Cultura | Arte
Cindy Sherman e l’arte del selfie
Una retrospettiva alla National Portrait Gallery di Londra celebra l'artista che da 45 anni fotografa se stessa travestita da qualcun altro.
Untitled #92 by Cindy Sherman, 1981 courtesy dell'artista e Metro Pictures, New York
Cindy Sherman ha 65 anni ed è una bellissima donna. Non è facile capirlo, perché ha trascorso gli ultimi 45 anni a travertirsi e modificare completamente il suo aspetto indossando maschere, colla, peli, siliconi, protesi, nasi finti, frammenti di manichini, per poi fotografarsi da sola nel suo studio di Hudson Square, a New York. In occasione della sua prima grande retrospettiva nel Regno Unito, dal 27 giugno alla National Portrait Gallery di Londra, la rivista The Gentlewoman le ha dedicato la storia di copertina del numero 19 (lo Spring Summer Issue di quest’anno): a fotografare l’artista, che in una delle due cover riveste i panni di se stessa (un evento rarissimo: perfino sul suo meraviglioso profilo Instagram – al quale il New York Times ha già dedicato un lungo articolo, “The Ugly Beauty of Cindy Sherman’s Instagram Selfies” – non fa che giocare con filtri e deformazioni), sono stati i fotografi di moda olandesi Inez e Vinoodh. Il risultato è un numero che, accostato alla mostra – continuerà fino al 15 settembre – celebra una delle più importanti artiste viventi, nonché l’autrice di una delle fotografie più pagate della storia, “Untitled #96″, scattata nel 1981 e battuta all’asta da Christie’s l’11 maggio 2011 per 3.890.500 dollari.
Tutte le fotografie di Sherman si intitolano “Untitled #numero”, ma si sviluppano in serie a cui viene facile dare un nome: i Society Portraits, le Sex Pictures, la Clown Series (le prime foto realizzate dall’artista dopo l’11 settembre). Sherman inizia a fotografare già mentre frequenta il Buffalo State College – inizialmente vorrebbe specializzarsi in Pittura, poi decide di spostarsi nel dipartimento di Fotografia: secondo il preside, che la fa retrocedere al dipartimento di Arti Visive, tale indecisione è indice di pigrizia e confusione, racconta su The Gentlewoman – la prima serie a vedere la luce viene realizzata tra il 1977 e il 1980.
Si chiama Untitled Film Stills e ha per protagonista lei stessa, nei panni dell’eroina tipica del film noir: sola in cucina o al buio in mezzo a una strada, aspetta di essere uccisa, non si sa da chi né perché e non esiste ovviamente alcun film da cui il frame è stato estratto. Mettendo in scena una serie di personaggi archetipici della storia del cinema degli anni ’40, ’50 e ’60, dai B-movie a Hitchock, da Antonioni alla Nouvelle Vague, Sherman mostra un’acuta comprensione dell’immaginario a cui di volta in volta si ispira: l’inquadratura, il look, il paesaggio, l’ambientazione. Lo sguardo del soggetto, però, non è mai rivolto verso l’obiettivo, e si mantiene spento, freddo e lontano. Nel 1995 il MoMA ha acquistato la serie per 1 milione di dollari. Così come nelle Affinità elettive di Goethe Ottilie rivela il suo amore nei confronti di Eduard dimostrando di saper riprodurre perfettamente la sua calligrafia, Sherman ricrea l’atmosfera di certi film e vi si immerge, scatta, e poi torna a galla nel formato di un’immagine.
Travestirsi da qualcuno o qualcosa e scattarsi una foto. Continuare a farlo col passare dei mesi, degli anni e dei decenni. È la reiterazione a trasformare un gesto apparentemente ludico, ozioso in una forma d’arte? Travestirsi, recitare e fingere, interpretare un’infinità di ruoli diversi significa nascondersi, annullarsi, o esplorare il concetto di identità? L’apparenza inganna o cambia completamente come percepiamo noi stessi e come ci percepiscono gli altri? Se immagino di essere come qualcuno e mi infilo nei suoi panni divento quella persona per qualche istante, mi avvicino in quale modo a lei, o rimango un’immagine senza spessore, schiacciata sulla superficie della carta fotografica o di uno schermo? Sono solo alcune delle domande che ruotano intorno alle 150 immagini raccolte dalla National Portrait Gallery: la mostra si concentra esclusivamente sui ritratti/autoritratti di Sherman, che nel corso del tempo hanno modificato l’immaginario al quale ispirarsi, virando dal cinema alla società americana, la pubblicità, l’arte e la moda.
I concetti alla base dell’indagine di Cindy Sherman – il travestimento, la finzione, la manipolazione della propria identità – oggi sono praticamente esplosi: i frammenti si trovano ovunque. Ci si può perdere su Instagram guardando i video di make-up artist incredibili che utilizzano il trucco per trasformarsi in modo sconcertante (potrei citarne mille, scelgo Salvia, un’artista geniale di 18 anni, assoldata da Rick Owens per occuparsi del make-up per la sfilata della collezione Fall Winter 2019): del rapporto tra moda e body modification avevamo già parlato qui. E a proposito di moda c’è il tema della mostra del Met, il camp, che tra i suoi punti fermi ha proprio l’abuso del travestimento e dell’artificio, la fusione tra alto e basso (anche se non tutti i Vip, al Met Gala, sembravano averlo capito). A causa di questo amore per l’innaturale, Sherman potrebbe essere definita come l’antitesi di Nan Goldin, l’altra grande fotografa americana: se nelle sue foto Goldin ha celebrato una nuova forma di famiglia, che le chiama «la sua tribù» – scattava i suoi amici mentre facevano sesso, li seguiva con la macchina fotografica fin sul letto di morte: autentica, genuina, disperata, affettuosa, sincera – nelle sue foto Sherman è sempre da sola, e fredda, falsa, artificiale, segreta, terrificante.
Sempre su Instagram, molte influencer vedono crescere i loro follower “soltanto” grazie ai selfie (che ormai sono lontani dal semplice auto-ritratto scattato col telefono e diventano sempre più sofisticati). Stupido dire che non sanno fare niente: non è vero. Dimostrano invece di sapere interpretare con più o meno successo, attraverso brevi video e fotografie, un dato personaggio, o magari nessun personaggio, se non quello della giovane ragazza in cerca di attenzioni, che si veste e si traveste prima di tutto per fotografarsi e pubblicare le sue foto (Amalia Ulman è stata una delle prime, oggi ce ne sono migliaia, cito le mie preferite: @sagg_napoli e @yungelita). Un ruolo, quello della “attention seeker” che potrebbe significare una nuova forma di consapevolezza: forse un’evoluzione – difficile dire in che direzione – dello “spettacolo vivente della ragazza giovane” di cui si parlava già nel 2012.
Anche tra gli artisti che rappresentano l’Italia alla Biennale d’Arte di Venezia, a cura di Milovan Farronato (l’avevamo intervistato qui) c’è una delle tante figlie adottive di Sherman. Se non fosse morta il 16 agosto 2017, a 39 anni, Chiara Fumai avrebbe continuato a esplorare attraverso il suo corpo e la sua voce i personaggi che sceglieva di interpretare, o meglio, impersonificare attraverso la performance (alcune delle sue azioni e delle sue opere sono state recentemente rimesse in atto a New York, qui si può scaricare il catalogo della mostra). Durante la sua performance più conosciuta, Fumai interpretava una serie di personaggi, da Harry Houdini alla Dogaressa Elisabetta Querini, declamando il manifesto della S.C.U.M. (Society for Cutting Up Men) pubblicato nel 1967 da Valerie Solanas (la donna che cercò di uccidere Andy Warhol, un personaggio emblematico splendidamente raccontato da Olivia Laing nel suo Città sola).
Sherman non si è mai esibita in pubblico e non si è mai dichiarata “femminista”. Le sue immagini sono vaghissime, aperte: scatenano nello sguardo di chi le osserva un’atmosfera emotiva indecifrabile, al limite tra una strana familiarità – la citazione, il già visto, il conosciuto e riconoscibile – e un’inquietudine profonda. «Le opere di Sherman», scrive Heidi Julavits su The Gentlewoman, «sono versioni grottescamente familiari delle maschere che indossiamo per fronteggiare il mondo». Bombe inesplose che contengono un senso di minaccia. L’abisso più insondabile è quello che offre di sé soltanto la superficie. Che senso ha questa immagine? Perché sembra sospesa, mi respinge e fa paura? C’è forse di mezzo qualcosa di perverso, una qualche forma di violenza? Sì, certo. Ma c’è anche molto di più: le parole arrivano fino a un certo punto, poi è meglio far parlare le immagini.