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Comunismo a Times Square, e ora qualcosa di completamente diverso
Abbiamo parlato con Giada Biaggi, scrittrice e stand-up comedian, del suo secondo libro, in libreria da oggi: ambientato a New York negli anni Dieci, tra anticapitalismo, sesso e politica, è un'eccezione nel panorama letterario italiano.
L’epigrafe di Mark Fisher parla chiaro: Comunismo a Times Square parla di una generazione in crisi di fronte al collasso del capitalismo. Ambientato prevalentemente a New York, il secondo romanzo di Giada Biaggi, da oggi in libreria con Feltrinelli, è un’immersione nella cultura pop della fine degli anni dieci, dall’orgasmo di Yoko Ono al MoMA al suicidio di Alexander McQueen, da Obama alle tende di Occupy Wall Street, dalla musica indie ai blog. Il canto del cigno dell’Occidente, prima che venisse risucchiato dai social e da se stesso, negli anni in cui riusciva ancora a immaginarsi un futuro, descritto attraverso la storia d’amore dei tre protagonisti, Agata, Walther e John. Scrittrice (il suo primo libro, pubblicato con Nottetempo, è Il bikini di Sylvia Plath, 2022), podcaster (Philosophy & the City, 2020 e 2021), stand-up comedian, sceneggiatrice, negli ultimi anni Giada Biaggi ha perfezionato un suo personale mix di disperazione e comicità che assomiglia a quelle risate isteriche che improvvisamente si trasformano in pianto. Il suo approccio tragicomico, sapientemente bombardato di citazioni (letterarie, artistiche, filosofiche, di cultura pop) e satira (politica, sociale, culturale) è una boccata d’aria fresca in un panorama letterario per troppo tempo rimasto incastrato in un immaginario tutto “all’italiana”. È uno stile che funziona sia nei suoi spettacoli, dove si espone in prima persona attraverso coraggiosi esperimenti di auto-fiction, che nella scrittura, dove si scatena in dialoghi esilaranti e scene che sembrano tratte da un film.
ⓢ Nelle prime pagine di Comunismo a Times Square c’è un ragazzo, Walther, che racconta di quando ha chiamato la linea di prevenzione suicidi e si è ritrovato ad ascoltare “Rocketman” di Elton John, utilizzata per la musichetta d’attesa. È vero o è inventato che se chiami quel numero si sente quella canzone?
Inventatissimo, ma qualche tempo non-felice fa mi sono trovata a chiamare il numero anti-suicidio e non c’era la musica; allora mi sono messa a pensare che canzone mi spinge ad andare avanti quando sono a pezzi. Ed è questa, o l’idea, comunque, che esista un genio comico e musicale come Elton John. Poi quando mi hanno risposto ho attaccato, come Walther nel libro. Adesso che ci penso però, per un certo tempo nel centralino del taxi di Milano c’era stata “Your Song” di Elton John; ecco penso che quella canzone ascoltata nel momento sbagliato, magari se reduci da un infelice appuntamento, possa essere un’istigazione al suicidio. I destini di un’opera d’arte sono davvero imperscrutabili (ride).
ⓢ Il tuo primo libro si intitola Il bikini di Sylvia Plath (morta suicida), nella prima pagina del tuo nuovo libro si parla di Sarah Kane (morta suicida) e l’esergo è di Mark Fisher (morto suicida). Coincidenze?
Allora, Sarah Kane l’ho citata in maniera un po’ arbasiniana per prendere in giro il mio primo libro. Poi in realtà, ho avuto un’agnizione e mi sono accorta come Sarah Kane e Mark Fisher coprivano molto bene la linea del tempo e concettuale che affronto nel libro. Il primo decennio di questi anni zero che si aprono con il suicidio di una drammaturga e si chiudono nel 2009 con la pubblicazione del manifesto visionario di Fisher (poco dopo le elezioni di Obama e poco prima di Occupy Wall Street); essendo molto vicina a questi due autori capisco bene come l’iper-comprensione della realtà che hanno avuto in quegli anni non avesse potuto che coincidere con la negazione della vita. A loro modo sono stati dei suicidi anti-capitalisti, in polemica con l’individualità.
ⓢ Dicono che scrivere il secondo romanzo sia più difficile del primo, è vero?
A me piace molto scrivere e odio vivere. Sì ovviamente è stato faticoso, ma è troppo bello il potere di perfezionamento linguistico della realtà che ti permette di fare la letteratura. Ho voluto alzare l’asticella con questo libro e sono passata dalla prima persona del mio esordio a delle terze persone; mi sono calata fortemente nei miei personaggi maschili. È un libro molto più femminista del primo, nella misura in cui tutti i personaggi, anche gli uomini, sono polidimensionali e complessi. Nessuno è caricaturale.
ⓢ Mi dicevi che c’è stato un momento in cui lo odiavi, poi ha ricominciato a piacerti, oggi nel giorno dell’uscita in che fase sei?
Mi piace; credo sia un libro molto coraggioso, glam e intellettuale! Ho capito qual è il mio stile come autrice e adesso sono compiaciuta nel fare la mia letteratura. Mi sento molto fortunata al momento!
ⓢ Qual è la tua scena preferita?
La scena più cinematografica del libro secondo me è quando Agata legge Lolita di Nabokov a John nella metropolitana di New York; e lui soffrendo di un deficit di attenzione non riesce molto a seguirla nell’avanzare della storia e in quegli istanti si innamora di lei, della sua intenzione non tanto verso di lui ma verso il mondo; capisce il suo essere stata un’attrice e il suo volerlo essere ancora. Mi sembra una bella assolutizzazione dell’incontro; quella che ci piace chiamare innamoramento. C’è un’espressione di Lèvinas che mi sono scritta che è “nudità dignitosa”, lui descrive in questi termini il volto dell’altro… ed è di questo che le persone si innamorano; lo fanno quando vedono l’altro nella sua “nudità dignitosa”…
ⓢ Che regista sceglieresti per dirigere il film tratto dal libro? E che attori vorresti nel cast?
Lo so che ti aspetteresti Lanthimos; ma devo dire la mia sul suo ultimo film. Ho trovato Povere Creature a tratti un po’ naïf… ancora qui a dire che il sex working è una pratica femminista e che siamo libere perché ci masturbiamo a tavola; con l’uomo che si trasforma in maiale… È il classico film del finto ally. Comunque, tornando a me, lo farei dirigere a Brit Marling e scrivere a lei e Hagai Levi; adoro le loro opere che non si appiattiscono mai sulla battaglia dei generi, si avvicinano molto nel mondo delle serie a quella che Wagner chiamava Gesamtkunstwerk.
ⓢ Stranamente non ti chiederò della tua skin-care routine, bensì della tua writing routine: quando scrivi? Ti isoli per dei periodi tipo eremita o ti ritagli un po’ di tempo ogni giorno? Scrivi sul letto, alla scrivania, sul divano? Prendi appunti su un taccuino? Ascolti musica o scrivi in silenzio?
Allora prima di scrivere prendo il fosforo; lo faccio dall’università. Mi isolo, vado da mia mamma a Legnano e sono molto isterica. Un giorno alla settimana bevo tanto whisky giapponese e non lavoro. Per i libri ho un quadernino dove scrivo in stampatello, mi immagino la stessa calligrafia con la quale Daniel Johnston scriveva le sue canzoni, uso pennarelli stabilo… poi prima di iniziare a scrivere al pc un capitolo faccio un elenco puntato delle cose che devono succedere e poi parto, ascoltando Brian Eno. Scrivo sul tavolo di cristallo del soggiorno di mia madre (è tutto così edipico, lo so…) e mi vesto sempre bene. Poi il mio primo lettore è sempre il mio cane Vittorio, al quale leggo tutto ad alta voce. Ogni cinque pagine. Se esco con qualcuno e ci vado a letto; è probabile che la mattina gli legga qualcosa (ride). Nessuno si è mai innamorato così finora…
ⓢ Durante la fashion week hai fatto una storia in cui scherzavi sul fatto che non riesci mai a farti prendere sul serio da nessuno: sei troppo vestita bene per la bolla letteraria, troppo colta per la bolla moda, troppo bella per la bolla comicità. Altrove è abbastanza normale che questi mondi si mescolino: Tess Gunty, Coco Mellors, Allie Rowbottom sono bellissime, bionde e vestite bene, Ottessa Moshfegh ha sfilato durante una fashion week di New York. Perché secondo te, in Italia, il mondo letterario è così gravemente allergico alla “coolness”?
Il problema di questa scissione in Italia dagli anni Ottanta in poi sono stati gli uomini di sinistra alla Nanni Moretti che ai tempi del Berlusconismo lo hanno ostracizzato politicamente su tutto, tranne che sulla misoginia. Tutt’ora mi sorprende come uomini progressisti sostengano il rap e il calcio e non le donne che fanno cultura. Il minimo comune denominatore della classe dominante di questo Paese è l’odio per le donne che si pongono in termini intellettuali nei confronti del mondo e verso le quali sono troppo codardi per dargli spazio. Berlusconi è morto, ma il berlusconismo è ancora tra noi.
ⓢ A proposito di New York, perché hai scelto di ambientare il libro proprio lì?
Tra i temi del libro c’è la crisi del capitalismo e New York è stato il posto perfetto per trattarlo. Inoltre, non avevo più nulla da dire su Milano e volevo trovare un’ambientazione che facilitasse la traduzione del libro. Leggo principalmente letteratura americana e anche la mia cultura comica si è formata con autori newyorkesi; mi sento molto più vicina a Jonathan Franzen che a Elena Ferrante ecco!
ⓢ E perché come periodo hai scelto il primo decennio degli anni 2000? Avevi segretamente già visto Saltburn (ambientato nel 2006)?
(Ride) Credo che com’è stato per la regista di Saltburn, quegli anni ci abbiano attratto perché è stata l’epoca più prossima e iconica a livello estetico: la nostra vita non era ancora stata fagocitata dai cellulari. Quindi in primis volevo scrivere un libro che non contenesse la parola Instagram. Poi è emersa l’urgenza di scrivere un romanzo storico e questi sono stati anni densi di eventi memorabili; gli ultimi in cui l’Occidente a mio avviso è stato in grado di immaginarsi un futuro. L’immagine più forte a questo proposito sono le tende a montaggio istantaneo ricoperte di neve a Zuccotti Park; quei tre mesi di rivoluzione a un passo da Wall Street, mi commuovono tanto quelle immagini – mi danno l’idea di essere la versione McDonald’s del Sessantotto parigino. Perché come dice Agata: «Anche la sconfitta doveva avere un altro sapore a quell’epoca. Sai la frase che andava di moda in quegli anni, “Il privato è politico”? Ma era un altro privato, ed era un’altra politica». Spero che questo libro faccia venire nostalgia del futuro; è un sentimento così malinconico e poetico!