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Una piazza Craxi in ogni città

Riabilitare il leader socialista è difficile perché significa ammettere colpe: un'intervista a Mattia Feltri, giornalista e autore di Novantatré, un diario di Tangentopoli.

di Studio
20 Gennaio 2017

Il 19 gennaio del 2000 Bettino Craxi moriva ad Hammamet, in Tunisia, colpito da un arresto cardiaco. A quasi vent’anni di distanza, ieri il sindaco di Milano Beppe Sala ha dichiarato di essere «favorevole ad aprire il dibattito» sull’intitolazione di un luogo pubblico all’ex premier, una delle figure più divisive (se non “la”) dell’intera storia repubblicana. Per parlare del leader socialista abbiamo raggiunto Mattia Feltri, oggi firma de La Stampa e, all’epoca di Tangentopoli, giovane giornalista investito –come tutti – dall’onda d’urto di Mani Pulite. A dieci anni dall’inchiesta del pool, nel 2003, Feltri aveva pubblicato sul Foglio un diario che raccontava quelle vicende col senno del poi, mettendone in evidenza le evoluzioni e le contraddizioni. L’anno scorso ha riunito buona parte di quegli articoli in un libro uscito per Marsilio, Novantatré

ⓢ In occasione del diciassettesimo anniversario della morte di Craxi, il sindaco di Milano Sala ha aperto alla possibilità di dedicargli l’intitolazione di un luogo pubblico a Milano, dicendo «Io sono favorevole a riaprire il dibattito». Come giudichi questa presa di posizione?

Fa onore al sindaco di Milano, ma temo non ci siano molti spazi di discussione civile e serena. Perché attorno al nome di Craxi si gioca o si giocherebbe ancora la noiosissima partita fra giustizialisti e garantisti, e soprattutto nella desolante declinazione che abbiamo conosciuto in questi anni. Dovremmo semplicemente decidere se la Prima Repubblica è stata un’associazione per delinquere, e allora nessuna intitolazione, o se è stato un regime che ci ha tenuto nella democrazia contro i totalitarismi fascista e comunista, e allora una piazza in ogni città. E siccome Craxi finanziava, coi soldi delle tangenti, gli antifascisti sudamericani e gli anticomunisti dell’est europeo, per quanto mi riguarda, una piazza Craxi in ogni città. Ma non credo sia aria, questo è un Paese che tiene più in conto una sentenza del tribunale che una sentenza della storia.

ⓢ Leggendo il tuo libro, Novantatré, risulta palese come il 15 dicembre del 1992 tutti corsero a distanziarsi da Craxi, anche – per non dire soprattutto – chi gli doveva fortune politiche e non. Tu che hai vissuto quei giorni da reporter, cosa puoi dire di quell’Italia che scopriva avvisi di garanzia e manette? Che cos’ha, soprattutto, in comune con quella di oggi?

Era un’Italia incredula e allibita, perché la classe dirigente si credeva intoccabile e il popolo, passami il termine, sciatto, sentiva l’odore del sangue. È stato come se le pecore potessero finalmente assistere allo sterminio dei lupi. Quella classe politica aveva stancato, aveva esaurito il suo ruolo, e serviva un ricambio. L’incredibile è che sia stata spazzata via come una banda di delinquenti, quando i reati erano stati commessi in un periodo storico obiettivamente straordinario: ricordiamo il Pci mantenuto per decenni dai soldi di Mosca, e i partiti filoatlantici che si difendevano come potevano. Poi ci furono derive e assurdi arricchimenti, ma il cuore del problema era un altro. E ricordiamo che il debito pubblico fu accumulato non con le tangenti ma per garantire all’Italia un tenore di vita – fatto di welfare, esorbitanza della pubblica amministrazione e tolleranza dell’evasione fiscale – che non ci si poteva più permettere. Da allora, e fino a oggi, sopravvive una meravigliosa mitologia per cui una piccola casta ruba soldi e futuro a un popolo probo e laborioso, mitologia confermata da inchieste giudiziarie che spessissimo finiscono in nulla, o comunque ampiamente ridimensionate.

Bettino Craxi

ⓢ Sempre Sala ha detto che quella di Craxi è «una storia difficile». In cosa risiede maggiormente la “difficoltà” della vicenda di Craxi, secondo te? Come ha fatto a diventare suo malgrado sinonimo di corruttela, come se a lui fosse toccato in sorte di pagare le colpe di tutti?

La storia di Craxi è difficile perché Craxi aveva ragione ed Enrico Berlinguer aveva torto. E pochi vogliono ammetterlo. Bisognerebbe leggere Il desiderio di essere come tutti, il libro di Francesco Piccolo che spiega gli abbagli di una generazione comunista o filocomunista per conformismo e sentimentalismo. Ma quasi nessuno ha l’onestà intellettuale e lo spessore culturale di Piccolo per dire che aveva ragione Craxi. Dovrebbero dirlo Massimo D’Alema, che negli anni Ottanta andava al funerale di Leonid Breznev, o Walter Veltroni, che sostiene di essersi iscritto al Pci in quanto anticomunista. Bisognerebbe ammettere il clamoroso paradosso storico per cui nel 1993, a sfidarsi per i comuni, e nel 1994, per il governo, erano essenzialmente ex comunisti ed ex fascisti, cioè gente il cui fallimento era noto, e ormai certificato con la fine del Secolo breve.

ⓢ Sui giornali l’iniziativa di Sala è stata accolta da commenti che contengono espressioni come «maturità politica» e «pacificare la memoria». Ma c’è chi, oggi, è ancora restio a valutare Craxi col dovuto distacco critico: perché?

Come accennavo prima, nessuno ha interesse a riabilitarlo, perché parlare di Craxi oltre le inchieste giudiziarie equivale a dire che i presupposti della Seconda Repubblica – cioè che un potere fu abbattuto in quanto criminale per instaurarne uno onesto – sono falsi. Una barzelletta raccontabile soltanto in Italia, e che si continua a raccontare per via grillina. Ma del resto l’Italia è il Paese che vive nell’equivoco della questione morale di Berlinguer, che in quella famosa intervista non parlava di tangenti, forse perché, come dimostrano i verbali dell’Istituto Gramsci, sconosciuti a tutti, nel Pci se ne prendevano almeno fin dall’inizio degli anni Settanta.

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ⓢ Di recente mi è capitato di vedere su YouTube L’alternativa dei garofani, un talk show ante litteram del 1983, andato in onda dieci anni prima di Tangentopoli. In un salotto marcatamente borghese Craxi, Ronchey, Guttuso, Strehler, Arbasino e Lucio Dalla conversano di futuro della sinistra e possibili alleanze dei socialisti con uno stile, un vocabolario e una profondità d’analisi che oggi sarebbe arduo non definire “d’altri tempi”. L’appiattimento sulle fortune o sfortune pubbliche è nel destino di ogni politico, ma di Craxi – del Craxi persona, intendo – che idea ti sei fatto?

Quei dibattiti appartengono a un altro tempo, e io non ho mai avuto il pregiudizio dell’età dell’oro. Però penso che Craxi sia stato l’ultimo statista con una visione dell’Italia e del mondo. Ora nessun politico ha una visione così ampia e articolata, ma forse perché semplicemente non è più richiesto. E se ne vedono i risultati.

Nelle immagini: Bettino Craxi nel 1987 e in compagnia del presidente della Commissione Ue Jacques Delors nel 1985 a Milano (Keystone/Getty Images)
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