Attualità | Dal numero

Dialogo sulla famiglia omosessuale

Una conversazione libera tra due Millennial su matrimonio gay, diritti acquisiti e diritti da conquistare, vite da privilegiati e vittimismo social, militanze vecchie e nuove e prospettive per il futuro.

di Jacopo Bedussi e Mattia Carzaniga

Quando ci siamo chiesti, nel lavorare a questo numero, come affrontare il tema il matrimonio, abbiamo subito pensato alla legge sulle unioni civili del 2016, alla vittoria per metà che ha rappresentato per il nostro Paese e al dibattito politico che ne è conseguito, con tutti gli arresti e le involuzioni di cui abbiamo ampiamente discusso in questi anni. Se è sacrosanto che sposarsi sia un diritto di tutti i cittadini italiani, è vero che nella comunità Lgbtq+ le opinioni sulla scelta o meno di unirsi in matrimonio siano ancora oggi oggetto di ampio dibattito. Di famiglie possibili, soggetti militanti, Millennial, Generazione Z e diritti acquisiti parlano in questa conversazione aperta e sincera Jacopo Bedussi e Mattia Carzaniga, giornalisti e collaboratori di Rivista Studio tra le altre cose, conversazione che ci sembrava il modo più leggero e profondo di affrontare un tema quotidiano, che ci riguarda tutti e di cui non smetteremo mai di discutere.

ⓢ Una provocazione: il matrimonio, come istituzione, è ancora un caposaldo della società eteronormativa o può adattarsi all’evolversi della società? E se quest’ultimo è il caso, in cosa differisce dal passato?
Jacopo: Io sono fidanzato da dieci anni con la stessa persona  e viviamo insieme. Riguardo al matrimonio, penso ci siano due questioni fondamentali, almeno per me. Da un parte c’è la razionale richiesta di un cittadino che paga le tasse di poter fare tutto quello che fanno gli altri, per cui sono assolutamente a favore di qualsiasi tipo di unione, quale che sia l’orientamento sessuale, con figli, senza figli, qualunque cosa vada bene agli altri, ma allo stesso tempo non è la mia personale battaglia. Credo che la militanza nella comunità spesso sia ingessata su alcuni temi e credo anche che spesso, soprattutto fra i più giovani ma forse è anche normale, ci sia poca conoscenza delle fonti, delle origini di determinate battaglie. La militanza oggi ha poco a che fare con quella degli anni Settanta, anche in Italia, nonostante oggi più che mai quelle esperienze vengano spesso citate e rivendicate. Parlare di matrimonio gay agli attivisti italiani di quegli anni sarebbe sembrato folle, una cosa da alieni, perché si cercava un modello che si opponesse allo stile di vita borghese, nonostante quegli intellettuali venissero da un’alta borghesia estremamente benestante e colta. La militanza è diventata pop, ma non ha risolto le sue contraddizioni.

Mattia: Anche io sono fidanzato da dieci anni e sposato da quattro. Non mi ritengo un militante, non lo sono mai stato e la scelta di sposarmi è stata un gesto, banalmente, individualistico, come probabilmente lo sono tutti i gesti oggi. C’era una legge, erano sei anni che stavamo insieme, e l’abbiamo usata, non come un atto politico in senso stretto ma come qualcosa che c’era, che era a nostra disposizione. Ci siamo sposati di fronte a due testimoni, senza dirlo a nessuno, neanche ai nostri genitori, anche per non rompere troppo il cazzo, e tutti i matrimoni per un motivo o per un altro sono una rottura di cazzo. Quando l’ha saputo, mia madre ha detto una cosa che mi ha fatto riflettere, e cioè che per la sua generazione, sessantottini, extraparlamentari, non sposarsi era un atto politico, e infatti i miei si sono sposati quando io avevo undici anni; mentre per la nostra era vero il contrario, seppure in una maniera molto più indiretta. Conosco molte coppie di amici, etero e non, che a sposarsi non ci pensano neanche. Noi non l’abbiamo visto come un atto eroico, ma magari per qualcuno lo è stato, c’è chi ha voluto farlo nel primo giorno utile perché, comunque la si metta, quel gesto ha una valenza pubblica. Io vengo da una famiglia di sinistra e sebbene non mi consideri un militante per un periodo sono stato attivo nella politica locale, il mio coming-out è stato del tutto naturale, non traumatico. Sono cresciuto frequentando amici di famiglia che erano stati apertamente gay nella Brianza degli anni Settanta, con uno di loro, che è morto recentemente, mia madre aveva aperto una libreria che si chiamava Libreria Popolare, che era un punto di ritrovo di gente di sinistra.

Jacopo: Sul pragmatismo dell’atto in sé sono assolutamente d’accordo. Se il mio compagno ha bisogno di assistenza, è giusto che io legalmente possa dargliela e che mi sia riconosciuto questo diritto. Quello che noto è che, a livello di narrazione mainstream, quella che chiamiamo militanza – che poi è politica dei diritti civili – soffre di una sorta di appiattimento culturale. Se in passato si cercavano modelli che erano in aperta opposizione al tradizionalismo della destra, soprattutto per questioni come la famiglia o il matrimonio, oggi si fa opposizione in un modo che quasi rispecchia l’altra parte, non mi sembra cioè che siamo in grado di proporre ipotesi e visioni alternative a quello che può essere una famiglia oggi. Credo insomma esista sia una sorta di carenza ideologica, chiamiamola così: negli anni Settanta, per certi versi, c’era molta più fantasia, poi va bene quelle idee del vivere in comune possono sembrarci irrealistiche, ma è innegabile che ci fosse uno spirito di opposizione alla tradizione che oggi sembra mancare. Faccio un esempio: perché per avere il diritto di entrare in ospedale ad assistere il mio compagno se non sta bene devo sposarmi e, conseguentemente, votarmi alla fedeltà a vita a questa persona? Come mai non siamo riusciti a esprimere una nuova istituzionalizzazione di questi rapporti? Una proposta intermedia sarebbe molto più contemporanea, no?

Mattia: Capisco, però allo stesso tempo mi chiedo perché fare un discorso di comunità che ragiona sempre tutta allo stesso modo? Credo che ci siano moltissime persone eterosessuali per le quali l’idea di famiglia tradizionale non ha mai funzionato e che perciò se ne sono tenute alla larga, in maniera molto pacifica, lo stesso vale anche per i gay, vale per tutte le persone. Poi appunto negli ambienti di militanza esistono molte divisioni, ma quello forse perché sono le persone a essere divise no?

Jacopo: Sì, sono d’accordo, stiamo parlando di famiglia e matrimonio nella società ma anche di comunità Lgbtq+. Diciamo che ogni stagione politica crea delle parafrasi lessicali per indicare questi nuovi nuclei familiari, coppie di fatto, genitore 1 genitore 2 ecc, e io non me la sento di criticare chi vuole una famiglia, dei figli, che sia gay o etero, dico solo che queste formule spesso finiscono per non rispecchiare la realtà degli affetti oggi. Perché io posso essere innamoratissimo di una persona ma decidere che la mia salute voglio metterla in mano, che so, alla mia migliore amica.

Mattia: Ovvio che poi la comunità Lgbtq+ parte storicamente da una necessità di legittimazione, solo che appunto mi sembra che oggi queste questioni siano molto più condivise, al di là dell’orientamento sessuale.

Jacopo: Sì certo, anche tutto il discorso sulla fedeltà, ad esempio, è una questione ben più ampia della comunità stessa. Io credo nelle coppie aperte ma mi rendo conto che a livello di innovazione politica l’idea di matrimonio resta monolitica così come l’idea di famiglia, sembra che non esista la libertà di creare, o meglio istituzionalizzare, modelli differenti. Queste cose riguardano tutti.

ⓢ Il dibattito sulla “rappresentazione” e tutto il racconto che si porta dietro è una cosa che in Italia imitiamo malamente dall’America o c’è, secondo voi, una certa nostra originalità nel trattare questi temi e renderli pop, condivisi?
Mattia: Mi sembra che in generale esista un grosso problema di fondo, e cioè quello di voler essere accettati, questo eterno bisogno di sentirsi legittimati che forse è sintomo del non accettarsi in prima persona, non so, o di voler essere amati, ma questa cosa è esplosa fino al limite del vittimismo.

Jacopo: Lo penso anch’io. Già accettazione, se ci pensi, è una parola orrenda, cosa c’è da accettare? È così, sono così, punto. Mi sembra che questo gridare il proprio dolore, presentandosi sempre come una vittima, invece che in un atto radicale si trasformi poi in qualcosa di grottesco, che ricorda il modo orribile in cui si parlava dei “problemi” dell’Africa negli anni Novanta. È un continuo ricorso al dolore emotivo, al mostrare la ferita più grave, per risultare patetici, per suscitare empatia.

Mattia: Pensa al romanzo “gay” per eccellenza degli ultimi anni, A Little Life [da noi Una vita come tante, Hanya Yanagihara,
Sellerio, 2016, ndr], che è una storia di solo pietismo e dolenza, dove l’essere gay è associato al dolore, all’essere vittima. Sarà perché io mi sono sì sempre sentito molto gay ma anche che per me l’essere gay è una tra le tante cose che sono, ecco… anche per questo motivo il racconto gay perennemente vittimista mi dà sui nervi.

Jacopo: Magari rischiamo di sembrare retrogradi però ecco non sempre puoi paragonare la tua vita da omosessuale italiano, bianco, a quella di un ragazzo che vive in Iran o in contesti oggettivamente più difficili. Capisco la difficoltà, capisco che non tutto il Paese è uguale e che in Italia, come ovunque, c’è ancora tanta omofobia, transfobia: sono cose reali. Credo, però, che l’intersezionalità nella militanza passi anche da una auto-analisi che riconosca il nostro privilegio, in cui capiamo che ci sono tante cose che mancano ma anche tante cose che già abbiamo, e soprattutto che riconosca il fatto che tutti siamo vittime e tutti siamo carnefici in situazioni diverse. Mettersi sempre nella posizione di vittima “pura” è estremamente ricattatorio. Non c’è intersezionalità in questo tipo di vittimismo. È un’empatia pericolosissima perché se ci sentiamo tutti unici, allora nessuno lo è: solo quando ci si sente parte di una molteplicità si può costruire un’esperienza comune e condivisa.

ⓢ Che differenze ci sono nell’approccio a questi temi, secondo voi, tra Millennial e Generazione Z?
Mattia: Come dicevamo poco fa, mi pare che ci sia ancora un problema perché in tanti non si accettano e non so bene identificare il perché, magari in parte è colpa della militanza passata. Oggi c’è una generazione che definiamo fluida ma che per molti aspetti sembra anche molto più spaventata di quanto non lo fossimo noi, poi bisogna anche dire che tutte queste etichette spesso gliele appiccichiamo noi, eh, non so quanto siano reali. La figlia di una mia amica, sedicenne, mi raccontava tempo fa della sua compagna di classe, un “maschiaccio”, parole sue, che a volte ha un fidanzato e a volte una fidanzata, e lo ha fatto senza usare troppe etichette, come avrei fatto io alla sua età. Allora mi chiedo: è la generazione precedente, cioè la nostra, che racconta quella più giovane così, utilizzando tutte queste formule, oppure c’è ancora questo problema di non accettazione di fondo che è rimasto irrisolto? Perché l’essere gay è ancora una profonda vergogna per moltissime persone.

Jacopo: Questo purtroppo è vero. Poi penso che un aspetto da tenere in considerazione sia il fatto che noi Millennial siamo invecchiati quasi senza rendercene conto: mentre le generazioni precedenti invecchiavano “con orgoglio”, diciamo così, a noi non è successo perché, banalmente, non abbiamo avuto le stesse possibilità di posizionamento economico all’interno della società. Quindi forse quando abbiamo visto che stavamo diventando irrilevanti rispetto a tutta una serie di dibattiti culturali che si stavano consumando, soprattutto online, ecco, non l’abbiamo presa benissimo. Siamo la generazione che critica il privilegio ma che al tempo stesso si definisce vittima e queste due cose non possono stare insieme. Io so di essere privilegiato, perché sono bianco, vivo in Occidente, sono ricco rispetto alla stragrande maggioranza di persone che vivono nel resto del mondo, ho molti più diritti della stragrande maggioranza di persone nel mondo. Quei diritti acquisiti vanno usati e protetti, sono diritti che mi sono stati consegnati dalla storia e che io applico nella mia vita di tutti i giorni, vivendo apertamente la mia sessualità, decolorandomi i capelli, decidendo di non fare figli e così via. Io rivendico la possibilità di poter fare queste cose e rivendicarlo significa essere consapevoli di non essere poi così vittima.

Mattia: Io compio quarant’anni l’anno prossimo e sono in una fase della vita in cui mi sento totalmente novecentesco in confronto alla generazione “woke”, che in qualche modo mi sembra un rifacimento delle nostre assemblee d’istituto. Gli argomenti sono sempre quelli e a volte mi chiedo come mai ci sia tutto questo vittimismo quando invece ci sono più diritti acquisiti e in generale la possibilità di vivere più serenamente la propria sessualità. Allo stesso tempo ho paura a parlare con la mia lingua di cose che non vivo direttamente e che magari non capisco del tutto, perché secondo me oggi gli adolescenti vivono una realtà diversa rispetto a quella che abbiamo vissuto noi, con molti più stimoli anche contraddittori tra loro. Mi sembra che il racconto generale di queste esperienze, però, sia fermo, forse perché la militanza non ha dato gli strumenti necessari per farlo evolvere, o è invecchiata, o è diventata di moda, non saprei davvero dirlo con certezza. Mi sembra che la moltiplicazione delle etichette identitarie abbia prodotto un cortocircuito al contrario: alla fine non si vuole essere diversi ma come tutti gli altri, non so se mi spiego. Oggi c’è il gay di professione, che sarebbe un attivista ma che poi più che attivismo politico fa brand di sé stesso.

Jacopo: Io sono gayssimo ma banalmente al momento, in Italia, non trovo nessuno nel dibattito mainstream che rappresenti me e le mie istanze: io voglio essere un gay non monogamo, con una relazione aperta, possibilmente con tanti soldi e senza figli, voglio uscire coi miei amici e fare gli aperitivi e an- dare alle mostre, e vestirmi bene e leggere i libri cool, e voglio vivere questa vita senza sentirmi in colpa. Poi magari morirò da solo come un cane, pazienza.

Mattia: Io sono un gay noiosamente monogamo, invece, ma mi sembra che siamo in linea su un’altra cosa: l’altro punto che tocchi – il senso di colpa – è altrettanto cruciale, mi sembra che gran parte della comunità gay, insieme al vittimismo, sconti ancora la colpa per la propria condizione, qualunque sia lo stile di vita che ha scelto. Però stiamo attenti a fare affermazioni come queste, che oggi è un attimo che si offendono tutti, poligami e monogami, gay che si sono accettati – e chiedo ancora scusa per la parola – e quelli che non riescono a liberarsi…

Jacopo: Certo, infatti la mia è una provocazione, e non credo all’adagio da pomeriggio Mediaset per cui “devi essere te stess*”, se sei un coglione devi cercare di essere te stesso il meno possibile. Però i modi di essere te stess* sono molti più di quelli che vengono raccontati, sono meno noiosi del Love is Love. E così ritorniamo al punto di partenza.

Mattia: Ecco, allora io posso dire che non è che a me poi interessino così tanto gli adolescenti, lo ammetto, sto con i miei coetanei o con le persone più grandi, non credo gli adolescenti abbiano bisogno di me. Spero però che grazie alle esperienze delle nuove generazioni questa vergogna sociale che ancora esiste vada via via scomparendo, questo sì.

Jacopo: Anch’io, anche perché noi è sicuro che non ci vergogniamo.