Hype ↓
10:34 sabato 20 dicembre 2025
Di Digger di Alejandro G. Iñárritu non sappiamo ancora niente, tranne che un Tom Cruise così strano e inquietante non si è mai visto La trama della nuova commedia di Iñárritu resta avvolta dal mistero, soprattutto per quanto riguarda il ruolo da protagonista di Tom Cruise.
C’è un’estensione per browser che fa tornare internet com’era nel 2022 per evitare di dover avere a che fare con le AI Si chiama Slop Evader e una volta installata "scarta" dai risultati mostrati dal browser tutti i contenuti generati con l'intelligenza artificiale.
Kristin Cabot, la donna del cold kiss-gate, ha detto che per colpa di quel video non trova più lavoro e ha paura di uscire di casa Quel video al concerto dei Coldplay in cui la si vedeva insieme all'amante è stata l'inizio di un periodo di «puro orrore», ha detto al New York Times.
I Labubu diventeranno un film e a dirigerlo sarà Paul King, il regista di Paddington e Wonka Se speravate che l'egemonia dei Labubu finisse con il 2025, ci dispiace per voi.
Un reportage di Vanity Fair si è rivelato il colpo più duro inferto finora all’amministrazione Trump Non capita spesso di sentire la Chief of Staff della Casa Bianca definire il Presidente degli Stati Uniti una «alcoholic’s personality», in effetti.
Il ministero del Turismo l’ha fatto di nuovo e si è inventato la «Venere di Botticelli in carne e ossa» come protagonista della sua nuova campagna Dopo VeryBello!, dopo Open to Meraviglia, dopo Itsart, l'ultima trovata ministeriale è Francesca Faccini, 23 anni, in tour per l'Italia turistica.
LinkedIn ha lanciato una sua versione del Wrapped dedicata al lavoro ma non è stata accolta benissimo dagli utenti «Un rituale d'umiliazione», questo uno dei commenti di coloro che hanno ricevuto il LinkedIn Year in Review. E non è neanche uno dei peggiori.
C’è una specie di cozza che sta invadendo e inquinando i laghi di mezzo mondo Si chiama cozza quagga e ha già fatto parecchi danni nei Grandi Laghi americani, nel lago di Ginevra e adesso è arrivata anche in Irlanda del Nord.

Com’è diverso il Dune di Villeneuve

Da Jodorowsky a Lynch, ogni adattamento del romanzo di Herbert è destinato a dividere il pubblico. L’ultimo di Villeneuve, come gli altri, offre una versione molto personale della storia.

21 Settembre 2021

«All’inizio, è indispensabile porre ogni attenta cura nello stabilire i più esatti equilibri». Frank Herbert lo sapeva e ci teneva a farlo sapere, tanto da aprire il suo romanzo con questa frase che è sia una spiegazione che un avviso: ogni attenta cura e i più esatti equilibri, altrimenti la storia si interrompe e il mondo crolla. Denis Villeneuve lesse Dune quando aveva tredici o quattordici anni. Fu attratto dalla copertina che ritraeva un volto arabo irradiato dalla luce di occhi completamente azzurri: niente bianco della sclera, niente nero della pupilla. Senza sapere nulla di quel libro e di quello scrittore, Villeneuve ancora adolescente mostrava già l’attrazione per il deserto: gli occhi dei Fremen sono gli occhi dei berberi e dei Tuareg, che all’epoca in cui Herbert scriveva il suo primo romanzo – intorno alla metà degli anni ’60 – si pensava avessero tutti gli occhi azzurri. Quel libro «acuì il mio desiderio di stare a contatto con l’infinità del deserto», ha spiegato Villeneuve. E non per niente il suo primo film (Un 32 août sur terre) era ambientato nel deserto, come pure il lungometraggio che lo fece diventare famoso (La donna che canta). Quel giorno, in quella libreria di Montreal, nel ragazzino Denis nasce un’ossessione: per Dune, certo, per il deserto, soprattutto. «L’impatto del vuoto nel panorama, l’impatto del silenzio, fa diventare tutto un viaggio interiore, nel subconscio. Questo significa che mentre ci addentriamo nel deserto ci addentriamo in lui, in Paul. Questa cosa è nel libro e, attraverso di esso, ho capito l’impatto del paesaggio sull’anima».

Da un certo punto di vista, Villeneuve dimostra così di essere il regista giusto per Dune: Herbert dedicò il suo romanzo «alle persone le cui fatiche vanno al di là del campo delle idee e penetrano in quello della realtà: agli ecologi del deserto, dovunque essi siano, in qualunque tempo essi operino, dedico questo mio tentativo di anticipazione in umiltà e ammirazione». C’è cura e c’è equilibrio anche in Villeneuve: quando parla dei padri che lo hanno influenzato e ispirato, accanto a Spielberg, Kubrick, Truffaut, Godard e Ridley Scott mette Pierre Perrault e Michel Brault, leggendari documentaristi quebechiani, padri del movimento Direct Cinema e teorici della camera a mano. E Roger Deakins, ovviamente, il maestro della luce che chissà cosa avrebbe fatto di un pianeta che è solo luce.

Le cose che ci succedono da ragazzini sono le cose che facciamo succedere da adulti. Villeneuve ha fatto di Dune la storia che un adolescente timido e ansioso di Montreal trovò in un romanzo, che però era quello e molto altro ancora: ogni attenta cura e i più esatti equilibri, appunto. Dopo l’esordio al Festival del Cinema di Venezia, una parte della critica ha scritto che il problema del film è che finisce dove inizia. Ed è vero: Dune finisce dove vorrebbe cominciare, ovvero nella traversata del deserto di Paul. È così ma non può che essere così: soprattutto perché questa è solo la prima metà di una saga che speriamo si completi (dipende dai soldi incassati, cioè da chi i soldi li ha già spesi, cioè da Legendary) ma anche perché non ci può essere equilibrio se la storia di Dune diventa la storia di Paul Atreides soltanto.

Da Dune

Come Paul, Villeneuve tende al deserto e, come Paul, sa che questa tensione rompe l’equilibrio: del mondo, per Paul, del film, per Villeneuve. Ma se ogni attenta cura va messa nello stabilire i più esatti equilibri, si capisce perché, nonostante questa tensione, due terzi del film siano dedicati a ciò che meno attrae Villeneuve: un world building minuzioso e fedele entro i limiti del mezzo cinematografico, un’operazione evidentemente spiacevole per un regista che eccelle nella fascinazione, cioè nel non detto (qual è la differenza tra Arrival e Blade Runner 2049? Le spiegazioni, cioè la pedanteria). Però, ancora una volta, non può che essere così: non si può raccontare Gesù Cristo senza spiegare la Galilea e la Giudea, non si può capire Alessandro Magno senza conoscere il mondo ellenistico e quello barbaro, non ci si può appassionare a T.E. Lawrence senza aver contezza della rivolta araba dentro la Prima guerra mondiale, non si può amare davvero Dune senza ammettere il saccheggio che Herbert operò ai danni di un capolavoro dimenticato come The Sabres of Paradise di Lesley Blanch.

Ma, in parte per i limiti del mezzo, in parte per le predilezioni di Villeneuve, un pezzo di questo universo va perso e al suo posto rimane un vuoto che è forse il peggior difetto del film: un vuoto dentro il quale stanno degli eventi in scala ridotta, la fine di un mondo e l’inizio di un altro riassunti in una faida tra famiglie e al tradimento di un fedelissimo. Quando Paul propone a Liet-Kynes di sostenerlo nel suo proposito di ascendere al trono imperiale, l’enormità dell’intento di Paul non passa nonostante la reazione sconvolta dipinta sui volti di sua madre e dell’Arbitro del Cambio: in quella battuta, in quella scena, Villeneuve prova a cucire assieme le due parti del suo film e non ci riesce perché una si vede chiaramente, l’altra si intuisce appena. Il fatto è che in questo film esistono gli Harkonnen, gli Atreides e i Fremen, ma l’imperatore Padiscià Shaddam IV, il Landsraad, la CHOAM, la Gilda Spaziale ancora no. Persino il melange, la spezia che fa di questa storia una faccenda politica e un’altra versione del mondo vero, non è così importante: allunga la vita, espande la mente, rafforza il corpo, è il carburante dei viaggi nello spazio, è il potere vero che fa e disfa una casata. In questo film però è una parte del deserto, un pezzo del viaggio di Paul. Che sono le cose che contano, che stanno a cuore al Villeneuve.

Da Dune

È una sensazione impossibile da confermare, ma c’è una differenza percepibile nell’approccio di Villeneuve a queste due parti in cui si divide (ha diviso) il film: una parte è la storia di quel che succede a, in e attorno a Paul, l’altra è la storia di ciò che si muove dentro, vicino e lontano da Arrakis. Messa in scena, movimento della cinepresa, composizione dell’immagine, direzione degli attori, il montaggio: nella parte-Paul tutto sembra volontà, nella parte-Arrakis tutto sembra necessità. Le scene in cui Paul intraprende il suo viaggio interiore (cioè quasi tutte quelle in cui è presente) dimostrano l’affetto di Villeneuve per la parte di Dune che lui considera essere Dune tutto. Lo si vede soprattutto nella direzione di Timothée Chalamet, condotto a un’interpretazione molto al di sopra di quella che la sola giustezza del volto e del corpo gli avrebbero consentito. Lo si capisce nell’insistenza con cui Zendaya/Chani occupa la mente di Paul e lo spazio nello schermo: è qui, è da lei che stiamo andando. Nella parte-Arrakis, nelle scene-necessità, invece, si nota un trasporto diverso, minore: le battaglie campali sono meno sconvolgenti di quanto dovrebbero essere, il transatlantico della Gilda è meno imponente, i Sardaukar fanno meno paura, gli attori sono lasciati al loro stesso punto di vista (ed è per questo che Oscar Isaac è un duca Leto giusto, a metà tra il padre di Paul e l’aquila degli Atreides, mentre Rebecca Ferguson è una lady Jessica dolente fino al piagnisteo, salvata dalla trasformazione da suora spaziale a sacerdotessa guerriera operata, ancora una volta, dal deserto). Forse è una disarmonia tra le parti inevitabile in un film parzialmente realizzato “da casa” per via della pandemia: Villeneuve ha detto più volte quanto sia stato difficile lavorare al montaggio stando lui a Montreal e Joe Walker a Los Angeles, quanto sia stato frustrante aggiustare una colonna sonora senza aver Hans Zimmer accanto, quanto sia stato lungo il lavoro di messa a punto degli effetti visivi svolto via mail e videochiamate con Paul Lambert.

Ma pur sapendo tutto quanto, resta la sensazione che certe parti del film siano svolte con il desiderio di arrivare a certe altre, a quelle in cui arriva la soddisfazione del bisogno di stare in contatto con l’infinità del deserto: l’incontro tra Paul e il verme è il centro emotivo del film tutto, e lo è perché il verme è, come Chani, la personificazione del deserto, la destinazione del viaggio. Per la stessa ragione, le scene d’azione meglio pensate e realizzate del film sono quelle in cui il verme mangia uomini e macchine: è una parte del film, quella alla quale Villeneuve vuole arrivare il prima possibile, che mangia l’altra. Può essere un errore o una necessità o un’inevitabilità, trarre da Dune quella parte che per ognuno è il tutto, ridurre dal complesso al semplice, rimpicciolire dall’universale al personale. Per Jodorowsky era la mistica, per Lynch il sogno, per Villeneuve l’introspezione: è questa la grandezza di una storia che ha un pezzo di sé da concedere a tutti e con il quale ognuno può trovare soddisfazione. È questa la ragione per la quale ogni adattamento di Dune è destinato a dividere: non ne esiste e non ne esisterà mai uno definitivo, esisterà sempre e soltanto quello al quale ci si sente affini. Da questo punto di vista, Villeneuve ha fatto un lavoro eccelso: la storia di Paul Atreides, il coming of age di un ragazzino, non è mai stato raccontato così. Per tutto il resto, è giusto aspettare: d’altronde questo deve essere «solo l’inizio», come dice Chani con la battuta che chiude il film e apre la storia.

Articoli Suggeriti
Di Digger di Alejandro G. Iñárritu non sappiamo ancora niente, tranne che un Tom Cruise così strano e inquietante non si è mai visto

Da quello che si vede nel trailer (pochissimo), di sicuro non è il Tom Cruise di Top Gun o di Mission: Impossible.

I migliori album del 2025

Una liberissima selezione degli album usciti quest'anno che ci sono piaciuti di più.

Leggi anche ↓
Di Digger di Alejandro G. Iñárritu non sappiamo ancora niente, tranne che un Tom Cruise così strano e inquietante non si è mai visto

Da quello che si vede nel trailer (pochissimo), di sicuro non è il Tom Cruise di Top Gun o di Mission: Impossible.

di Studio
I migliori album del 2025

Una liberissima selezione degli album usciti quest'anno che ci sono piaciuti di più.

Ludovica Rampoldi è da anni una delle più brave sceneggiatrici italiane ma ora è anche una regista

C'è la sua firma su 1992, Gomorra, The Bad Guy, Esterno notte, Il traditore e Il maestro. E adesso anche su una delle sorprese di questo anno cinematografico: Breve storia d'amore, la sua opera prima da regista.

Father Mother Sister Brother è il film perfetto da vedere a Natale, soprattutto per chi trema all’idea di passarlo in famiglia

Il film con cui Jim Jarmusch ha vinto il Leone d'oro a Venezia è un'opera apparentemente "piccola" che però affronta il mistero più grande di tutti: cosa passa per la testa dei nostri genitori? E per quella dei nostri figli?

I migliori film e serie tv del 2025

Una selezione delle cose che ci sono piaciute di più quest'anno, in televisione e al cinema.

Tra i 12 film in corsa per l’Oscar al Miglior film internazionale ben tre parlano di Palestina

È invece rimasto fuori dalla lista Familia: il film di Francesco Costabile, purtroppo, non ha passato neanche la prima selezione dell’Academy.