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La fine del mondo è cominciata a El Bosque, Messico

La storia del villaggio messicano, prima comunità nella storia costretta ad abbandonare la propria casa a causa dell'innalzamento del livello del mare, è la prova che la crisi climatica non è il peggiore futuro possibile: è il presente che viviamo già.

di Caterina Orsenigo

«Forse saremo i primi, ma non saremo gli ultimi» osserva Guadalupe Cobos Pacheco, membro della comunità El Bosque, mentre il suo villaggio scompare mangiato dall’oceano. Siamo nello Stato del Tabasco, una sottile penisola a sud del Golfo del Messico delimitata a ovest dal fiume Grijalva. Questa è la storia di un prima e di un dopo. In mezzo c’è il cambiamento climatico. Prima c’era un villaggio sul mare. Il mare, parte integrante della comunità stessa: ci si viveva in relazione e in armonia, scandiva il ritmo della vita e del lavoro, era il sottofondo costante dei giorni e delle notti. La pesca era l’attività principale, forniva insieme cibo e merce di scambio.

Prima, il cambiamento climatico si vedeva in televisione. Era lontano e apparteneva agli altri: per questo non c’è stato tempo per prepararsi, né in termini pratici, né tanto meno emotivamente. In fondo è quello che pensiamo tutti: non arriverà fin qui. E invece poi è arrivato. Le piogge troppo forti, i venti troppo potenti. Il livello del mare si è alzato e in pochi mesi l’oceano ha invaso la costa spazzando via ogni abitazione che trovava sul suo cammino. È cominciato tutto nel 2019, con una tempesta che ha distrutto la prima fila di case. Poi, un po’ alla volta, il mare si è portato via tutto. Ha riempito i pozzi di acqua salata, e alla fine non c’è stata più acqua potabile (quella corrente invece non c’era mai stata). Ha compromesso il collegamento alla rete elettrica. Ha abbattuto la scuola, e così non si è potuto più studiare. Più di 60 case sono andate distrutte, 30 metri di costa sono spariti. Da allora i giorni si susseguono senza acqua, scuola, case, a volte senza energia. «Il cambiamento climatico è un cambiamento radicale che colpisce la nostra economia, la nostra tranquillità e la nostra salute, compresa quella mentale» raccontava Guadalupe ad Amnesty International qualche mese fa.

A El Bosque non c’è più tempo per mitigare gli effetti della crisi ambientale. È già troppo tardi. Non si può nemmeno parlare proprio di adattamento: bisogna andarsene. Ma anche andarsene non è così semplice: non tutti hanno le risorse per fare i bagagli e trasferirsi altrove. Così dal 2022 la comunità (composta da circa 400 persone) collabora con alcune reti sociali come Nuestro Futuro, Conexiones Climáticas e Greenpeace México per chiedere al governo messicano di essere ricollocati altrove. C’è stata una conferenza stampa un anno fa, nel novembre del 2022, per chiedere all’amministrazione comunale, al governo statale e federale sostegno e collaborazione: le donne del villaggio, fra cui Guadalupe, parlavano con i piedi quasi nell’acqua. Gli abitanti di El Bosque sono andati fino a Città del Messico per incontrare i funzionari del ministero del Territorio e dello Sviluppo Urbano e a loro volta i funzionari sono andati a El Bosque, hanno censito le famiglie colpite, hanno fatto promesse e organizzato degli incontri – l’ultimo a luglio 2023. Poi il silenzio. Altre priorità, altre questioni da sbrigare. Ma il mare non aspetta e infatti il primo di novembre 2023 gli abitanti di El Bosque hanno dovuto essere evacuati (ma non ancora non ricollocati). Ancora oggi la maggior parte delle persone si trovano in rifugi temporanei.

Una volta, durante la stagione fredda, quando i venti soffiavano da nord e il mare si alzava, bastava chiudersi in casa a bere cioccolata calda o caffè e aspettare che finisse. Durava pochi giorni, poi la vita riprendeva. Ora i venti portano un freddo persistente e un mare sempre più alto. Si guarda fuori dalla finestra e si spera che il mare non arrivi proprio oggi a sommergere la propria casa.

Il Tabasco è lo Stato del Messico con più piattaforme petrolifere. Risale al 2021 la scoperta, da parte dell’azienda petrolifera pubblica messicana Pemex, di un grande giacimento proprio da quelle parti. «El Bosque è il riflesso delle conseguenze dell’industria fossile in tempo di crisi climatica», mi spiega Miriam Morsán, attivista di Conexiones Climáticas, che recentemente ha partecipato al primo World Congress for Climate Justice a Milano. E Pemex è «responsabile di questo disastro qui e in altre parti del Golfo del Messico», dove anche la terra si fa più friabile a furia di perforazioni per scavare pozzi petroliferi.

Quel che è certo è che a rimetterci sono comunità che col petrolio non hanno niente a che fare e che in quanto a emissioni pro capite sono probabilmente fra le più sostenibili al mondo: un esempio lampante di quel che si intende per ingiustizia climatica. Conavi, la commissione nazionale messicana per l’edilizia abitativa, aveva dichiarato al Guardian che il governo stava cercando di offrire un’alternativa abitativa adeguata alle famiglie colpite dal cambiamento climatico. Poi è arrivata l’inondazione del primo novembre. «La realtà è che a un anno da quella conferenza stampa il governo non è stato in grado di reagire e la comunità si troverà a dover superare la stagione dei venti freddi senza possibilità di essere trasferita, con la solita dinamica dei rifugi temporanei e ad oggi l’acqua potabile viene portata, se va bene, ogni due settimane», spiega però Miriam Morsán. È un esempio in piccolo di quello che succede dappertutto, a vari livelli e con diverse risorse economiche per far fronte ai danni. Si fanno progetti per il futuro, ancora convinti che la crisi climatica abbia da venire, nonostante a Milano si vedano ancora gli alberi sradicati a luglio, Prato e l’Emilia Romagna siano recentissime e vicinissime. Proprio ora è in corso la ventottesima Conferenza delle Parti (Cop) ad Dubai (presieduta dal capo della compagnia petrolifera Adnoc), la prima risale al 1995: sembra di rivedere in larga scala la storia di El Bosque, la conferenza stampa, gli incontri, le promesse e intanto la crisi climatica si faceva sempre più concreta.

La comunità di El Bosque oggi non può fare altro che bussare sempre più forte alle porte delle istituzioni messicane, perché si prendano cura di loro e trovino un’altra collocazione. Per il loro villaggio non c’è più niente da fare, ma il loro avvertimento raggiunge tutto il mondo: sono forse i primi sfollati in Messico a causa dei cambiamenti climatici, ma non saranno certo gli ultimi, né in Messico né nel resto del pianeta. Proprio nelle scorse settimane ad Acapulco, dall’altra parte del Messico, l’uragano Otis uccideva più di 40 persone e danneggiava 220 mila case. Quello che emerge dal racconto di Guadalupe e dalle parole di Miriam è la sensazione di non essere “pronti”: come se la crisi climatica fosse sempre astratta o riguardasse altri, pur vedendola in televisione o fuori dalla propria finestra. La situazione di El Bosque è già (o potrà essere in futuro) quella di infinite altre comunità in giro per il mondo. Raccontarlo, sapere che appartiene al presente e non al futuro, aiuta a prepararsi.

In un libro intitolato, non a caso, La caduta del cielo, lo sciamano yanomami della foresta amazzonica brasiliana Davi Kopenawa spiega un concetto molto importante. Loro, gli indigeni dell’America Latina, hanno già vissuto una fine del mondo (o una caduta del cielo): è stato quando sono arrivati gli spagnoli e i portoghesi. Il colonialismo è stato la fine del mondo così come lo conoscevano: per questo nella loro cosmogonia questa possibilità già esiste. Kopenawa ci dice che la loro esperienza può aiutare chi oggi si trova ad affrontare questa nuova “fine del mondo conosciuto” a causa della crisi climatica. Abbiamo bisogno di integrare ciò che abbiamo davanti agli occhi nel nostro immaginario per poterlo davvero vedere e dunque per poterci convivere e poter reagire. Ed è quello che fa la comunità di El Bosque: racconta la sua storia per preparare l’immaginario di tutte le altre comunità che vanno incontro alla caduta del cielo o alla voracità del mare.