Intervista all'autore di Gomorra, al lavoro adesso su M.: con lui abbiamo parlato dello sciopero degli scrittori hollywoodiani, del dominio delle piattaforme e del suo lavoro con Sorrentino e Bellocchio.
Si sa: sul nome degli sceneggiatori incombe il destino della seconda fila. Eppure, nel 2025 del cinema italiano c’è un nome che ricorre una volta, poi due, poi tre (e non solo nel 2025, a dire il vero). È quello di Ludovica Rampoldi, romana, classe 1979. Che per gli standard al rovescio a cui siamo abituati verrebbe per istinto da annoverare tra i “giovani”, ma che è attiva in realtà da quasi vent’anni.
Di Rampoldi si trova lo zampino in un po’ tutta le grandi produzioni dell’ultimo decennio. È tra le creatrici delle serie 1992, 1993 e 1994, ma nella serialità annovera pure la collaborazione alla sceneggiatura delle prime tre stagioni di Gomorra e quel piccolo cult che è The Bad Guy, scritta assieme a Giuseppe G. Stasi e Davide Serino.
Con quest’ultimo e Stefano Bises – altri due pesi massimi della tv italiana, ci sono loro dietro il miracolo di M – Il figlio del secolo – ha messo poi la firma anche a Esterno notte di Marco Bellocchio. Una collaborazione, quella con Bellocchio, che Rampoldi ha rinnovato dopo averci già lavorato in occasione de Il traditore nel 2019 (per cui si è aggiudicata il David di Donatello alla Miglior sceneggiatura).
Tracce che lasciano una scia che sprofonda fin dentro il cuore del 2025, quello che a oggi è l’anno in cui Rampoldi è arrivata di più e in più vesti sugli schermi. Il 13 novembre è al cinema con Il maestro, di cui è sceneggiatrice assieme al regista Andrea Di Stefano. Il 17 dicembre con Primavera, esordio al lungometraggio di finzione di Damiano Michieletto, tra i registi teatrali più noti d’Europa. In mezzo a questi due, il 27 novembre, è uscito Breve storia d’amore, ancora un esordio alla regia, stavolta però proprio di Rampoldi.
Il maestro sorride e piange
Insomma, novembre è il mese in cui ci siamo accorti di quanto e come la sua penna sia presente nel cinema popolare, ma di spessore, italiano, con questo trittico di modi diversi di concepire storie e racconti di largo consumo. Per il pubblico, ma in equilibrio di pancia e testa, di sentimento di gioia e amarezze comuni.
Missione a cui assolve Il maestro, film in bilico tra anime. Dove il tono leggero e scanzonato di Raul Gatti (Pierfrancesco Favino), promessa dello sport mai mantenuta e ora insegnante di tennis, con la battuta sempre lì pronta e un sorriso da farfallone scivola nel tono cupo con cui ancora Raul cade nei meandri oscuri di pensieri autodistruttivi, calandosi in bocca una pasticca dopo l’altra.
In mezzo, Di Stefano e Rampoldi ci mettono l’Italia che sogna il successo, che accarezza il miraggio del grande colpo sulla cresta dello yuppismo e delle tv berlusconiane. Ci mettono i sacrifici e le aspirazioni di cristiani qualunque, ci mettono le questioni di soldi da fare e mai fatti e le questioni lasciate irrisolte. E improvvise malinconie spalancate sul mare.
Primavera di vita
Anche con Primavera tornano un mentore e un’allieva. Lui è Vivaldi (Michele Riondino), lei Cecilia (Tecla Insolia). Michieletto allestisce un duetto in costume elegante e asciutto nella compostezza di una messa in scena in penombra, mentre Rampoldi ne fa una storia di emancipazione – più individuale che femminile – a partire dal romanzo Stabat Mater di Tiziano Scarpa, edito nel 2009.
C’è il rapporto di forza e di precario equilibrio tra i generi. Cecilia è un’orfana irrequieta dell’Ospedale della Pietà a Venezia nell’inizio del Settecento, in cui le giovani vengono iniziate alla musica e la domenica suonano per l’élite aristocratica della città e dell’Europa. (Vi ricorda qualcosa? Gloria! di Margherita Vicario, ma sono due film diversi). Vivaldi è invece un prete consumato da una malattia cronica che lo fa cagionevole e da una ancora più cronica: l’ambizione di grandezza che non può ammettere ad alta voce.
Breve storia d’amore e di corna
Di entrambi questi due film c’è qualcosa in Breve storia d’amore. De Il maestro la tonalità aspra della commedia, di Primavera i fili che governano la precarietà delle relazioni. Rampoldi impasta poi tutto al dramma di cuore e di corna. Un racconto che si sviluppa negli incontri e negli impacci, che cammina sulle ortiche di due relazioni insoddisfatte che si intrecciano fino al rischio di mandarsi in frantumi a vicenda.
Da una parte ci sono Lea (Pilar Fogliati) e Andrea (Andrea Carpenzano), sposini millennial con figlia piccola. Dall’altra Rocco (Adriano Giannini) e Cecilia (Valeria Golino), sposi invece cinquantenni dagli hobby pittoreschi. Due coppie borghesi che si dicono le cose a metà e si lasciano appesi, fino a quando Lea si stanca dell’evasività di Andrea – che è convinta la tradisca – e una sera avvicina Rocco in un bar. Lui si schermisce, ci pensa, ma poi ci casca con tutte le scarpe.
Forse sotto c’è di più, forse no, o forse ancora sì. È un racconto a due (che ogni tanto si apre a quattro), ma Rampoldi fa condurre le danze a Lea, affidando a Fogliati la cifra particolare del film. Da lei emergono tic e modi da tempo comico anche quando Breve storia d’amore le fa stringere sopra un velo più ombroso con cui le costruisce addosso il sospetto di una sorta di “psicosi”, l’idea che dietro la scappatella d’amore lei sia in realtà artefice di una trama più subdola. Un tono interessante, tra veleno inoculato a lento rilascio e un’ironia caustica. Un secondo inizio per la sceneggiatrice.
