Intervista alla scrittrice in occasione dell'uscita del suo nuovo romanzo, risultato di tre anni e mezzo di conversazioni con il boss Peppe Misso, con cui Ciabatti ha parlato di carcere, guerre di camorra, plastiche facciali e avvistamenti di Ufo.
Ha sempre scritto racconti, Etgar Keret, scrittore israeliano classe 1967, che è tornato da poco in libreria con la raccolta Correzione automatica, pubblicata da Feltrinelli (traduzione di Alessandra Shomroni). In questi trentatré racconti c’è spazio per i bastoncini per selfie, per Tinder, per i robot, per i viaggi nel tempo, per la morte e per tutto quello che potrebbe arrivare dopo, che si tratti del Paradiso o della reincarnazione nel corpo di uno scoiattolo. Gli confesso di essere un suo lettore da sempre, o quasi, e di aver usato, anzi di usare spesso i suoi racconti nei corsi di scrittura creativa. Ce n’è uno, in particolare, che ritorna ogni volta, che si intitola “Tubi”, in cui c’è un uomo che lavora in una fabbrica di tubi che un giorno decide di costruirne uno abbastanza grande dove poter entrare e scomparire per sempre. Keret mi confessa che “Tubi” è il suo primo racconto, l’ha scritto quando aveva diciannove anni, mentre faceva il servizio militare.
ⓢ E come mai, in quel periodo, hai sentito il bisogno di cominciare a scrivere?
In realtà, alle superiori ho studiato materie scientifiche, fisica e matematica, pensavo che sarei diventato un ingegnere. Come tutti gli israeliani ho dovuto prestare servizio nell’esercito, e mi hanno assegnato questa posizione in cui dovevo usare la tecnologia ed ero confinato in una stanza molto piccola, per ventiquattr’ore al giorno. Ero completamente isolato, non avevo alcuna interazione con il mondo esterno. Mi ci aveva portato il mio migliore amico, che era entrato nella leva prima di me e poi è caduto in depressione. Avendo visto come stava, l’ho portato dallo psicologo dell’esercito, e dopo questo colloquio hanno deciso di togliergli il fucile. A un certo punto, però, dopo un po’, l’esercito ha deciso di restituirglielo, e io mi sono offerto volontario per prestare servizio insieme a lui. Lui è stato confinato in questa stanzetta, si è sparato, l’ho portato subito all’ospedale, dove poi è morto. Il giorno successivo dei membri dell’esercito mi hanno chiesto se io stessi bene, se andava tutto bene, io gli ho risposto di sì e loro mi hanno messo nella stessa stanza in cui lui si è ucciso. Il pavimento era ancora appiccicaticcio, e il proiettile che lui aveva sparato era ancora conficcato in uno degli armadietti. E nella stanza c’erano il fucile che lui aveva utilizzato per uccidersi, due riviste e il computer che serviva per fare cose tecnologiche. Ho pensato a una cosa che mi aveva detto mio padre, che è un sopravvissuto dell’Olocausto, e ha vissuto nascosto per seicento giorni. Quando gli ho chiesto come avesse fatto a sopravvivere in quella condizione, lui mi ha detto che aveva creato dentro di sé un mondo diverso da quello reale. Ma com’era possibile, gli avevo chiesto, avevano ucciso sua sorella, stavano uccidendo tutti quelli intorno a lui, e allora mio padre mi ha detto: «È una cosa naturale, quando ti trovi in uno spazio chiuso, il tuo istinto è quello di espandere questo spazio, quindi se non puoi farlo fisicamente, fallo nella tua mente, immagina, usa la tua immaginazione per rendere questo spazio qualcosa di più grande”. Così mi sono seduto a quel tavolo e ho scritto questa storia».
ⓢ Hai scritto sempre e solo racconti, come mai?
Una storia per me è un’esplosione, e io sinceramente non so come esplodere lentamente.
ⓢ Andrés Neuman ha scritto un dodecalogo per gli aspiranti scrittori di racconti, cose come: i personaggi non si presentano, agiscono; il talento sta nel ritmo; la libertà sta nel cominciare ogni volta da zero. Nel tuo dodecalogo personale, cosa consiglieresti?
Non so se quello che va bene per me possa andare bene per tutti. La cosa più importante per uno scrittore è che sia appassionato, e soprattutto emozionato, elettrizzato da quello che scrive. Non mi interessano la forma, il pubblico a cui sono dirette le mie opere, se la storia la percepisco come importante, è proprio quello che me la fa raccontare. Le migliori storie che ho sentito, che mi hanno raccontato nella vita, non sono state raccontate da professionisti, ma da persone che non erano istruite, persone che quando dovevano raccontare qualcosa che era importante per loro allora riuscivano a rendere la storia accattivante, capace di avvolgerti. Uno scrittore, soprattutto di racconti, dev’essere il primo lettore di sé stesso, quindi se tu non riesci a farti ridere, a farti piangere, a farti appassionare, quel racconto non funzionerà. Quando noi scrittori veniamo invitati ai festival, veniamo trattati come fossimo dei preti laici, perché ne sappiamo sempre più degli altri, ma io penso che quello che trascina la gente verso gli altri sia l’incompetenza perché io uso l’arte come una vera e propria stampella che mi permette di vivere, io ho bisogno di raccontare storie per sopravvivere, non so se lo sto facendo nel modo migliore, ma sicuramente ho trovato un modo per trovare una soluzione ai miei problemi personali.

ⓢ Una piccola curiosità sul titolo, che in Italia è diventato Correzione automatica, mentre all’estero è quello del primo racconto di questa raccolta, A World Without Selfie Sticks.
In realtà Correzione automatica era il titolo provvisorio del libro, anche se pensavo di usare Un mondo senza bastoncini per selfie, anche perché c’è questa sorta di tradizione in Israele per cui dobbiamo utilizzare solo espressioni che derivano dall’ebraico, mentre “correzione automatica”, “autocorrezione” è un’espressione latina. Il titolo avrebbe dovuto essere Un mondo senza bastoncini per selfie, ma dava un’idea abbastanza superficiale del contenuto, e quindi ho fortemente insistito perché il titolo fosse Correzione automatica, anche se l’editore israeliano non ne voleva sapere. Poi per me Correzione automatica è il titolo ideale per inquadrare il momento in cui viviamo, il libro tenta proprio di raccontare questo zeitgeist in cui ci troviamo costretti a vivere.
ⓢ Il libro è pieno di viaggi nel tempo, di racconti sull’effetto farfalla, sul cosa sarebbe successo se, che poi non è altro che la grande domanda che si pongono tutti quelli che scrivono. Un giorno hanno chiesto a Paul Auster se preferisse viaggiare nel passato o nel futuro, e lui ha risposto nel passato, perché nel futuro avrebbe visto solo la sua morte. Tu cosa risponderesti?
Devo dire che non ho una grande passione per i viaggi nel tempo, mi va benissimo il presente. Se dovessi scegliere, però, io andrei nel futuro, non perché il futuro abbia qualcosa di piacevole da offrirmi, ma perché adesso ci sono tante storie aperte, vorrei vedere come si chiudono. E comunque, alla fine, dipende molto da come sei tu, se sei ossessionato dal controllo, vuoi tornare indietro nel tempo perché sai già quello che è successo e magari vuoi rimetterlo un po’ in ordine, se sei uno che ama consumare droghe, funghetti allucinogeni, forse vuoi andare nel futuro perché non sai cosa ti aspetterà.
ⓢ In un’intervista hai detto che palestinesi e israeliani sono come due malati gravi sopra un’ambulanza che però non sta andando verso l’ospedale. Per questa storia, che futuro immagini?
In realtà, nel breve periodo penso che Israele debba liberarsi di Netanyahu e del suo governo. Mi viene un po’ difficile pensare nel lungo termine. Io vedo che quello che sta succedendo in Medio Oriente si riverbera un po’ in tutto il mondo. Nel passato si pensava che i problemi tra israeliani e palestinesi fossero unici, specifici, definiti all’interno di quella regione, invece adesso il Medio Oriente è diventato un po’ come il canarino delle miniere, il primo che si accorge della tragedia che sta arrivando. Tutta la schifezza che vediamo nel Medio Oriente la vedremo poi espansa in tutto il mondo. Se questa intervista fosse avvenuta negli anni Novanta, tu mi avresti chiesto come viviamo il terrorismo, ma adesso non è solo un problema israeliano, il terrorismo c’è anche nell’Unione Europea. Una volta gli americani trovavano il loro nemico fuori dai confini, oggi, invece, lo trovano all’interno. Quello che succede in Medio Oriente sta contagiando tutto il mondo, più di quanto il mondo non stia contagiando il Medio Oriente.
ⓢ Un’ultima domanda, che faccio sempre. Com’è la tua giornata tipo, da scrittore e non?
Non scrivo tutti i giorni, a volte non scrivo per mesi. Penso alla scrittura come a una specie di dono, di regalo. Mi piace molto ricevere regali, ma non faccio in modo che il mondo me ne dia, non li pretendo. Faccio il possibile per non sentirmi in colpa quando non scrivo, cerco di fare qualcosa che abbia un valore, magari aiutare gli altri, o anche semplicemente divertirmi. Se riuscissi ad aiutare sempre gli altri, se riuscissi sempre a divertirmi, forse, non avrei bisogno di scrivere.

A 66 anni, uno dei più apprezzati sceneggiatori italiani gira il suo primo film, di cui è anche protagonista. Lo abbiamo intervistato e ci ha raccontato perché l'ha fatto: per parlare di cose inutili e perché glielo ha consigliato Paolo Sorrentino.