Le vacanze offline: la vendetta dei genitori boomer sulla Gen Z

Per i figli, la noia estiva è un concetto quasi sconosciuto. Fino a quando i genitori non decidono di costringerli a una vita senza internet.

09 Agosto 2023

Passiamo tutto l’anno a rimbrottare figli passivi e telefono-dipendenti su come sarebbe stata facile la nostra vita se avessimo potuto loggarci a una piattaforma anziché aspettare il cineforum del paesello; creare compilation di Spotify dal divano, anziché passare ore in piedi al negozio di dischi; cercare le versioni di latino online e contattare i nostri idoli in dm. Ma l’estate è un po’ il momento della nostra vendetta: il momento in cui finalmente, invece di dar aria all’ugola mentre loro scrollano reel, le condizioni esterne (traghetti in alto mare, capitali senza roaming, spiagge e case con Wi-Fi schifosa), ci permettono di dire con minima retorica e massimo effetto: benvenuti nella giungla, benvenuti nella vita vera.

Finalmente loro, quelli che il resto dell’anno ti trattano da boomer perché gli chiedi come funziona BeReal, si affacciano sull’abisso. L’abisso della briscola, del calcio-balilla e delle cartoline? Soprattutto, l’abisso del non poter cercare una parola che non hai sulla punta della lingua, del dover ricordare qualcosa usando una rudimentale tecnica mnemonica, del non conoscere il risultato di una partita finché non arrivi a casa, del guardare le piastrelle invece d TikTok mentre stai al gabinetto. L’estate è in particolare il momento in cui i nostri figli, e cioè il futuro, incontrano la tivù generalista, e cioè i noi del passato: una strana piega nel tempo, dove i dodicenni ci chiedono conto del rumore del modem in C’è posta per te, rimangono scioccati dalla quantità di pubblicità che si può affrontare pur di vedere il finale di Balla coi lupi, ci guardano come sopravvissuti quando alle 20:30 li facciamo sfogliare la guida TV, e – pur di non leggere L’amico ritrovato nella controra – si sottopongono diligentemente ogni giorno alla combo Studio Sport + Simpson.

È tenero, penoso e anche abbastanza liberatorio vederli costretti (a volte anche da un arbitrario esercizio d’autorità) a deporre Netflix e gli airpod che “rischiano d’insabbiarsi” per ascoltare il juke-box che manda il Festivalbar del ‘97, o peggio, le onde, i grilli e le conversazioni tra noi adulti su quanto ci costa portarli in vacanza. Ogni venti minuti, alzano gli occhi dal libro di carta, che per loro è l’equivalente di un manoscritto cistercense, e ci chiedono, come se stessero contando i fagioli in una damigiana mentre qualcuno punge loro i piedi con un ago: adesso può bastare? No, diciamo noi, perfidi, hai appena cominciato. Ma loro fanno fatica ad ammassare tutte quelle frasi senza udire nemmeno il bip adrenalinico di una notifica, e non riescono a non spezzare il loro tempo interiore in tanti intervalli da una manciata di secondi.

All’improvviso, le nostre profferte di cruciverba, film con Bruce Willis su Iris o di un Bellissimo di Rete 4 sembrano ancore di salvezza, rispetto al continuum devastante del tempo della loro coscienza. Allora, per un attimo (l’attimo prima di cedere all’acquisto della Sim estera) la nostra vita adulta appare uguale a come l’avevamo potuta immaginare negli anni Novanta: qualche monetina gettata nell’arcade di Street Fighter, la Rettore che canta a squarciagola su Techetechetè e una fetta d’anguria fredda bastano per diventare eroi agli occhi dei nostri figli; solo che non li stiamo salvando dalla noia estiva, bensì dall’orrore dell’offline. Dura poco, perché noi stessi, in astinenza da Instagram – dove poter invidiare le vacanze meglio filtrate degli altri – corriamo a comprarci la saponetta che serve a connettersi anche dai luoghi più remoti, e che rovinerà anche a noi il Ferragosto con l’e-mail di lavoro di qualche fanatico e i messaggi del condominio sui danni dell’ultimo monsone milanese.

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