Fotografie di Piergiorgio Sorgetti

Cultura | Dal numero

Le nuove storie di Daria Bignardi

Dal 16 ottobre torna in tv con L’Assedio, basato sulle sue celebri interviste: ci ha raccontato come è riuscita a diventare un’autrice a tutto tondo e perché, secondo lei, il piccolo schermo in Italia ha ancora cose da raccontare.

di Teresa Bellemo

L’intervista con Daria Bignardi è fissata in un tardo pomeriggio di fine agosto. Lei è già al lavoro per quello che sarà il suo primo programma dal 2015, ultima stagione de Le Invasioni Barbariche: L’Assedio sarà in onda dal 16 ottobre, in prima serata, tutti i mercoledì. «Laura Carafoli di Discovery mi ha convinta a tornare, sul canale Nove, una rete che per freschezza e vitalità mi ricorda La7 dei primi tempi. Per mesi ho pensato a come sperimentare qualcosa di nuovo ma la verità è che non mi è venuta nessuna idea davvero convincente. Quando ho capito che quel che so fare meglio è sempre raccontare cosa succede attraverso le mie interviste ho suonato l’adunata ai barbari. Sono arrivati tutti, magicamente, come se non fossero passati quattro anni ma quattro settimane. Lavorare in gruppo al programma è bellissimo. Scrivere romanzi, che è quel che volevo fare da quando avevo sette anni, è un lavoro molto bello ma molto solitario. Non si può star sempre soli, almeno non posso io, che ho un temperamento malinconico e a star sola a lungo finisco per intristirmi».

Anche stavolta il titolo è preso da un film (L’Assedio di Bernardo Bertolucci, del 1998) e anche stavolta riesce a raccontare bene da una parte lo spirito del tempo di oggi, dall’altra ciò che troveremo sullo schermo, il mercoledì sera. Ma chi sono gli assediati? «Gli assediati siamo noi: assediati dalle paure, da chi usa le nostre paure, dalle notizie false e ansiogene, dall’incertezza sul futuro, sulla giustizia, i diritti, l’ambiente; assediati dall’obbligo di essere sempre belli, sempre giovani, sempre felici. Più giocosamente, i miei intervistati saranno assediati da me». Anche stavolta, infatti, al centro ci saranno le interviste, le storie, che da sempre affascinano e sono protagoniste del lavoro di Bignardi, da Tempi Moderni al Grande Fratello. Ma anche prima, quando faceva l’inviata per Gad Lerner o addirittura quando era freelance e scriveva per quotidiani e settimanali. Da quei primi anni Novanta sembra essere cambiato tutto. I social, lo streaming delle vite di tutti sempre a disposizione delle nostre più o meno reali curiosità. Ma forse, in fondo, i nuovi tempi moderni c’entrano poco. «Le cose cambiano continuamente, ma certi sentimenti e valori sono più o meno immutabili. Credo che oggi come ieri esista il fascino ipnotico e irresistibile delle storie, sia che vengano raccontate attorno a un fuoco, lette in un romanzo, viste al cinema o in televisione, guardate di sfuggita in una storia di Instagram. Una bella storia è sempre una bella storia, qualcosa che ci fa sentire di vivere altre vite oltre la nostra, che fa vivere più a lungo».

«Gli assediati siamo noi: assediati dalle paure, da chi usa le nostre paure, dalle notizie false e ansiogene, dall’incertezza sul futuro, sulla giustizia, i diritti, l’ambiente; assediati dall’obbligo di essere sempre belli, sempre giovani, sempre felici»

Daria grazie ai suoi programmi ha in qualche modo cadenzato la televisione degli ultimi vent’anni. Dapprima sedendosi dalla parte della provocazione, di ciò che veniva visto come nuovo. Tempi Moderni, su Italia 1, è il primo programma che scrive. Al centro ci sono storie di persone “diverse”, originali, bastian contrari, quotidianità poco ovvie. «Raccontava i cambiamenti della fine degli anni Novanta: nella prima puntata invitai nove coppie gay». Non poteva che essere lei dunque a condurre le prime due stagioni del Grande Fratello (2000 e 2001), che rivoluzionò il concetto di ciò che poteva e non poteva essere televisione. Dopo la provocazione, Daria Bignardi sceglie di sedersi altrove, meno riflettori, più riflessione. Ecco dunque le interviste: Le Invasioni Barbariche (2005), L’Era Glaciale (2009), oggi L’Assedio. «Nella primissima edizione delle Invasioni facevo una sola lunga intervista e poi tre lunghi filmati, seguiti da dibattito in studio. I filmati erano bellissimi, ci mettevamo secoli a pensarli, realizzarli e montarli, costavano un sacco e andavano male, mentre durante l’intervista gli ascolti triplicavano. È finita che nelle ultime edizioni facevo anche cinque o sei interviste in diretta, una dietro l’altra». Nel 2016 la direzione di Rai 3, tenuta fino a luglio 2017. «Ho richiamato in rete Gad Lerner, uno che la tv la sa fare davvero, e ho lavorato con Lucia Annunziata, che oltre ad avere un gran cervello per la politica è simpaticissima. Con loro avevo iniziato a fare tv e nessuno dei due era invecchiato, anzi. La tv mantiene giovani». Ma quali sono le regole dell’intervista perfetta?

Voglio sapere tutto dell’intervistato, non chiedergli quello che gli chiedono gli altri, immaginare l’intervista come se fosse un romanzo con un inizio, una trama e un finale, partire da un dettaglio, scrivere cinquanta domande e poi dimenticarle tutte e andare a braccio

«Ognuno ha le sue. Io voglio sapere tutto dell’intervistato, non chiedergli quello che gli chiedono gli altri, immaginare l’intervista come se fosse un romanzo con un inizio, una trama e un finale, partire da un dettaglio, scrivere cinquanta domande e poi dimenticarle tutte e andare a braccio appena inizia». Ce ne sono alcune che sono diventate un cult. La tensione affilata con l’ex ministro Renato Brunetta a L’Era Glaciale, l’«Enrico stai sereno» di Matteo Renzi, Mario Monti con il cane Empy e poi la ripetuta intesa elettrica con Barbara D’Urso, le frecciatine con Barbara Palombelli, le birre e i bicchieri di vino. Daria Bignardi ha intervistato oltre mille personaggi, con un’unica premura: che non fossero insulsi. «Discutiamo ore e giorni e settimane su ogni nome e ogni profilo cambiando mille volte idea fino a che troviamo un taglio inedito – o almeno ci proviamo – per ogni intervistato, e un mix perfetto di ospiti in ogni puntata. Ogni settimana ci vorrebbe una storia inedita, una nostra scoperta, un’intervista legata all’attualità e una più brillante. In ogni puntata devono convivere sapori diversi, come nei bei romanzi dove si ride, si piange, si passa il tempo e magari si scopre qualcosa di nuovo. Per arrivare a questo risultato serve una gran preparazione ma alla fine si cucina tutto espresso».

La televisione è cambiata molto in questi ultimi vent’anni. E come con i giornali, o i libri, c’è chi ne ha già sancito la morte. Nonostante questo, nonostante le piattaforme di streaming e l’on demand, la televisione generalista continua ad avere ascoltatori e a essere per moltissimi centrale. «Non sono una grande teorica, non so quale sarà il futuro della tv. Se guardo i miei figli, loro non la accendono mai. Quindi certamente quando saranno adulti probabilmente la tv come la intendiamo noi non esisterà più. Ma credo che attorno a questo media esistano ancora numerosi professionisti che la rendono ancora interessante». E di quell’ostinazione di guardare all’America con invidia per come la sanno fare? «Di certo negli Stati Uniti ci sono ottimi show e idee. In Italia però ci sono dei prodotti estremamente curati, ancor più che in America. Quasi tutti i programmi hanno alle spalle delle squadre che a tutti i livelli elevano la qualità».

L’Assedio sarà in onda dal 16 ottobre, in prima serata, tutti i mercoledì

Esiste una tv “all’italiana”? «Quella del sabato sera,degli sceneggiati, della qualità. Techetechetè ha successo non solo per la nostalgia, ma anche per la cura con cui furono concepiti quegli sketch. Barbara D’Urso, Maria de Filippi sono due professioniste incredibili del fare televisione oggi. Sono pop, italiane al cento per cento». Anche Daria Bignardi è pop. Sorride. «Un po’ me lo sento addosso. D’altra parte la tv è democratica, arrivo nelle case delle persone per cui divento un volto che riempie le serate, le chiacchiere, i preparativi per il giorno dopo». La tv è ancora una messa collettiva, un momento che viene vissuto assieme come quando ci si riunisce per il pranzo di Natale, solo che adesso lo si fa ognuno sul proprio divano e lo si condivide sui social. Non solo Sanremo, qualche talent, la maratona di Mentana, il calcio, ma anche esempre di più certi programmi trash come Temptation Island, visti e commentati anche da una certa parte di società che un tempo inorridiva soltanto nel sentirli nominare. Più o meno come all’idea di possedere il diabolico apparecchio. «Non ho mai pensato che la tv dovesse essere un modello o soltanto educativa. Sennò non avrei fatto il Gf. Certo, se guardi Quark scopri tantissime cose interessanti, ma non è questo l’unico scopo dei programmi televisivi. Non lo deve essere. Quest’estate ho visto una puntata di Temptation Island con un’amica. A lei non è piaciuto, a me sì. L’ho trovato molto ben fatto, ho capito perché aveva quegli ascolti. Erano tutti bravi, dal presentatore (un ex Grande Fratello, Filippo Bisciglia, nda) agli autori che hanno scelto i concorrenti. Ecco, una cosa che spesso si tralascia è l’enorme cura e le persone intelligenti che sono nel dietro le quinte di questi programmi. Il trash in tv c’è sempre stato, già Indietro tutta! lo esaltava».

Ci ho messo tanto a pubblicare perché essendo diventata popolare in tv mi sembrava inelegante sfornare libri. Io non comprerei il romanzo di uno che ha un programma in tv. Alla fine però ho dovuto arrendermi alla mia anomalia

In mezzo alla tv, ai programmi, alle interviste, alle direzioni, Daria Bignardi ogni tanto si è fermata. «Io ogni tanto ho bisogno di uscire dalla tv. Fare una vita normale, andare a comprare le lampadine, passare un pomeriggio a leggere, preparare il pranzo ai figli che tornano da scuola: cose esotiche se hai un programma di prima serata e sei sempre in lotta contro il tempo». È anche in questi momenti che ha scritto i suoi sei romanzi, ma per arrivarci il percorso è stato lungo e non sempre lineare. «Il primo libro, Non vi lascerò orfani, l’avevo in testa da quando ero piccolissima e già guardavo il mio mondo, che allora era la mia famiglia, col desiderio di raccontarlo. Per me raccontare a volte è stato più importante che vivere. Ho capito col tempo che questa cosa si chiama “avere una voce”, “avere uno sguardo”, essere un autore, che è il mestiere di chi racconta, il suo talento e la sua maledizione, perché a volte non capisci cosa ti fa star bene, cosa sia giusto fare, pensi soprattutto a quello che puoi raccontare a te stesso e agli altri. Ci ho messo tanto a pubblicare perché essendo diventata popolare in tv mi sembrava inelegante sfornare libri. Io non comprerei il romanzo di uno che ha un programma in tv. Alla fine però ho dovuto arrendermi alla mia anomalia e se qualcuno non mi legge perché ha dei pregiudizi sono la prima a capirlo».

Al centro dei romanzi di Bignardi ci sono quasi sempre la famiglia e le sue dinamiche. Aleggia quasi sempre dell’autobiografismo, la sua vita, il suo lavoro, spesso la sua Ferrara. A partire dal primo, che appunto racconta il suo personalissimo lessico famigliare, fino all’ultimo, Storia della mia ansia, che parla di una scrittrice, Lea, colpita dalla malattia. La famiglia come luogo delle emozioni, del dolore, dei sentimenti più profondi. Rachel Cusk nel suo Transiti fa dire a uno dei suoi personaggi «Scrivere è solo un modo per farsi giustizia da sé». È davvero così? Scrivere serve a saldare i conti con la realtà? «Per scrivere bisogna essere spudorati. Se non lo sei, non sei uno scrittore. Se scrivi preoccupandoti di cosa penseranno tuo cugino o tua zia o la tua fidanzata o chiunque altro non sei uno scrittore. Lo scrittore non ha famiglia, tranne i suoi figli. Quelli che vengono prima hanno responsabilità rispetto a quelli che vengono dopo: tutti gli altri sono adulti e se non capiscono che quel che scrivi ha poco a che fare con loro, peggio per loro. Di solito gli scrittori hanno famiglie o fidanzati che li capiscono. Se non vengono capiti, come in quel racconto di Emmanuel Carrère sulla fidanzata in treno, prima o poi li lasciano». Come dice spesso, nel suo lavoro il caso ha contato moltissimo. «Nonostante tutto mi ritrovo a fare quel che mi piaceva da bambina: raccontare e ascoltare storie. Il caso porta le occasioni, la passione e il lavoro le trasformano in esperienze originali».