Svelato ieri a Milano, diretto da Spike Jonze e Halina Reijn, con un cast degno di un film di Hollywood.
Dei debutti programmati per questa stagione alla Fashion Week di Milano, quello di Dario Vitale da Versace è fino ad ora il più dibattuto sui social: sotto il post Ig del Business of Fashion con il video dell’uscita finale, i commenti hanno toni accesi, in uno spettro di opzioni ampio tra il classico del lessico modaiolo “amazing” (obbligatoriamente in caps lock, a sottolineare il concetto) a “sembra United Colors of Benetton” con l’immancabile rimando al fondatore morto che, secondo alcuni commentatori, da qualche ora a questa parte, sarebbe impegnato nel rivoltarsi nella tomba. Al netto delle iperboli alle quali i social per loro natura sono inclini, l’evento costituisce il battesimo del fuoco di Vitale. Approdato a Versace da Miu Miu, dove era investito della carica altisonante di Design Director e Brand Image Director, il campano ha mandato in scena tra le stanze della Biblioteca Ambrosiana una collezione che rimescola nel frullatore molteplici richiami alla maison: ci sono i gilet in pelle con ricami barocchi; i denim in una palette cromatica che ricorda da vicino quella della linea Versace jeans couture nelle foto con le top scattate da Bruce Weber negli Anni 90; i vestiti con drappeggi che ricamano i damier del motivo Arlecchino, lo stesso che poi ha indossato anche Julia Roberts sul red carpet di Venezia; le camicie stampate e quelle invece in stile Pop art, figlie legittime della collezione primavera/estate 1991 con Linda Evangelista in un abito che moltiplicava ad libitum il volto di Marilyn Monroe.

Versace Primavera Estate 2026

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Un debutto del quale è apprezzabile, prima di tutto, il coraggio: Versace non è solo una maison, quanto un simbolo di una certa italianità gioiosa, senza mai essere frivola. La statura leggendaria del suo fondatore si è trasformata quasi in un culto laico dopo la sua prematura morte nel 1997, non senza validi motivi. Gianni Versace è stato un intellettuale appassionato degli argomenti più disparati, dalla religione all’architettura, benedetto da un dono rarissimo tra i couturier: l’incapacità di prendersi sul serio, di tramutarsi (complice il successo e il riconoscimento internazionale) in sussiegoso maestro di vita distaccato dal mondo reale. Un mondo con il quale invece Versace si è confrontato con entusiasmo e senza preconcetti moralisti, fino alla sua scomparsa. Nei 25 anni successivi sua sorella Donatella, pur senza possedere una formazione da designer, è riuscita nella miracolosa impresa di mantenere viva quella fiamma, anche a costo di trasformarla in un cero votivo, e cristallizzare così un brand che per sua natura viveva in simbiosi con il presente. Vitale è consapevole di dover affrontare un confronto impari, di doversi sottoporre al fuoco di fila di giudizi di critici e leoni da tastiera, ma la prospettiva non sembra farlo arretrare dal suo intento. L’obiettivo dichiarato è rinfocolare l’interesse verso il brand, riposizionandolo in un presente non meno complesso e bacchettone di quegli Anni ’90 nei quali Gianni Versace veniva aspramente criticato dalla stampa per la sua collezione ispirata al bondage (Miss S&M, autunno-inverno 1992/1993). Un proposito esplicitato nella lettera che ha accompagnato le immagini della collezione inviate questa mattina dall’ufficio stampa. «Questa maison è elegante, rispettabile, borghese all’apparenza, eppure c’è qualcosa di sbagliato. O forse sono solo io a essere stanco dell’idea di mera eleganza, e le richieste di rispettabilità mi appaiono assurde».
Il fil rouge con le origini del brand si trasla inoltre nella scelta musicale, che è sempre stata elemento fondamentale della prossemica di Versace. All’epoca era Donatella a occuparsene, commissionando la creazione e il missaggio di brani ad hoc a nomi entrati nella leggenda, come nel caso di Prince. E in effetti, nella playlist della sfilata di ieri compare un brano del folletto di Minneapolis (Little Red Corvette) insieme a nomi che incarnano l’essenza degli Anni 80, non solo nel loro approccio artistico, quanto nell’utilizzo consapevole del corpo come strumento di seduzione o dichiarazione politica. Ci sono gli Wham! (Everything she wants), Madonna (Express Yourself), Janet Jackson (The pleasure principle). E forse è questo il punto debole di un debutto che non manca di ambizione. Il rapporto dei vestiti con il corpo di chi li abita, l’utilizzo dell’abito non come maschera dietro la quale celarsi, ma come carta d’identità tessile tramite la quale presentarsi al mondo, incuranti dei giudizi (nel 2025, non nel 1992) è qui solo parzialmente esplorato nella collezione maschile.

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É certo comprensibile che questo debutto si configuri come un necessario omaggio ai padri o alle madri, pur senza piegarvisi totalmente – come ha fatto Simone Bellotti da Jil Sander. E proprio per questo, (ri)parlare di corpo e sessualità, per un brand come Versace non è solo necessario, ma diventa urgente. In tempi nei quali gli estremismi di ogni colore hanno tramutato il discorso sui corpi – delle donne in primis – in un argomento polarizzante, mentre il sesso si consuma ampiamente per interposta persona, sugli schermi dei pc, e sempre meno nella vita reale, quel brand ha l’autorevolezza per configurarsi come interlocutore privilegiato in materia.
A giustificazione di questa mancanza, è doveroso specificare che non esistono debutti perfetti, che possano soddisfare alla prima prova tutte le richieste (degli azionisti, degli acquirenti, degli appassionati), e la visione completa di un brand si può sviluppare con coerenza solo nel corso di diverse stagioni, grazie alla valuta più preziosa e rara del contemporaneo: il tempo nel quale studiare, metabolizzare, provare, eventualmente fallire, e poi provare di nuovo. Inoltre, Vitale è designer che nel suo passato ha lavorato ampiamente su tutt’altre partiture: laddove Versace si è sempre espresso tramite gli assi cartesiani di desiderabilità e decorativismo, Miu Miu e Prada hanno sempre insistito su quanto è apparentemente non solo non desiderabile, ma proprio esteticamente sgradevole (l’ugly chic come filosofia di vita). Mondi che sembrano appartenere a delle costellazioni diverse, e dal quale incontro/scontro potrebbe scaturire nel prossimo futuro un pensiero – con conseguente armadio – nuovo, allineato con il presente, con tutti i suoi limiti, brutture ma anche infinite potenzialità. Il coraggio e la volontà di dissacrare – cifra di Gianni Versace – non mancano in Vitale, che, nella lettera di intenti di cui sopra, si è firmato “yours in the undoing”: se da questo disfacimento controllato risulterà un brand rivitalizzato, sarà un bene non solo per la specifica maison – che di certo ha bisogno di trovare nuove coordinate tramite le quali posizionarsi nel presente – ma pure per tutta la fashion week milanese, a cui il coraggio manca, ormai, da diverse stagioni.

Il nostro nuovo vodcast dedicato alla moda, con Andrea Batilla e Giuliana Matarrese. Per il primo episodio siamo andati Palazzo van Axel, a Venezia, per raccontare storia, intrecci, incontri e riti di Bottega Veneta.