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Berlusconi è morto, ma è risorto come genere narrativo

Il libro appena uscito di Filippo Ceccarelli, il documentario Netflix sugli anni giovanili, la miriade di film, articoli, saggi, aneddoti che lo riguardano sono la conferma di una cosa: la fascinazione per Berlusconi non è affatto finita.

di Giulio Silvano

Il periodo in cui Silvio Berlusconi faceva avanti e indietro dall’ospedale, poco prima che morisse, ha coinciso con quello in cui tutti si divertivano a usare i software gratuiti di intelligenza artificiale per creare immagini. E così erano apparse sui social quelle del suo funerale. Tanto che Wired ci fece un articolo: “Le immagini del funerale di Berlusconi create da Midjourney sono di un realismo inquietante”. Una folla oceanica nella nebbia di Milano, con i tricolori e marce novecentesche. Una bara d’oro circondata dai paparazzi. Composti tifosi del Milan a lutto ed eleganti ragazze disperate in lacrime. Quando due mesi dopo Berlusconi è morto davvero i funerali sono stati ben diversi, sicuramente più assurdi – forse più fellinianamente italiani – di quelli creati dall’AI. C’era il sole, per prima cosa, e poi Lele Mora e Umberto Bossi, Vanzina e Mario Draghi, i vip delle sue tv, vecchi volti ormai dimenticati della Mediaset che fu, Emilio Fede che maledice l’autista perché non arriva in tempo, la stretta di mano tra la figlia e la quasi-moglie trentenne, il meme col Gabibbo. Sembrava che tutti fossero lì per rendersi conto che fosse vero, che la morte fosse avvenuta. Ogni individuo presente rappresentava un frammento degli effetti generati da quel prisma che è stato Berlusconi.

Questo meccanismo di realtà che supera la fantasia si applica a tutto ciò che riguarda Berlusconi. È un refrain ripetuto costantemente quando si parla di lui. Ed è come se mancasse sempre qualcosa quando si prova a rappresentarlo. La cinematografia sul Cavaliere, ad esempio, è sempre risultata o stucchevole o esageratamente satirica. C’è solo un film che è un buon film su Berlusconi, Il caimano di Nanni Moretti, che è infatti un film sull’incapacità di fare un film su Berlusconi. (Oltre a farsi la domanda del peccato originale: ma i soldi iniziali per le imprese da dove arrivavano? Tipo Conte di Montecristo).

Non basterebbero nemmeno le 9 ore del documentario di Lanzmann sulla Shoah per mettere insieme tutti i momenti di riprese, dalle interviste a Minoli fino ai reel di TikTok (che lui voleva chiamare TikTokTak). Sarebbe possibile creare un Blob infinito, come una biblioteca di Babele in formato clip con barzellette, testimonianze dirette e indirette, comizi, telefonate registrate dagli inquirenti con le olgettine. Amici, nemici, sconosciuti, servi, colleghi, osservatori esteri che parlano di lui. Lui che parla di sé stesso. Ognuno che condivide il momento in cui l’ha conosciuto – come di fatto è successo nei talkshow dopo la morte dove pure i nemici, come Massimo Giannini, hanno parlato delle cravatte che gli erano state regalate.

Il documentario Netflix, Il giovane Berlusconi, ideato prima della morte, con un titolo così sembrava potesse essere una finestra sul Berlusconi bambino, ragazzo, qualcosa che preceda la figura pubblica. Ma non è così. Perché del Berlusconi bambino, ragazzo dobbiamo accontentarci dell’aneddotica, spesso piena di contraddizioni, come fosse il tentativo di un Diogene Laerzio sulla biografia di un presocratico o un mito della Biblioteca del Pseudo-Apollodoro, dove si può dire tutto e il contrario di tutto su una divinità dell’Olimpo, e dove le incongruenze non disturbano. Il doc, non avendo una tesi forte, non riesce a essere altro che un pezzo di questo infinito potenziale Blob. Ex collaboratori parlano soprattutto della sua “genialità”, di come abbia “rivoluzionato” prima la tv e poi la politica, parlano del suo charme. Achille Occhetto si pente di non aver capito allora che era stato un errore mettersi un completo marrone la sera del loro scontro televisivo pre-elettorale. La vera forza delle tre puntate è mostrare dei momenti in cui Berlusconi appare timido, prima di superare quella barriera che è arrivata a un certo punto al massimo livello di cringe dell’autostima.

Non solo clip. La letteratura su Berlusconi è molto ampia. Con Berlusconi che si avvicinava ai 90 anni, alcuni hanno iniziato a fare un resoconto su di lui e su tutto quello che ha toccato. Prima non si poteva. Perché lui era in grado di cambiare ogni volta le carte. Antonio Ricci diceva che la sciagura di Berlusconi sia stato creare i berlusconiani e gli antiberlusconiani. Ed entrambi hanno scritto libri. Marco Travaglio, che prenderebbe una buona metà di questa mensola (si contano una ventina di titoli, tra cui il Le Mille balle blu, con Peter Gomez, che raccoglie «detti, contraddetti, bugie, figuracce, promesse, smentite e telefonate segrete», altro frammento di quella possibile biblioteca infinita citazionista). Con l’addio a Berlusconi, Travaglio, fedele alla sua linea, ha fatto uscire Il santo (Paper First), sull’ingiustizia della beatificazione del Cav, e di come sia una scusa «per continuare a delinquere».

Ma il libro più atteso di tutti, e sicuramente il più completo, è quello che esce oggi di Filippo Ceccarelli, B. Una vita di troppo (Feltrinelli). (Dopo l’M di Scurati, il B di Ceccarelli, e magari arrivassero altri tre volumi, il materiale ci sarebbe). Completo, per quanto possibile. E lo dice l’autore stesso: la completezza con Berlusconi è impossibile. Ci sarà sempre qualcosa che sfugge, oltre a centinaia di contraddizioni possibili, come il numero delle sue zie suore che cambiava e aumentava in ogni racconto. Una prima parte, ricca di sagaci commenti e di brillanti parallelismi, frutto di una pazzesca ricerca – di cit. e di storie – è seguita dal grosso del volumone, un vero e proprio tentativo di biografia. Il libro di Ceccarelli è il nostro arbasiniano Fratelli d’ItaliaFratelli di Publitalia?, da aprire a caso per trovare la frase perfetta, un i-Ching della seconda repubblica, una Garzantina dell’esuberanza, del calembour, della barzelletta, del tentativo di piegare la realtà a proprio piacimento, come i limoni comprati al mercato che Berlusconi fece legare ai rami degli alberi per il G8 di Genova.

Lo stesso Ceccarelli riporta quanto sia difficile fare ordine nel marasma di informazioni di cui siamo stati bombardati. Tutti nell’Italia degli ultimi 40 anni hanno detto qualcosa su B, e forse come nel libro incompiuto sui passage di Benjamin, si potrebbero raccogliere tutte le citazioni, tutto quello che gli altri hanno detto di Berlusconi (in qualche modo c’era stato qualcosa che andasse in questa direzione: per Mondadori un libro Berlusconi ti odio che raccoglieva «le offese della sinistra al Premier pubblicate dall’Ansa», e poi un istant book con una selezione tra i 50 mila messaggi dei fan lasciati sul sito forzasilvio.it dopo l’aggressione a Milano in cui gli fu lanciato in faccia una statuetta-souvenir del Duomo).

Ci dovrebbe essere, se non c’è già, una mensola Berlusconi nelle Feltrinelli, anche solo per vedere i mille modi in cui si può parlare di qualcuno. Si andrebbe dal “panegirico dell’arcitaliano” di Buttafuoco al bestseller del fido Del Debbio (con prefazione di Marina e testo inedito del Cav), passando per il ragionato Il populista in doppiopetto del politologo Piero Ignazi (il Mulino), appena uscito, e arrivando, sempre per il Mulino, al witty fogliantesco C’eravamo tanto odiati. Breve storia dell’antiberlusconismo di Andrea Minuz, che tra gli eserghi ha la frase di Ferie d’agosto (questo sì un gran film sul berlusconismo allargato, sugli effetti): “La verità è che voi intellettuali non ci state a capì più un cazzo… ma da mo’”.

Forse parlare di B. non è lavoro da intellettuali. Forse niente come una sua frase può spiegarlo. O forse è troppo semplice per una mente accademica. Forse, nell’azione matta ed efficace, non c’è spazio per le dietrologie. C’è una frase che gli disse un tizio che gli si lanciò sul cofano della macchina, «Berlusconi, sei una bella figa!», che per lui fu il più grande complimento della vita. Dovrebbe forse bastare questo.