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Tutti hanno opinioni sulla moda ma non tutte hanno lo stesso valore

Se North West, “figlia di” appena decenne, può distruggere un vestito di fronte a chi l’ha realizzato, che senso ha la critica di moda oggi?

di Caterina De Biasio

In un episodio di Keeping Up with the Kardashian, North West critica l’abito Schiaparelli che la madre Kim Kardashian indosserà per il Met Gala. «I don’t like [that] it looks like from the Dollar Store», dice di fronte al designer Daniel Roseberry che afferma di vivere il suo peggior incubo. Questa scena è diventata virale sui social e su Dazed & Confused si sono chiesti, un po’ scherzando un po’ anche no, se la giovanissima North West diventerà la nuova Cathy Horyn o Robin Givhan. North West è piaciuta perché sincera e divertente, capace di dire quello che nessuno sembra avere il coraggio di dire. Ma, soprattutto, la figlia di Kim e Kanye West, con i suoi commenti sinceri e feroci, e un po’ annoiati, ha fatto emergere alcuni elementi che contraddistinguono lo stato attuale della critica di moda. Il coraggio di North West di dire apertamente quello che pensa deriva dalla posizione che occupa, una posizione di potere e di non precarietà: il suo esporsi non avrà conseguenze dirette su di lei, che continuerà a essere invitata a eventi e sfilate, al seguito della madre. È una scena che ha in sé una violenza sottile, non per il fatto in sé – non è richiesto a una bambina di misurare le proprie opinioni – ma per il seguito mediatico che le sue parole hanno avuto. In confronto, la critica pungente di giornalisti e critici, che spesso e volentieri gli stessi designer non possono concedersi il lusso di apprezzare (o, almeno, accettare), appare tiepida. North West è cruda, e questo suo essere caricaturale ed estrema annulla la critica in sé, la anestetizza e non invita alla riflessione. Anche perché, dopotutto, è una bambina.

Un recente articolo di 1Granary descrive le condizioni in cui operano i giornalisti e critici di moda per via della natura stessa del sistema (ovvero quel rapporto scivoloso tra investitori e media, che è alla base dell’equilibrio dei media di settore). Ma c’è un elemento in più da considerare: è innegabile infatti  che il mestiere è stato, storicamente, ed è tuttora estremamente classista, un classismo che prolifera a causa di stipendi bassi, compensi per articolo con cui non si può sopravvivere, stage che non si trasformano quasi mai in assunzioni. Questo conduce a una difficoltà a essere onesti e sinceri, soprattutto per paura di venire esclusi da un sistema che sembra sfamarsi solo di consenso, e a un risentimento e a una rabbia profondi, a una sfiducia nei media tradizionali e nei grandi gruppi editoriali, non più capaci di influenzare il settore come una volta. La critica di moda sembra perciò essersi polarizzata tra chi sta fuori dal sistema moda e segue l’andamento spesso brutale a altalenante, mai equilibrato, delle opinioni sui social e chi si limita, volutamente o meno, a una descrizione della collezione: ne elenca le caratteristiche superficiali senza allargare lo sguardo oltre all’abito e, allo stesso tempo, senza dare rilievo all’abito stesso, nelle sue caratteristiche specifiche di oggetto materico. La critica di moda è una disciplina ancora relativamente recente e, come sottolineato da Cathy Horyn, giornalista del New York Magazine e una delle poche firme che può ancora permettersi di esprimersi con franchezza, non viene ancora presa sul serio. Questa delegittimazione può in realtà dare molta libertà: è un lavoro che si può ancora ristrutturare, che ha avuto una vita troppo breve per potersi fossilizzare in un canone e, soprattutto, dividersi in una dicotomia di atteggiamenti.

L’avvento di blog e social media ha portato a un grande cambiamento nei taciti rapporti gerarchici di chi poteva e non poteva parlare di moda. Se da una parte ha portato a una democratizzazione del mestiere e ci ha ricordato che la linea che divide opinioni personali e critica è molto sottile e che l’oggettività non esiste in natura (come è dimostrato da questo stesso articolo), ha anche anche fatto credere a molti di poter confondere l’opinione pura con il pensiero ponderato. In un’intervista a Interview Magazine, Robin Givhan ricorda come l’obiettivo del critico di moda sia quello di «aiutare a creare connessioni» e non di dare un’opinione. Che senso ha infatti la critica oggi se non quella di accompagnare con la parola là dove la moda non può arrivare, sempre più spesso costretta dalle leggi di mercato a farsi sinonimo di lusso? Il critico non indirizza, influenza o guida, ma fa intravedere tutto quello che la moda, da sola, non può dire. In un momento storico in cui esprimersi con estrema sincerità è sia difficile che poco utile, essere consapevoli che, nella vacuità del contenuto, il modo in cui si scrive diventa il contenuto stesso dovrebbe essere il perno attorno al quale strutturare la propria critica. Se l’industria non dà spazio all’incompreso e al non immediatamente comprensibile, è compito del critico spiegarlo e renderlo accessibile, e quindi legittimarlo e dargli respiro. L’obiettivo non è solo creare connessioni, ma anche ridare agli abiti quella tridimensionalità che, diventando pura immagine digitale, sembrano aver perso, come spiega Angelo Flaccavento in un’intervista sempre a 1Granary. La parola scritta si ciba di immagini immaginate e mutevoli, e allo stesso tempo precise e finite, che disegnano un cerchio dentro al quale il pubblico può non sentirsi spaesato nel caos ovattato e incalzante della moda contemporanea. Tutto questo non è un’operazione scontata, contando anche che chi si occupa di moda difficilmente può permettersi di indossare gli abiti di cui scrive e quindi comprendere l’importanza della loro matericità, come spiegato da Femke De Vries in A Review of Reviews.

La moda deve richiedere a se stessa qualcosa di più di North West e la sua inconscia violenza di classe e i suoi commenti banali e quasi crudeli, entrambi espressi con leggerezza. Dopo questi anni di cambiamenti nell’informazione, e di democratizzazione estrema e populismo della moda, ci meritiamo che designer e industria si aprano a un dialogo onesto con la critica, e che la critica a sua volta si chieda qual è il suo ruolo in un’industria in punta di piedi sull’abisso, in una conversazione in cui nessuna della due parti esca svilita. Mai come ora abbiamo bisogno di dialogo, e iniziare a farlo dai vestiti, quelle cose così leggere eppure così pesanti di simboli e significati, può essere un inizio pacato, una direzione da coltivare sotto strati di paillettes, lustrini, velluti e pizzi, e altre cose superficiali in cui l’essenza della moda da sempre ama celarsi.