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Com’è andato il primo World Congress for Climate Justice

In questo ottobre caldissimo, più di 200 delegati di organizzazioni ecologiste di tutto il mondo si sono incontrati a Milano, tra l’Università Statale e il Leoncavallo.

di Antonella Di Biase

Il 2019 è stato un anno glorioso per Milano. Non in termini di traguardi infrastrutturali, di fondi europei accaparrati, di ciclabili tracciate sull’asfalto, ma in termini di attivismo ambientalista. Alla manifestazione dei Fridays For Future del 15 marzo, il primo Global Strike for Climate, e a quella del 27 settembre, Climate Action Week, la partecipazione ha raggiunto dimensioni da primato mondiale, con numeri che vanno dalle 100.000 alle 250.000 presenze. Vedere quel fiume infinito di liceali e giovani universitari scendere in piazza era stata una grande sorpresa, almeno per me. Del resto, l’attivismo milanese si muove spesso all’ombra di palazzi ed eventi più vistosi, e se si è fuori da certi circuiti sembra che alcune idee qui non penetrino affatto. Una sorpresa simile l’ho provata questo weekend a distanza di quattro anni, quando Milano è stata di nuovo capitale internazionale del dibattito ecologista, ospitando il primo World Congress for Climate Justice (WCCJ).

Alla conferenza stampa inaugurale di giovedì mattina, malgrado la cornice istituzionale della Casa della Cultura in San Babila, è stata messa subito in chiaro la matrice completamente rivoluzionaria e anti-sistema dell’iniziativa. «L’obiettivo del WCCJ è far convergere le diverse lotte globali, unire nuovi movimenti e tradizione, occidente e sud del mondo, alla ricerca di una strategia comune per combattere il capitalismo fossile», hanno dichiarato i portavoce. «In particolare, noi occidentali ci metteremo in ascolto dei delegati indigeni che combattono per i loro territori, che dimostrano che non è l’essere umano in sé a essere nocivo per l’ambiente, ma il nostro sistema economico e di valori», ha aggiunto Caterina Orsenigo, giornalista e parte del comitato organizzativo. In questo ottobre da calzoncini corti e infradito, infatti, più di 200 delegati di organizzazioni ecologiste di tutto il mondo, dall’Uganda agli Usa all’Ecuador per citare i più lontani,  si sono incontrati per trascorrere tre giorni tra l’Università Statale e il Leoncavallo.

Il movimento apparentemente omogeneo dei Fridays For Future si è andato sgonfiando un po’ dappertutto (per via della pandemia e di altri fattori che nessuno si è preso la briga di analizzare seriamente) e al suo posto sono emerse realtà più piccole e sfaccettate, spesso incentrate su lotte territoriali. E se è vero che una certa attenzione all’ambientalismo c’è sempre stata, come non manca di ricordare la vecchia guardia milanese andata «a contestare la COP15 di Copenhagen in bus nel 2009», è innegabile che i giovanissimi abbiano dato tanta nuova linfa al dibattito.

L’incontro-scontro generazionale, oltre che il meltin’ pot geografico ed etnografico, è uno dei temi più evidenti di questo congresso autofinanziato e organizzato dai numerosi membri dei movimenti milanesi di Ecologia Politica, Off Topic, Institute of Radical Imagination, Ultima Generazione, XR, FFF, Comitato Acqua, APE, Our Voice, e tanti altri. Forse per la concessione degli spazi in Statale, o per via del sito molto ben fatto e completamente in inglese, mi aspettavo erroneamente un contesto più accademico e istituzionale. «Abbiamo organizzato e pagato tutto noi con una raccolta fondi e con i soldi dei movimenti. Offriamo vitto e alloggio a tutti. Alcuni li ospitiamo a casa, altri si sono organizzati con amici», mi spiega invece Mary, una giovane attivista all’ingresso della Statale. «È importante usare questo tempo per discutere e trovare dei punti in comune, il momento è adesso».

Girando tra le corti e le aule, si assisteva a panel, assemblee, workshop, iniziative di networking e scrittura di manifesti. Persone con t-shirt colorate e piene di slogan, di tanti fenotipi ed età diverse, si erano ritrovate a scambiare strategie e informazioni sedute sui prati e sui muretti dei chiostri, nelle aulette a prendere appunti, a condividere panini e lasagne vegane durante la pausa. Giovedì pomeriggio è stato il momento dell’arte, con alcune performance e la stesura corale di un Manifesto per l’Arte Ecologista Radicale. «Bisogna fissare dei punti, definire cos’è arte ecologista, soprattutto in questo periodo in cui c’è un po’ di hype. Altrimenti il rischio è che si venga confusi con chi fa greenwashing», mi ha detto l’amico Andreco. «Il manifesto potrebbe essere anche un modo per coordinarci e fare rete a livello internazionale con chi si occupa di arte e giustizia climatica».

Tra le performance, è degna di nota quella di Mike Bonanno del duo satirico anti-sistema The Yes Men, che ha raccontato il prank di questa estate della Barbie Liberation Organization: una campagna pubblicitaria “by Mattel” in cui si annunciava il ban della plastica da parte dell’azienda e il lancio di EcoWarrior Barbie, realizzata completamente in materiali compostabili. Un hoax a cui alcune testate Usa hanno davvero creduto, e che ha tentato di cavalcare l’onda del film campione d’incassi per portare avanti istanze ecologiste in maniera a mio avviso geniale.

Venerdì invece è stata la giornata dei panel in Statale, un programma fittissimo che partiva alle 9:30 e si concludeva con la contestazione delle Olimpiadi di Milano Cortina 2026, maxi-evento sportivo emblematico dell’insostenibilità ambientale capitalista e della tendenza allo sfruttamento di risorse naturali e inestimabili come le Alpi. Come succede un po’ ai festival musicali, l’imbarazzo della scelta degli eventi in parallelo manda in crisi gli indecisi. Così eccomi a girare di aula in aula alla ricerca del panel più figo. Impossibile citare tutti i temi e le organizzazioni. Si è parlato di pratiche di dissidenza, per esempio con Stay Grounded, una rete internazionale che lotta contro i jet privati e i voli inutili, cioè sostituibili dai trasporti via terra, con flash mob e incursioni notturne. I ragazzi di Ultima Generazione e XR hanno approfondito il tema dell’oppressione nei diversi contesti europei (ricordiamo che alcuni di loro, in Italia, sono stati indagati per associazione a delinquere). Rise Up Uganda ha illustrato invece la situazione critica dell’Est Africa, dove la costruzione dell’oleodotto EACOP promossa da Total rischia di mettere in pericolo la sopravvivenza di persone e animali.

Sabato e domenica sono state le giornate dedicate alle assemblee, quelle tematiche in università e quella plenaria finale al Leoncavallo. Era il momento culminante del congresso, in cui bisognava saldare le alleanze, trovare i famosi punti in comune e metterli su carta in un documento conclusivo e programmatico. Durante le assemblee a cui ho partecipato si sono scaldati gli animi, si è utilizzata (forse troppo) spesso una semantica legata al marxismo, in un quadro teorico che mi è sembrato a volte lontano da quello dei delegati gen Z più attivi su altri fronti. Ma dopotutto, quanto ha senso fermarsi alle parole quando in ballo c’è il destino del pianeta?

«Dopo la rivoluzione ci toccherà improvvisare, perché essere vivi è anche questo. Ma una cosa è certa: se non abbiamo un piano non accadrà niente», ha tuonato João Camargo di Climaximo, durante un’assemblea di sabato mattina. Full disclosure: domenica non ero al Leoncavallo e il documento programmatico ufficiale è in lavorazione quindi non so ancora come si è concluso questo congresso milanese. Nell’attesa di una seconda edizione, magari in una città lontanissima, dove attivisti in altre lingue si metteranno a organizzare voli intercontinentali e divani in cui far dormire i delegati, mi sono ripromessa di continuare a seguire tutti i 200+ movimenti. Di googlarli, per lo meno. Per quanto riguarda invece il plauso ai movimenti milanesi, mi piace pensare di non essere l’unica a essere rimasta piacevolmente sorpresa. Anzi, forse sento odore di Ambrogino d’Oro.

Fotografie di Margherita Dametti