Un nuovo modo di andare al cinema si è diffuso negli ultimi anni nelle città: proprio quando si pensava che multisala e piattaforme non avrebbero lasciato spazio, si sono affermati piccoli cinema di quartiere.
Questo articolo è tratto dal numero di Rivista Studio uscito oggi e dedicato al Nuovo cinema italiano. Lo trovate in edicola, nelle librerie selezionate oppure, più semplicemente, sul nostro store online.
Lo stato di salute di un’industria cinematografica si misura dallo stato di salute della critica. È un adagio che si è dimostrato vero tutte le volte, in tutti i Paesi, in tutte le epoche. Ai cinici piace ricondurre la cosa a una questione economica, semplice semplice: se un’industria cinematografica è ricca, alla fine questa ricchezza arriva anche ai critici scivolando giù lungo il pendio immaginario della trickle down economics. Se si fanno tanti film è tanto più probabile che tra questi ce ne siano di belli, quindi è tanto più probabile che ci siano persone che andranno a vederli, e tra queste è tanto più probabile ci saranno persone che vorranno parlarne, scriverne, viverne. Il corollario qui è che se un’industria cinematografica è povera, il tasso di povertà maggiore si misurerà tra i critici: se i film sono pochi o non ci sono, di che parliamo? È un adagio che si è dimostrato vero tutte le volte ma che ha smesso di esserlo quando è iniziata internet, come tutte le cose che sono state vere un tempo, d’altronde. La questione ormai si è fatta troppo complicata per essere esaurita pure in un longform, ma la sostanza è: cosa succede a un mercato nel momento in cui a un’offerta sempre maggiore corrisponde una domanda sempre più striminzita? Che quello smette di essere un mercato e diventa un parco giochi, che quello che prima era un lavoro adesso è un hobby, e tornerà a essere un lavoro solo per quelli abbastanza bravi, abbastanza scafati da farne un’attività scalable, monetizzabile. E infatti qual è una delle frasi più rappresentative dell’età di internet? Everyone’s a critic. La frase è una generalizzazione e per questo funziona: se la usassimo per descrivere lo stato delle cose della critica cinematografica italiana, non andremmo troppo lontani dalla realtà.
Ma poi, esistono ancora i critici? Possono esistere davvero, su internet? O bisogna accettare – sarebbe anche l’ora – che certi attrezzi sono ormai scassati ed è inutile continuare a rimetterli nella cassetta? Yotobi, nome d’arte di Karim Musa, è uno dei padri fondatori di YouTube Italia ed è stato anche uno dei primi youtuber italiani a parlare stabilmente di cinema. Ma è un critico, Yotobi? O un divulgatore? O un creator? I film li spiega o li commenta o li usa soltanto come pretesto per produrre un altro contenuto per saziare l’appetito eterno dell’algoritmo? Nonostante tutti gli anni passati dalla recensione che lo fece scoprire a moltissimi (un mirabile video-sclero dedicato ad Amore 14 di Federico Moccia), le domande che ci si poneva all’epoca su Yotobi sono le domande che ci si pone oggi su tutti quelli che sono venuti dopo di lui, grazie a lui, in collaborazione o in opposizione a lui. VictorLaszlo88 (Mattia Ferrari), Matioski (Mattia Pozzoli), BarbieXanax (Marta Suvi), ViolettaRocks (Violetta Rovetto) e tutto il resto della lista, sono davvero dei critici o sono una figura nuova, dei meticci come sono meticci tutti gli animali di internet, un po’ commento, un po’ spiegazione, un po’ contenuto, un po’ pubblicità subliminale? Dare una risposta a questa domanda è quasi impossibile e quasi certamente irrilevante. Fosse anche solo per una questione di reach, come si dice nel loro campo: che siano critici veri e propri o no conta poco, nel momento in cui il discorso sul cinema italiano (e non) oggi avviene sui loro canali, si fa con la loro lingua, segue la loro programmazione.
La passione per la critica cinematografica è essa stessa cinefilia, quindi non ci si può dire cinefili oggi senza aver visto almeno un reel, letto almeno un post di ArteSettima, imprescindibile pagina Instagram. Chiaramente può spiacere, ci mancherebbe: è giusto rimpiangere Cinema nuovo di Guido Aristarco, sognare che oggi tra Instagram e TikTok i creator possano coltivare in laboratorio una rivalità tra Tecla Insolia e Benedetta Porcaroli come quella architettata tra Sophia Loren e Gina Lollobrigida nell’indisciplinatissima redazione di Titanus. Ma qui stiamo parlando dei nostri nonni, e chi di noi vorrebbe davvero assomigliare ai suoi nonni? I reel, buffi, seri, impacciati, semiprofessionali che i tre di ArteSettima hanno prodotto durante l’ultima Mostra del cinema di Venezia non hanno, non possono avere niente a che fare con i dispacci dal Lido che Goffredo Fofi inviava a Torino, alla redazione di Ombre rosse, negli anni che furono. E perché dovrebbero, come potrebbero. Anche la critica cinematografica italiana di oggi somiglia più ai suoi genitori che ai suoi nonni, come tutti, si capisce. A costo di essere sacrileghi, ma quanto si somigliano i tre di ArteSettima che se ne vanno in giro per la Mostra a fare video surreali con addosso i camici dei tecnici di laboratori di CineCittà a Enrico Ghezzi che commenta i film in jeans, T-shirt bianca e audio fuori sincro? Anche in questo caso, come per tutte le cose di internet, non si può certo dire che le cose siano iniziate la prima volta che ci siamo ritrovati online.
Che la figura del critico in Italia stesse cambiando lo sapevamo da un pezzo, ed è ovvio che di Ghezzi possono esistere solo epitomi, solo repliche in scala ridottissima, ma tant’è: pure lui si era inventato un format, anche lui si era fatto creator, iniziasse oggi probabilmente invece di fare il concorso in Rai si aprirebbe un profilo TikTok. È l’economia dell’attenzione, in un mondo in cui a nessuno importa di niente (men che meno del cinema, a giudicare dal botteghino) devi inventarti qualcosa per emergere intatto dal magma del doomscrolling. Questi nuovi critici, chiamiamoli così, alla fine hanno aggiunto qualche nuova dispensa a una lezione già vecchia. Quella di Ghezzi, appunto. Ma pure quella di Marco Giusti, l’altra faccia della moneta: non c’è un canale YouTube, un pagina Instagram, un profilo TikTok oggi che non debba qualcosa a Stracult, a quel linguaggio, a quell’estetica, a quell’approccio. Ovviamente Giusti aveva il physique du rôle, la camicia con la fantasia sfigata abbastanza, la barba incolta di chi non può perdere tempo a radersi, non con tutti i film che ci sono da vedere. Chiaramente, è più facile (pure più giusto) stare a sentire Giusti che parla della Bestia in calore di Luigi Batzella che mr. Marra, con i suoi pettorali guizzanti e le trecce da appropriazione culturale, che spiega Orphan di László Nemes nell’ultima puntata dei Criticoni, popolarissimo vodcast crossover in cui confluiscono gli abbonati ai canali di Federico Frusciante, Francesco Alò, VictorLaszlo88 e appunto mr. Marra. E ci mancherebbe, non sarò io a dire che quello che per me sono stati Giusti e Stracult, per un ragazzino di oggi potrebbero essere mr. Marra e i criticoni. Il deperimento è innegabile, è evidente, ma quei padri hanno prodotto questi figli: internet, i social alla fine hanno semplicemente accelerato un processo che è cominciato quando Ghezzi ha iniziato ad aggeggiare con l’audio o quando Giusti ha alzato il telefono per chiamare G-Max a lavorare con lui. Internet, alla fine, è semplicemente lo spazio e il tempo in cui si sono materializzate tutte le estreme conseguenze che non avremmo mai pensato di affrontare.
E bisogna anche essere onesti, per quanto di amaro sappia questa onestà. Questi nuovi critici non saranno un movimento (ma anche qui, che parola è mai questa, in un’epoca come la nostra?), non avranno la formazione né l’erudizione (chi di noi ce l’ha, rispetto a quelli che nel ‘900 facevano questi mestieri), ma godono di una rilevanza commerciale, promozionale di cui raramente la critica cinematografica ha goduto nella sua storia. Certo, si potrebbe pure dire che basta questo fatto a risolvere la questione di cui sopra: se sei buono, o torni utile, a vendere un film, un critico non sei. Ma inutile che quelli che si sono inventati empie crasi come advertorial e che ogni volta si dimenticano di marchiare con #adv i contenuti sponsorizzati esigano purezza da altri che hanno l’unica colpa di giocare meglio, e vincere, allo stesso gioco a cui loro hanno accettato di giocare. La rilevanza commerciale e promozionale, si diceva: chiunque oggi segua il cinema sa che non c’è film il cui protagonista, regista, sceneggiatore, elettricista, stagista non passi da un podcast. Che adesso non sono manco più podcast ma vodcast, perché funziona così, gli intervalli tra un pivot to e l’altro ormai si fanno sempre più brevi. Cinque anni fa scoprivamo TikTok e i podcast, e sembrava che il video brevissimo e il contenuto audio fossero gli unici formati possibili per il commento e la critica per sopravvivere. Cinque anni dopo, tutti vanno ospiti in vodcast da un’ora e mezza a puntata, a spiegare i fatti del film e pure quelli loro, perché a quanto pare i ragazzini questo guardano, il vodcaster su YouTube come fosse Fabio Fazio su Rai3, e per farti guardare (in sala, soprattutto) questo tocca fare, che tu sia Timothée Chalamet travestito da Bob Dylan o Luca Marinelli che scimmiotta Benito Mussolini. E alla fine cos’è che conta di più, in un movimento cinematografico? Chi parla di un film che tutti hanno già visto o chi convince qualcuno a vedere un film che non sarebbe andato a vedere?
Marinelli è uno che potrebbe farmi da testimone, in questa filippica tutto sommato abbastanza favorevole ai nuovi critici. Qual è la differenza tra uno che è un critico e uno che non lo è? Una risposta potrebbe essere che il critico ti chiede com’è interpretare Mussolini, il non critico invece vuole sapere com’è metter su 20 chili per interpretare Mussolini. Entrambe le domande sono state poste a Marinelli durante la campagna promozionale di M, una in una puntata di ArteSettima e una in una puntata del Bsmnt di Gianluca Gazzoli. A ognuno la scelta, chi è un critico e chi no.
E dei format precedenti e abbandonati cosa resta? Una miriade di content creator, numerosi, invisibili e indistinguibili come i pollini nell’aria, che fanno liste brevi (vanno fortissimo documentari e horror, chissà se queste persone hanno mai avuto ildocumentario.it nel feed o Nocturno tra le mani) e podcast ormai desueti perché se non ti vedo anche non ti sento nemmeno. Quando ero ragazzino, tutti i cinefili che aspiravano a diventare critici ascoltavano un podcast che si chiamava Ricciotto. Prima di mettermi a scrivere questo pezzo, sono andato a controllare la pagina per vedere di cosa avessero parlato nell’ultimo episodio. Ho scoperto che l’ultimo episodio è dell’11 ottobre del 2022. Che fine avranno fatto? Non che importi, in realtà, basterà aspettare il prossimo pivot to per vederli tornare, di nuovo davanti a tutti, pionieri che in realtà hanno continuato a fare la stessa cosa abbastanza a lungo perché tutti si scordassero di loro e li scoprissero di nuovo. Perché su internet la critica cinematografica funziona così: non solo everyone’s a critic, ma once a critic, always a critic. Basta avere pazienza e aspettare il proprio turno, ogni volta.
Lo abbiamo incontrato a Milano e con lui abbiamo parlato del suo nuovo romanzo, di cavi in fibra di vetro piazzati sul fondo del mare, di Leonardo DiCaprio, del Papa, di ChatGPT e di vini bianchi.
