Cultura | Opinioni
Com’è difficile fare il comico nel 2021
Da Dave Chappelle a Pio e Amedeo: i cambiamenti nel discorso sulla comicità all'epoca della cancel culture, del politicamente corretto, del dibattito su ciò che si può dire e su ciò di cui non si deve ridere.
Quello del comico, insieme al mago e al sacerdote, è un ruolo presente in tutte le società fin dall’alba dei tempi perché risponde a un bisogno atavico dell’uomo, a una nostra necessità universale per la tenuta della comunità. Il comico è lo sciamano, il proto-sociologo che svela il mondo e i meccanismi sotterranei, anche quelli deviati, attraverso il suo punto di vista, quel senso dell’umorismo che illumina alcuni aspetti della realtà rendendoli divertenti. Per questo, i dibattiti contemporanei sulla cancel culture, sul politicamente corretto, su ciò che si può dire o non si può dire passano necessariamente anche dal discorso comico, che li elabora secondo le proprie categorie. Per capire più a fondo cosa significhi tutto questo, dobbiamo parlare di lingua, comunicazione e paradossi.
Prendiamo per esempio il monologo di Pio e Amedeo sul politicamente corretto (qui un riassunto della vicenda), che ha sollevato molte polemiche nei mesi scorsi. Proprio Amedeo apre lo show dicendo polemicamente che: «oggi contano più le parole che le intenzioni, contano più le parole del significato che ci metti dentro. Ma il problema non è la N-word (lui la usa, ndr), non è la lingua, è la cattiveria». Ecco, in generale non è proprio così, e non dobbiamo scomodare i grandi linguisti del Novecento per spiegarlo. Dire che le parole contano più del significato che ci metti dentro non ha senso, visto che le parole significano nella misura in cui la collettività dei parlanti ne negozia il significato nel tempo all’interno di una società mutevole, e una singola persona su un palco non può certo invertire o correggere questa naturale dinamica. Tuttavia la comunicazione comica ha una peculiarità che la differenzia dalle altre: è sempre doppia e si fonda sul paradosso. Ma facciamo un passo indietro. Quando due bambini giocano alla guerra mimando le pistole con le dita, riproducono ridendo azioni aggressive senza però farne propri gli scopi e le conseguenze: non sono davvero nemici e fanno solo finta di ammazzarsi. Allora il gioco e il combattimento sono due dinamiche differenti ma invischiate in una relazione metaforica: il gioco è la metafora del combattimento e, per questo, i suoi messaggi sono sempre paradossali perché contengono contemporaneamente una conferma e una smentita di se stessi. Se due soldati veri combattono, i fucili confermano il loro significato base – ti ammazzo. Quando due bambini simulano un combattimento, interviene il paradosso: il mio indice e il mio pollice distesi sono un fucile e non sono un fucile allo tesso tempo.
Anche la comunicazione umoristica funziona così: le parole sono reali e irreali, il comico fa sul serio e non fa sul serio e i suoi discorsi non sono “normali” ma cercano di mimare la normalità usando le parole, come diceva Victor Raskin, non in buona fede. Tutto questo pippone non serve però assolutamente a nulla se non si tiene conto di un aspetto fondamentale: il contesto. L’individuo non è separabile dagli altri individui, dai sistemi relazionali di cui fa parte e dal luogo in cui si trova. Per mettere in pratica tale assunto, parliamo adesso di un altro monologo comico che recentemente ha scatenato l’inferno: il comedy special di Dave Chappelle su Netflix, The Closer, e i suoi commenti sulla comunità Lgbtq+. A questo proposito, l’umorista romano Francesco De Carlo, in un’intervista di qualche settimana fa sul Fatto Quotidiano, sosteneva che «in un monologo, un comico può creare un contesto in cui si possono dire anche cose estreme, ma che dentro quel contesto non siano offensive. Perché c’è differenza tra un punto di vista forte che usa una provocazione e una battuta su omosessuali, donne o stranieri che si basa su vecchi cliché». Poi continuava dicendo: «Un comico non è un chirurgo di Emergency, non cura il mondo: al massimo prova a raccontarne le ferite. L’unica forma di cura è la catarsi: prende un aspetto della vita e ne fa notare gli angoli ridicoli e paradossali».
Tutto vero e tutto condivisibile. Il ruolo del comico è quello di mostrarti le cose, svelarle, non certo trovare una soluzione. Il senso dell’umorismo scoperchia il mondo, un po’ come gli occhiali da sole del tamarrissimo Rowdy Piper in Essi vivono di John Carpenter, ma non lo aggiusta. Al limite può diventare un’efficiente cartina tornasole dello zeitgeist e dei valori che lo percorrono attraverso la relazione con e le reazioni del pubblico. Infatti moltissimi spettatori si sono incazzati sentendo le parole di Chappelle e hanno pieno diritto di farlo, visto che il senso dell’umorismo è sì un punto di vista sul mondo, ma non per forza un punto di vista corretto o condivisibile. Il fine ultimo della comicità, tuttavia, è sempre quello di far ridere. La risata è il fine e non il mezzo, ed è la ceralacca che sigilla il patto implicito siglato con il pubblico: se venite a vedermi, dovete aspettarvi di ridere e io farò il possibile per farlo accadere. Se non accadrà, avrò fallito. La mia comicità non si sarà compiuta.
Ma allora, fa ridere questo special? Secondo me no, perché il suo monologo non si accorda con gli scopi e i principi del discorso comico di cui parlavamo prima. Un breve esempio: uno dei perni delle sue argomentazioni è: «Il genere è un fatto. Tutti gli esseri umani presenti in questa sala, tutti gli esseri umani presenti sulla Terra, sono passati attraverso le gambe di una donna per essere qui. Questo è un fatto» E sì, siamo d’accordo, è un fatto. Ma chiaramente non è questo il punto. Affermare l’ovvio e relegarlo a una dimensione puramente fattuale e fisiologica smantella l’aspetto paradossale della comunicazione comica, fa collassare i due livelli e trasforma il monologo in un comizio qualunque, con cui possiamo essere d’accordo o contro il quale possiamo scagliarci con tutte le nostre forze, ma che rimane il comizio di un privilegiato che può permettersi di farlo.
La mia però è solo un’opinione personale, e la risata è la cosa più soggettiva al mondo perché nessuno ha ancora capito cosa significhi esattamente. L’unica cosa che possiamo dire è che non ha niente a che fare con i verbi modali, con il potere, il dovere o il voler ridere. Tutti noi, per esperienza personale, sappiamo bene che non possiamo non ridere se ci viene di farlo e non possiamo ridere a comando, se qualcosa non solletica il nostro umorismo. Ecco perché l’adagio “ormai non si può più ridere di nulla” non ha nessun senso. L’affermazione, parafrasando Quèlo, è mal posta. Ma allora, il pubblico in sala rideva? Al netto del possibile aumento dei decibel in post-produzione sì, rideva un sacco, e il motivo è proprio l’ambiente, l’atmosfera, il contesto. Da un lato c’è l’intrinseca contagiosità della risata, dall’altro il fatto che ridere significa sempre svelare una parte nascosta di noi stessi, i nostri valori e le nostre credenze e, in questo paradossale momento di fragilità, siamo avvinti da una peer pressure stile high school americana: se tutti ridono e io no significa che c’è qualcosa di sbagliato in me, dunque rido anch’io. Meglio: mi viene da ridere.
Concentriamoci adesso su di noi, invece, il pubblico a casa, gli sfortunati che non erano presenti durante le registrazioni. È da lì, dalla solitudine dei nostri divani che la risata si è mostrata per quello che è veramente: uno smascheramento. E quante persone, me compreso, hanno riso anche solo una volta, anche solo per una battuta costruita particolarmente bene e poi guardarsi attorno e sentirsi forse un po’ a disagio per aver sghignazzato proprio su quella frase sulle persone trans, quella cosa di cui NON SI PUÒ RIDERE. Ecco che il quadro si complica. Lo spettacolo comico, nel momento del suo compiersi, nel suo qui e ora, comunica delle cose in un frame umoristico in cui ogni affermazione conferma e smentisce se stessa, grazie non solo alla bravura e ai segnali di gioco dell’artista sul palco ma anche all’atmosfera, alle altre persone presenti, alle telecamere di Netflix, alla consapevolezza della situazione e alle aspettative nei riguardi di colui che è attualmente considerato il miglior comico al mondo. Nella sua differita, invece, rischia di perdere l’immediatezza dell’incontro, il dialogo in tempo reale con l’artista, il suo portato paradossale; diventa comunicazione “normale”, trattata come comunicazione normale e, dunque, un tizio che dice delle cose inaccettabili e gravissime a discapito di una minoranza. E il fatto che anche lui faccia parte di una minoranza non cambia affatto la situazione.
E va benissimo così, per carità. Ci si può e ci si deve incazzare con Chappelle o con Pio e Amedeo quando dicono cose che riteniamo offensive e sbagliate e, allo stesso tempo, si può ridere delle loro battute, se ci viene, senza vergognarci troppo. Loro possono dire quello che vogliono ma l’ultima parola, e l’ultima risata, ce le abbiamo sempre noi. Vediamo di tenercele strette e di accogliere, una buona volta, la complessità.