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Il documentario sui Velvet Underground non è un film sulla musica

La grande opera di Todd Haynes, già acclamata a Cannes, usa la band di Lou Reed come trampolino di lancio per raccontare la New York della Factory di Andy Warhol.

di Corinne Corci

The Velvet Underground, dal 15 ottobre su Apple TV

Lou Reed e John Cale si sono incontrati durante un house party a Manhattan, nel 1964. Reed venne subito attratto dai lunghi capelli di Cale, stile Beatles, formazione classica, appena trasferitosi in città per studiare la viola con il compositore d’avanguardia La Monte Young. Quello che accadde in seguito è divenuto storia della musica, che si lega al complesso ecosistema sociale di artisti sperimentali di New York che è poi il vero soggetto di The Velvet Underground, il nuovo documentario di Todd Haynes acclamato a Cannes 2021 e dal 15 ottobre su Apple Tv. Una narrazione cronologica strutturata come un disco, le cui storie si susseguono come tracce musicali, iniziando con i membri della formazione originale, Lou Reed, John Cale, Sterling Morrison, Moe Tucker, proseguendo con l’uscita di The Velvet Underground & Nico del ’67 e concludendosi con lo scioglimento della band, usata come un trampolino di lancio per raccontare ciò che avveniva negli studi di Andy Warhol nella 47esima strada di Manhattan. Un grande documentario che parte dalla musica ma non parla di musica, soffermandosi invece su cosa abbia significato vivere come un artista tra il ’62 e il ’68, e senza avvertire il bisogno di romanzare i fatti, a differenza di quanto spesso succede con la storia della Factory.

Per alcuni erano solo dei drogati che non avevano niente di meglio da fare, per gli altri sarebbero diventati famosi come i Rolling Stones: nessuno dei due pronostici era esatto. Eppure, i Velvet Underground, con il nome ispirato al titolo di un libretto giallo sui tabù sessuali trovato nella spazzatura, si rivelarono il gruppo più rivoluzionario della storia della musica. Ma per Haynes la vita di Lou Reed (pochissimo spazio viene dato alla droga, così come al sesso o all’adolescenza di Reed, quando su richiesta dei genitori venne sottoposto a scariche elettriche per “curare il suo temperamento”), come quella di Nico e di Warhol è solo materiale per raccontare una storia più ampia, evocando un mondo sonoro basandosi sulle immagini (alcune delle scene più sorprendenti utilizzano foto scattate e filmati girati proprio da Andy Warhol).

Un approccio che per Haynes, regista di Carol e Safe, è tutt’altro che nuovo. Sin dal suo cortometraggio del 1987 Superstar: The Karen Carpenter Story, in cui ha usato le Barbie per dipingere un ritratto per niente tragico di una delle più tragiche figure degli anni Ottanta, si è costruito infatti una profonda esperienza nella realizzazione di film dedicati a grandi icone della musica che in qualche modo le demistificassero. Così con Velvet Goldmine del 1998 con cui ha realizzato una sorta di Citizen Kane nella scena glam-rock degli anni Settanta e nel 2007 con I’m Not There, usando sei attori famosi che incanalassero lati diversi di Bob Dylan per realizzare il film biografico più interessante di sempre.

New York, anni Sessanta. Barnett Newman, Jasper Johns, Robert Rauschenberg, Andy Warhol, Tom Wesselmann, John Waters popolano la 42esima strada prima, e la 47esima dopo. Sono gli anni in cui diversi movimenti e interazioni si amalgamano, perdendo i loro contorni e unendosi in un percorso affastellato non da date ma da artisti. Chi ha occhi atrofizzati non può comprendere. Haynes riporta nel film quel disordine mantenendo lo schermo quasi sempre diviso in un collage di immagini, materiali d’archivio sulla band e interviste con membri (come Cale) e ammiratori sopravvissuti, riconsegnando così l’idea di una certa trascendentalità della musica dei Velvet, ispirata inizialmente alle variazioni degli accordi e alla drone music. Jonathan Richman dei Modern Lovers, che da adolescente ha assistito a 70 concerti dei Velvet, racconta quanto le parole di Reed in “Heroin” ma soprattutto la loro musica «riuscivano a farmi vedere i colori», come in quell’epifania che mescolando musica e pittura aveva teorizzato Kandinskij nello Spirituale nell’arte del 1910.

Una foto originale del gruppo con Nico scatta da Warhol, dal documentario

Non una band, non una città, ma uno stile di vita che flirtava con il pericolo e che ha affascinato Haynes sin dal college, «i Velvet Underground stavano descrivendo qualcosa d’altro, altri percorsi da quelli che avremmo dovuto seguire e altri luoghi brutali, combinavano il senso di sentirsi sfollati ed emarginati con una forza interiore che ci faceva venire voglia di urlare», ha detto al New York Times. Si parte dall’inizio, dal primo concerto alla Summit High School del New Jersey l’11 dicembre 1965, alla scoperta del gruppo da parte di un membro della Factory al Café Bizarre, fino al primo spettacolo multimediale della storia, l’Exploding Plastic Inevitable Show del ’66, organizzato da Warhol per presentare live l’album che segnerà un’epoca. Non mancano nemmeno le critiche all’enfasi della Factory sull’aspetto, un atteggiamento che ha condotto all’inserimento di un’attraente cantante e attrice tedesca alla band, contro i desideri di Reed – anche se Nico avrebbe dimostrato di essere molto più che una semplice musa, non a caso sarebbe diventata per tutti la “Sacerdotessa delle tenebre”. Poi altri spettacoli, il “licenziamento” di Warhol, l’allontanamento di Cale, e tutto il resto fino agli anni Settanta.

Lou Reed è morto nel 2013. Da anni, lui e John Cale non si parlavano più. È la presenza più forte in The Velvet Underground, nonostante la sua sia l’assenza più rumorosa. Parla solo una volta davanti alla telecamera, in una conversazione del 1973 con Warhol. Notoriamente scontroso, raramente si è espresso sui Velvet e sulla Factory nei decenni precedenti la sua morte, e per tutte le due ore di documentario non si riesce a fare a meno di chiedersi come avrebbe commentato gli eventi se fosse stato ancora vivo. Anche se, con molta probabilità, non avrebbe mai partecipato.