Storia molto travagliata di una richiesta di cittadinanza

Il processo di Kafka, in confronto, è rapido e fluido: un'artista, figlia di genitori jugoslavi, racconta le enormi e tragicomiche difficoltà che ha dovuto superare per avere la cittadinanza italiana.

06 Giugno 2025

Quando nel 1991 scoppiò la guerra nei Balcani, tornai a vivere sul Lago di Como: luogo in cui tre anni prima ero nata quasi per caso, mentre i miei genitori, jugoslavi, erano in viaggio verso la Svizzera, dove mio padre avrebbe dovuto iniziare a frequentare l’accademia di Ginevra. Nella costosa Svizzera, però, eravamo rimasti poco, vivendo in ville occupate da artisti e musicisti. Tornammo dunque a vivere nella città di mio padre, Pola, in Croazia. Avevo tre anni quando la tensione politica che portò al conflitto cominciò a manifestarsi nella vita quotidiana: mia madre, quando mi portava al parco giochi, aveva paura di chiamarmi con il mio nome – Rada, un nome tipicamente serbo, così serbo e antico che non lo avrebbe mai scelto, pur essendo lei stessa serba di Bosnia. Mio padre, croato, lo aveva proposto perché mi chiamassi come Radha: la compagna divina di Krishna, dea della bellezza e dell’amore. Fu così che i miei genitori decisero di tornare dove tre anni prima ero nata: sul Lago di Como, in Italia. Ed è qui che inizia la surreale vicenda che in questi giorni ingombra la mia mente: l’ottenimento, nel 2013, della mia cittadinanza. 

Nel 1996, mio padre era tornato a vivere in Croazia dopo la fine della guerra, mentre io ero rimasta a vivere con mia madre in Italia: la cittadinanza di entrambe era dunque bosniaca. Nel 2003, io avevo quindici anni, quando mia madre, dopo aver lavorato, risieduto, rinnovato il permesso di soggiorno per dieci anni continuativi (significa che qualsiasi incongruenza temporale, anche di poche settimane, ne annulla la validità) inoltrò la sua richiesta per l’ottenimento della cittadinanza italiana. Dal momento che i figli minori acquisiscono a loro volta la cittadinanza concessa al genitore, se il tempo di attesa previsto – di due anni – fosse stato rispettato, avrei assorbito la cittadinanza di mia madre durante il mio diciassettesimo anno di età. Così non fu. Passati tre anni, mia madre diventa cittadina italiana, mentre io, nata e cresciuta in Italia, avendo nel frattempo compiuto 18 anni, devo procedere con una richiesta di cittadinanza autonoma, continuando a vivere come extracomunitaria provvista di permesso di soggiorno. 

Naturalmente, per fare chiesta di cittadinanza, è necessario non avere commesso reati: ma chi lo assicura, allo Stato italiano, che da zero a tre anni, io non sia stata una pericolosa baby criminale? Giustamente, mi viene chiesto di dimostrarlo. Mentre immagino una baby gang di poppanti in pannolino e passamontagna, mi rendo conto che non si tratta di una battuta geniale, ma della burocrazia italiana. Allo scopo di produrre un documento che attesti la mancanza di processi a mio carico, eventualmente esperiti nei miei primi tre anni vita, io e mia madre ci ritroviamo nella questura di Banja Luka, in Bosnia. Lei non sa come metterla giù… come lo spiega che non è uno scherzo? L’impiegato, però, la tranquillizza: «Ho capito, è per l’Italia. Non si preoccupi, non è certo la prima volta che ci capita».

Dopo esserci procurate il documento e averlo fatto tradurre, ho tutto l’occorrente per procedere. Qualche mese dopo, vengo finalmente convocata per il colloquio che suggellerà l’inoltro della domanda. Mancano pochi giorni a Natale, nell’ufficio festeggiano le imminenti feste. L’impiegato, mentre mangia patatine, trascrive a computer la presentazione che devo formulare a voce, aiutata dalle sue domande guida. Trovo l’ultima domanda particolarmente divertente: «Ha contribuito al prestigio e all’esaltazione dell’Italia con la produzione di opere d’arte o d’intelletto?». Vorrei rispondergli: «Lasci che finisca l’Accademia di Brera, e non farò altro!», ma mi trattengo, come sempre, rispondendo con un «no» artificiosamente neutrale, indifeso, con una sfumatura di indegnità. Quando mi allunga il foglio per verificare la correttezza dei dati anagrafici, le macchie di unto lo rendono traslucido in più punti, fornendo agli errori grammaticali presenti nel testo un supporto perfettamente adeguato. Una volta fuori dall’ufficio, so che all’inoltro seguiranno due, forse tre anni di attesa. 

Ne passano quattro, poi cinque. Al sesto anno, oltre ad aver appena terminato l’accademia, ed essere pronta ad esaltare l’Italia con ogni mia opera d’arte e di intelletto, ricevo finalmente notizie: la mia pratica era andata perduta, e dopo uno stallo di anni, in cui immagino che le macchie di unto si siano espanse su tutta la pratica, rendendola illeggibile, ha finalmente raggiunto una scrivania del ministero. Quelle che ricevo, però, non sono buone notizie, anche se vengono pronunciate dalla prima voce umana e coinvolta: ho appena finito di studiare, e non risulto associata ad alcun reddito. Mia madre, infatti, è rimasta senza lavoro. «Non conta il reddito del mio compagno?», chiede mia madre. «No, purtroppo non conta». All’epoca non erano sposati. Eppure, il suo reddito contava quando dovevo calcolare l’Isee per le tasse scolastiche. La voce gentile ci incoraggia a cercare di ottenere un reddito cui associarmi. Di lì a poco, mia madre riceve una proposta di lavoro come colf da un industriale disposto ad accompagnarla dai sindacati per formalizzare l’assunzione necessaria alla mia pratica di cittadinanza. Due giorni prima della stipula del contratto, l’industriale, che aveva 100 anni, muore. Sua figlia, venuta a conoscenza dei propositi del padre, decide di sostituirsi a lui, assumendo mia madre e consentendomi di ricevere, qualche mese dopo, il decreto di cittadinanza. Ma non finisce qui. Ieri, rovistando tra vecchie email nella mia casella Outlook, sono incappata nel capitolo finale di questa epopea, perfettamente rappresentato dalla mail che inviai al prefetto il 18 aprile 2013: 

Gentile Prefetto,
le scrivo in merito all’imbarazzante e urgente questione della mia cittadinanza e del suo misterioso svolgimento. Il 19 dicembre ho ricevuto la cartolina che mi informava in merito al decreto, che il giorno dopo sono andata a ritirare presso il mio comune di residenza, Mandello del Lario. La responsabile alle pratiche di cittadinanza, mi ha informato che il decreto era scritto al maschile (mentre io sono una donna), e mi ha detto di chiedere in prefettura – quando sarei andata a ritirare il decreto originale – come risolvere la questione. Il giorno stesso mi reco in prefettura ed espongo il problema relativo all’attribuzione del sesso: mi viene rivelato che, effettivamente, l’errore è stato fatto dalla prefettura di Lecco sei anni fa, quando presentai la domanda, ma che sarebbe stato sufficiente allegare al decreto di cittadinanza la fotocopia del mio certificato di nascita. Torno in comune di Mandello del Lario, consegno alla responsabile il decreto e il certificato di nascita, lei guarda il calendario per capire quando potrebbe avere luogo il giuramento, mi dice infine che mi avrebbe telefonato entro pochi giorni per fissare la data e concludere tutto ENTRO il 10 gennaio. Non ricevo nessuna chiamata, così l’8 gennaio le telefono io, sentendomi rispondere, “sono tornata ieri dalle vacanze, se magari mi dai il tempo di riprendermi, ti chiamerò più avanti”. 

Aspetto invano per altri 10 giorni, nessuna telefonata. Il 21 gennaio mi reco di nuovo personalmente in comune (specifico che non sono domiciliata a Mandello del Lario ma a Milano), e mi sento dire, con mia grande sorpresa, che improvvisamente il giuramento non si può fare, perché, improvvisamente, la responsabile ritiene che l’errore non possa essere aggirato semplicemente con la certificazione di nascita (ha quindi cambiato idea senza per altro informarmene) ma mi assicura che ci avrebbe pensato lei a contattare la prefettura e che mi avrebbe richiamata a breve. Continuo a non ricevere telefonate, così l’11 febbraio torno in comune: questa volta, l’impiegata sostiene che la prefettura di Lecco non risponde da tre settimane al telefono, ma che avrebbe continuato a provare e mi avrebbe fatto sapere. Il 28 febbraio ricevo finalmente una telefonata in cui mi comunica che l’errore è stato trasmesso al ministero per essere rettificato. Il 18 marzo vado nuovamente in comune per avere notizie, lei mi dice che la prefettura di Lecco non ha ancora comunicato niente, mi riconsegna la documentazione (il decreto e il certificato di nascita) e mi suggerisce di andare personalmente in prefettura. Il 19 marzo, in prefettura, mi viene detto che attendevano quella documentazione da settimane, che avrebbero inviato un sollecito al ministero e mi avrebbero telefonato non appena la questione si fosse risolta.

Avendo perso fiducia nelle telefonate e spaventata dall’avvicinarsi della scadenza del decreto, torno in prefettura il 2 aprile: mi viene detto che a causa delle vacanze pasquali probabilmente non si è ancora mosso nulla a Roma, ma che appena si avranno notizie verrò informata. Ora, le vacanze pasquali sono finite, il mio decreto sta per scadere senza che io abbia ancora potuto fare il giuramento a causa di un errore che non mi compete (vorrei sottolinearlo), la responsabile del comune di Mandello del Lario ha mantenuto per mesi un atteggiamento ambiguo, rallentando l’iter e venendo meno al suo dovere (non informandomi mai tempestivamente e procrastinando all’infinito), io non posso davvero permettermi di far scadere questo decreto, l’ho atteso per SEI anni, sono nata 24 anni fa in Italia, la mia lingua madre e la mia cultura sono italiane, e mia madre che è nata in Bosnia Herzegovina è diventata cittadina italiana prima di me, quattro anni fa. Settimana scorsa ho discusso la mia tesi specialistica, avendo appena finito di studiare non ho un lavoro che mi possa fornire la documentazione di reddito richiesta per formulare un’altra domanda di cittadinanza. Inoltre, come tutti sanno, trovare un lavoro in regola a tempo indeterminato per un giovane neolaureato è attualmente IMPOSSIBILE, per questo sto progettando di trasferirmi all’estero, ma non posso farlo finché non risolvo questa situazione indecente ma soprattutto ingiusta. Io ho fatto tutto quello che dovevo e potevo fare, se anche potessi fare ancora qualcosa LA FAREI, ma mi sento completamente impotente.

La ringrazio dell’attenzione, sperando con tutto il cuore che serva a qualcosa,
in fede,
Rada Koželj

Naturalmente, non ricevetti alcuna risposta. Tornai in prefettura, dove un’impiegata mi accolse con disappunto, poiché per risolvere la mia situazione avrebbe dovuto disturbare una collega assente: «Mi metti in una situazione imbarazzante. La mia collega è in lutto, è morta sua suocera. Non posso chiamarla per una cosa del genere. Vabè, dai, facciamo così…», prese una biro e arricchì con una costellazione di asterischi il testo del decreto. In fondo scrisse una postilla: “leggere al femminile”. Che trovata pazzesca. Cinque mesi di arrovellamenti per arrivare a questa sofisticata soluzione. Mi domandai come avrebbe reagito l’impiegata del Comune. Quando il giorno dopo le allungai il decreto pasticciato, mi sorrise con complicità e fissò la data della cerimonia. Sarà proprio lei che, qualche settimana dopo, indossando la banda tricolore sul petto, in vece del sindaco, mi farà giurare sulla costituzione italiana, per poi commentare, con enfasi: «È stata dura…ma ce l’abbiamo fatta».

Immagine: dettaglio dall’opera di Koželj “Ti si sav moj bol/Sei tutto il mio dolore”, tecnica mista su stampe fotografiche, 2013

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