mito della fine del mondo

Dalla filosofia antica a quella moderna, dall'apocalisse al cambiamento climatico: dove nasce e perché si può confutare l'idea ricorrente che l'uomo sia responsabile di tutto.

di Giordano Tedoldi

Nel film Melancholia (2011) il regista danese Lars von Trier narra la fine del mondo. L’avvenimento è determinato da un pianeta, Melancholia appunto, che dopo aver effettuato una “danza di morte” (il riferimento alla pièce di Strindberg è scoperto) in cielo, entra in collisione con la Terra e la distrugge. L’evento finale è commentato, in modo quasi kitsch, dalla sublime musica del Tristan und Isolde di Wagner. Musica intossicante, erotica, mentre i protagonisti superstiti del film si raccolgono, umili, impotenti, terrorizzati oppure esaltati, sotto una capanna “magica” che, dicono al bambino, lo salverà. È chiaro che nessuno sarà salvato. Il Ragnarok, il mito norreno della fine del mondo, che tanto persiste nella cultura dei Paesi nordici (di nuovo, in Wagner, ne Il crepuscolo degli dèi, giornata finale della tetralogia dell’Anello del Nibelungo) non può lasciare scampo.

Il mito della fine del mondo è, comunque, ricorrente in moltissime civiltà. Per gli stoici, c’erano i cataclismi cosmici che rinnovavano il mondo (opinione opposta a quella di Aristotele, che invece credeva nella sua eternità). L’idea stoica era anch’essa piuttosto simile al finale di Melancholia, almeno da un punto di vista, per dir così, di grandiosità cosmica: era una specie di corsa vers la flamme (titolo di un virtuosistico pezzo pianistico di Alexander Scriabin), un incendio del mondo che sarebbe poi risorto, purificato, dalle sue ceneri.

Venendo alla nostra epoca, la fine del mondo è stato un pensiero ricorrente e ossessivo in primo luogo di quella variegata compagnia di filosofi e artisti che si possono riunire sotto l’etichetta di “avversari della tecnica”. Husserl, Heidegger, Spengler, ma più avanti qualunque restauratore di un perduto Eden “umanistico”, incluso Marx, sottintendevano alla loro analisi storica un momento di crisi mondiale (il crollo del saggio di profitto nella teoria marxiana), di estremo spasmo della Terra (intesa ovviamente come Terra abitata dagli uomini, come Terra storico-umana) che avrebbe riportato a un approccio più naturale e, appunto, umano alla vita. E, addirittura, all’uomo nuovo. Le premesse mistiche di queste filosofie, anche quando si professano materialistiche, non sono eludibili. La trasposizione sul piano storico della vicenda cristiana di una creazione ex nihilo che si sviluppa fino allo squillo delle trombe del Giudizio finale è stata ampiamente analizzata nella filosofia del Novecento (Karl Löwith).

In Luci d’inverno (1963), di Ingmar Bergman, c’è un riflesso invece del grande timore di quegli anni: il giovane marito Jonas Persson, già padre e con la moglie in attesa di un altro bambino, è ossessionato dai Cinesi, di cui ha letto su un giornale la loro perfidia, la loro disumanità (del resto, non sono cristiani) e il fatto che sarebbero in possesso della bomba atomica. La sua idea fissa, di un annientamento nucleare, è incurabile, e poco dopo il pastore Ercisson verrà informato del suicidio di Jonas, che si è sparato col fucile (echi di Pan di Knut Hamsun?) presso un fiume. Per alcuni la fine del mondo può essere introiettata fino a diventare una questione privata, la propria realtà collassa oggettivamente ed è oggettivamente giusto, o logico, porvi fine. Personaggi del cinema americano come il Taxi Driver di Scorsese o il Joker di Todd Phillips hanno un quid di questa resa dei conti cosmica miniaturizzata al livello di pulsioni individuali. Il pastore Ericsson, invece, alla fine del film, deciderà comunque di celebrare la messa (e la comunione) in una chiesetta pressoché vuota, palpabilmente sommersa dal silenzio di Dio: «Devo andare avanti, non per me, per gli altri».

Kirsten Dunst in Melancholia (2011) di Lars von Trier

Venendo al nostro presente, tutti sappiamo, o credevamo di sapere, in che forme si presenta l’archetipo immutabile della fine del mondo. E la testimone di questa consapevolezza è Greta Thunberg. Lei è la portavoce di un movimento mondiale, ma non è Greta a averci informato sui rischi che corriamo per via delle mutazioni climatiche, è la scienza. In questo tempo polemico e non privo di fazioni estremistiche, ci si accapiglia su Thunberg, che alcuni acclamano come il nuovo Messia e altri denigrano per la medesima ragione spiando ogni minima incongruenza tra predicare e razzolare, ma non sembra che l’emergenza circa le emissioni inquinanti e il surriscaldamento globale prodotto dalle attività umane sia diventato, per i governi, un’urgenza poco più marcata che un’astratta prefigurazione o contemplazione del Ragnarok dell’Occidente. In effetti, a volte si ha la sensazione che l’uomo sia più stoico, più fatalista del necessario.

Curiosamente non è meno forte l’impressione che invece, l’uomo contemporaneo, sia molto più inebriato di superomismo. Da questo punto di vista, sorprende che egli si sia scelto, con il conforto della scienza, cioè a dire dell’apparato concettuale più accurato e preciso che abbia mai elaborato, una ridicola certezza circa il proprio cataclisma che, se avverrà (e per alcuni è già inevitabile), avverrà nelle forme di un aumento di pochi, cruciali gradi della temperatura terrestre. Con la stessa convinzione con cui l’uomo uscito dalla Seconda guerra mondiale si disperava di fronte all’incubo nucleare, così oggi noi siamo paralizzati all’ipotesi di una Terra soffocata dalle conseguenze di uno sviluppo economico insostenibile e da un consumo irresponsabile.

Ma oggi siamo preoccupati da una minaccia del tutto diversa, una minaccia microbiologica. C’è stata, proprio come nella danza di morte del pianeta Melancholia, quella che nel calcio si chiama “una finta”. L’uomo occidentale, così convinto, e così scientificamente convinto, del suo tipo di Ragnarok, quello paventato da Greta, si trova ora, inopinatamente, di fronte a un altro scenario, a un’altra paura, che mette in movimento altre energie psichiche, altre immagini, altri simboli. E che, si badi, non dipende deterministicamente da una manipolazione umana della Terra. Il nuovo virus sembrerebbe essere solo una fatalità o, se così si vuole metterla, un’azione autonoma della Terra ai danni dell’umanità. Una calamità non diversa da un terremoto o uno tsunami. Se dunque nel primo Ragnarok, quello del surriscaldamento globale, l’uomo è al centro del dramma tanto come provocatore del cataclisma, quanto come eventuale salvatore (una concezione che ha qualcosa di sovrumano), in questo secondo angoscioso stato che stiamo vivendo in questi giorni, l’uomo è ridotto a giocattolo della natura, a vittima di una Terra impaziente, collerica, o forse, più correttamente, indifferente ai destini umani. L’impotenza sentita da ogni individuo, nonostante l’avanzamento tecnologico con cui è in contatto in ogni istante della sua vita, è umiliante e sconcertante e tale da emergere  in indicazioni come “non scambiatevi la mano”, “lavatevi con acqua calda e sapone contando fino a ventuno”, “state a distanza di almeno un metro”.

È difficile trattenersi dal trarre una morale da questa “finta”, da questo spostamento delle insidie rappresentative della fine del mondo, dalla minaccia del cambiamento climatico a quella pandemica, e dal fatto che se la prima ha finora alimentato soprattutto discussioni teoriche, la seconda sta concretamente incidendo nelle nostre vite come mai avremmo pensato

David Quammen, in un articolo sul New York Times, ricorda quanto la distruzione di ecosistemi per opera dell’uomo giochi un ruolo nello spillover, il passaggio di un virus da un animale all’uomo. Tuttavia le infezioni batteriche, il contagio da virus e le zoonosi non sono un fenomeno esclusivo dell’antropocene, ed è legittimo domandarsi se lo stesso concetto di antropocene, carico del suo pathos accusatorio nei confronti della civiltà contemporanea, della sua organizzazione economica e della sua tecnologia, non sia anche un preconcetto secondo il quale il mondo, inteso come cosmo naturale indipendente dall’agire umano, non solo non ha alcuna responsabilità ma nemmeno nessun ruolo causale; e, così evirato, ne risulta che tutte le specie viventi che lo abitano, oltre a quella umana, dai batteri ai grandi mammiferi, esprimono comportamenti aggressivi, predatori o invasivi solo in quanto sono stati provocati a farlo dall’uomo, unico agente in un cosmo incredibilmente complesso. Secondo questo pregiudizio, tutto ciò che accade è, eminentemente ed enfaticamente, provocato dall’uomo: dal surriscaldamento globale a una pandemia.

Eppure l’uomo non è solo in questo mondo, ma anche di questo mondo. Si potrebbe immaginare un’entità superiore – poniamo lo stesso pianeta Terra, rappresentato come un tutto senziente la cui complessità organizzata e la cui coscienza ci sfugga – il quale, a sua volta, attribuirebbe la causa di tutti i nostri comportamenti distruttivi non a noi stessi, ma a sé, per via del fatto che, dopotutto, la “Terra ci provoca”, ci obbliga, ci vincola per via delle sue immutabili leggi naturali a metterla in pericolo. Se la Terra trattasse meglio gli uomini, se fosse dotata di un misterioso sistema di equilibrio termico, se fornisse più risorse, se i suoi oceani si purificassero da sé dalla plastica, non ci troveremmo in queste condizioni. Se l’uomo ha una responsabilità causale per i suoi comportamenti aggressivi e distruttivi nei confronti delle altre specie, perché tale responsabilità la neghiamo alle altre specie? Perché “l’altro” è sempre una nostra determinazione, e perché siamo ciechi di fronte alla contraddittorietà di questo suo statuto tutto interno alla nostra riflessione e alle nostre relazioni causali? Jacques Monod, ne Il caso e la necessità (1970) definisce i virus, non senza l’ammirazione spassionata del biologo, «meccanismi di precisione». Questi “meccanismi di precisione” si sono formati nel corso di un lungo travaglio evolutivo che non ha nulla a che fare con la distruzione umana degli ecosistemi: la loro struttura, la loro forma essenziale si è stabilizzata prima. Ed è innanzitutto questa loro “precisione”, indispensabile alla loro vita e proliferazione, a insidiarci, e solo secondariamente l’attività umana, il che non significa cancellare, certamente, il portato di quest’ultima.

È difficile trattenersi dal trarre una morale da questa “finta”, da questo spostamento delle insidie rappresentative della fine del mondo, dalla minaccia del cambiamento climatico a quella pandemica, e dal fatto che se la prima ha finora alimentato soprattutto discussioni teoriche, la seconda sta concretamente incidendo nelle nostre vite come mai avremmo pensato. La considerazione che l’uomo possa arrogarsi il diritto o assumersi la certezza di conoscere come avverrà la fine del mondo (conoscenza inevitabile se si crede che saremo noi i soli a determinarla) appare decisamente scossa. Che quello stesso apparato scientifico e tecnologico che, secondo alcuni, è causa non indifferente dello stress climatico, poi ci fornisca i dati oggettivi e incontestabili che lo misurano e, con un pathos tipico della sua matematica dogmaticità, suoni l’allarme circa la fine del mondo, è forse, ancora e prima di tutto, una grottesca manifestazione di superomismo, di volontà di potenza.

Ma la volontà di potenza, se davvero vogliamo incarnarla, la possiamo attribuire all’uomo, non alla Natura o al Mondo, che, come recita un frammento di Eraclito, è sempre stato e sempre sarà quel che è, dunque, non può “volere” nulla. Il pianeta non può volere né il nostro bene né il nostro male, e i virus non sono suoi messaggeri incaricati di annunciare novelle liete o funeste. La capacità di calcolo, gli algoritmi e i dati (che non sono mai dati puri, “raw”) dai quali plasmiamo modelli e simulazioni catastrofiche sono pur sempre e soltanto una prospettiva, una direzione dello sguardo, e non dicono nulla circa il cosmo nella sua totalità, e analogamente agli antichi oracoli conservano una loro specifica approssimazione e ambiguità. Né, soprattutto, dicono niente sull’uomo in generale, ma al massimo sulla concezione che l’uomo ha di sé in questa epoca, e sul suo persistente orientarsi anticipando un futuro che, ancora una volta, si dimostra non riposare interamente nelle sue mani.