Cultura | Dal numero

La fusion fiction di Bernardine Evaristo

Intervista all’autrice di Ragazza, donna, altro, romanzo corale con 12 protagoniste vincitore del Man Booker Prize 2019.

di Laura Pezzino

Credit: Penguin Books

Quando Bernardine Evaristo ha incominciato a scrivere il suo ultimo libro Ragazza, donna, altro (Sur, traduzione di Martina Testa), ha capito che le serviva un termine nuovo per definirlo. La sua scelta è ricaduta sulla formula “fusion fiction”, dove «tutto è fuso insieme, le storie e le frasi, l’interiorità e l’esteriorità», mi dice dalla sua casa di Londra, dove vive con il marito. Quarta di otto figli nati da una madre inglese bianca e un padre cresciuto in Nigeria ed emigrato in Gran Bretagna alla fine degli anni Quaranta, Evaristo ha 61 anni e scrive da sempre, dai tempi dei drammi composti per la compagnia teatrale di sole donne nere che aveva fondato all’inizio degli Ottanta, fino alle poesie, i saggi e i romanzi (questo è l’ottavo) che sono seguiti. «Nel libro precedente, Mr Loverman, c’era un personaggio che parlava in una specie di lingua ibrida che mi era piaciuto molto scrivere. Così, per questo libro, ho deciso che avrei usato soltanto quella forma, che trovavo molto liberatoria anche se non sapevo se avrebbe funzionato». E invece lo ha fatto: nel 2019 con Ragazza, donna, altro ha vinto, prima donna di colore, il Booker Prize (pari merito con I testamenti di Margaret Atwood), tra i suoi fan ci sono Obama, Roxane Gay e la prima ministra scozzese Nicola Sturgeon, e, oggi, il suo è il romanzo da leggere se vogliamo capire come sta evolvendo una certa parte della letteratura. In realtà, essere quella che taglia per prima il traguardo non è per lei una gran novità: dopo il Theatre of Black Women, aveva inanellato una serie di altri primati (del genere: “La prima donna di colore a”) e aperto una pluralità di strade a favore dell’inclusione di artisti e scrittori di colore nel discorso pubblico: «A parte vincere il Booker, che non era in mio potere, ho sempre fatto quello che ho fatto perché volevo cambiare le cose. Ma non ho mai veramente pensato “sono la prima a farlo”: quello l’ho razionalizzato solo di recente e riflettendo sul passato».

Ragazza, donna, altro è un romanzo polifonico composto dalle voci di 12 donne di colore di classi, provenienze e orientamenti sessuali diversi, tutte costellate attorno ad Amma, drammaturga lesbica e sessantenne che, all’inizio del libro, sta per debuttare con lo spettacolo L’ultima amazzone del Dahomey, una rilettura del mito delle Amazzoni interpretato solo da attrici di colore, al National Theatre di Londra, tempio della britannicità più bianca. Un fatto rivoluzionario, prima ancora che un riconoscimento. Da lei che, rinnovata Mrs Dalloway, cammina per la città e ripensa alla genesi di una carriera rimasta fino a quel momento nei sotterranei, si irradiano le storie interrelate tra loro delle altre donne, ognuna delle quali dà il proprio nome al capitolo di cui è epicentro. C’è Yazz, la sua fortissima figlia adolescente, Dominique, la super fascinosa migliore amica, Bummi, che va a pulire nelle case degli altri, sua figlia Carole che mutilandosi l’identità è diventata una donna d’affari. E poi Shirley, insegnante pedante e conservatrice, sua madre Winsome donna sommessamente esplosiva, Megan che si fa chiamare Morgan, e così via fino a Hattie, che a 93 anni non si vuole allontanare dalla fattoria dove ha lavorato tutta una vita.

Al cuore di Ragazza, donna, altro si trova un vasto sistema radicale, sia interno che esterno, il cui impatto prorompente non può essere disgiunto dal contesto in cui è venuto al mondo, ossia mentre sul pianeta si stavano propagando le spore dei movimenti collettivi MeToo e Black Lives Matter. Dice Evaristo: «Entrambi hanno, prima di tutto, influenzato la cultura. MeToo ha significato il revival del femminismo, mentre Black Lives Matter ha risvegliato l’interesse per il problema razziale. Improvvisamente, nella nostra società, essere una donna di colore è diventato interessante e, attraverso i social, che ormai dettano l’agenda dei media mainstream, le giovani donne di colore hanno potuto trovare una propria piattaforma. Oggi, a differenza dell’individualismo imperante di qualche tempo fa, le persone parlano di “comunità”. E questo vale soprattutto per le più giovani». Un po’ come Kamala Harris, la vice presidente degli Stati Uniti eletta che nel suo primo discorso ha detto «sono la prima, ma non sarò l’ultima», anche Evaristo ritiene fondamentale il passaggio di testimone tra generazioni. Per questo è molto attenta, e attiva, sui social: nel suo romanzo, alla diciassettenne Yazz che si ribella alle idee politiche della madre, mette in bocca una frase letta sul profilo di una giovane attrice: «Io mi definisco umanista, che è un concetto molto più alto di femminismo». «Ricordo di essermi chiesta: di che cosa sta parlando questa ragazza? Credo che dica molto sul rapporto tra generazioni differenti».

Ragazza, donna, altro

Vincere un premio come il Booker è stato di sicuro un traguardo importante per chi, fino a ieri, era stata tenuta fuori da certe stanze e considerata «altro», come recita anche il titolo del romanzo: «C’è il mainstream e poi ci sono loro, “gli altri”, che a seconda delle situazioni sono le donne, le persone di colore, i gay, gli immigranti, la working class. Ho scelto quella parola anche perché, nel libro, c’è un personaggio non binary, che non si considera né donna né uomo, e in qualche modo volevo abbracciare anche lui».

Dopo il riconoscimento pubblico che cosa è rimasto, in lei, di quella “alterità”? «Tutto dipende sempre dal contesto. In quello letterario, ora faccio parte del mainstream e ne sono felice, ma allo stesso tempo mi sento chiamata a cambiare l’establishment dal di dentro. Fuori dalla letteratura, invece, continuo a essere “altro”: donna in una società patriarcale, persona di colore in una società a maggioranza bianca».

Fin dai tempi del teatro delle donne nere raccontare la diaspora africana è diventata la sua missione come scrittrice: «Non c’era niente del genere allora, e se vuoi essere un’attivista devi creare quello che manca, per riuscire ad avere il controllo sul mondo che vuoi rappresentare. Se sei una minoranza devi dare un nome a quello che stai facendo». In effetti, gran parte di Ragazza, donna, altro ruota attorno a quel fenomenale costrutto umano chiamato «albero genealogico»: più di una protagonista, a un certo punto della propria vita, ne avverte il richiamo come è accaduto anche a lei stessa: «Nel 2009, per il mio romanzo Lara mi sono messa a fare ricerche sulla mia famiglia. Dal lato paterno, che conoscevo meno, ho scoperto di avere origini brasiliane. Da quello materno, sono risalita ad antenati tedeschi. È stato principalmente un modo per dare un senso alla mia presenza in questo Paese».

«Oggi, a differenza dell’individualismo imperante di qualche tempo fa, le persone parlano di “comunità”. E questo vale soprattutto per le più giovani»

Appare piuttosto evidente che il territorio nel quale si muove la poetica di Evaristo è quello della molteplicità, anche quando si tratta dei modi in intendere il femminismo. «Nel mio romanzo ci sono donne femministe, altre che non lo sono, altre ancora che non ne afferrano il significato, altre che lo intendono a modo loro. Il femminismo, oggi, è totalmente eterogeneo, viene definito in modo diverso da persone diverse e io stessa, a volte, non concordo con alcune di queste interpretazioni. Per questo credo che il femminismo intersezionale sia l’unico a potere sostenere tutti gli altri, per via della sua inclusività e perché è quello che le giovani donne oggi sentono come proprio». Ignorando lo stereotipo che vuole le donne dei romanzi relegate a un mondo esclusivamente domestico o intimo-sentimentale, in Ragazza, donna, altro Evaristo fa della sfera lavorativa femminile uno dei perni delle vite delle sue protagoniste: «Poiché nessuna di loro appartiene alle classi privilegiate, per guadagnarsi da vivere hanno tutte bisogno di lavorare e, di conseguenza, le loro identità vengono definite anche dal loro lavoro. Del resto, non è forse così che accade nella vita reale? È ridicolo, e limitativo, che questo aspetto non compaia quasi mai in letteratura». In Ragazza, donna, altro è pertanto la stessa potenza riformatrice dei contenuti (femministi, antirazzisti, intersezionali, inclusivi) a richiedere una rinnovata forma della scrittura, coagulatasi in quella “fusion fiction” che può essere descritta come un oggetto ibrido composto da frammenti legati tra loro senza punti a slegarli, una prosa poetica più flessibile e potente di quel flusso di coscienza codificato all’inizio del secolo scorso poiché permette all’autore di entrare e uscire continuamente dalla testa dei personaggi per andare ovunque, nel passato e nel presente, e in una vastità geografica che va da Brixton a Barbados.

A tale proposito, Evaristo conclude: «Ritengo
che la letteratura, almeno per quel che riguarda
il modo in cui scriviamo i romanzi, sia piuttosto conservatrice, soprattutto se paragonata alle
arti visive che, rispetto a cento anni fa, sono radicalmente cambiate. La maggior parte dei romanzi è, invece, codificata: frasi, paragrafi, capitoli, una certa lunghezza. Per me è sempre stato difficile restare dentro questi parametri. Sono una a cui è sempre piaciuto sperimentare, il mio background, del resto, è nella poesia. Mi piace l’avventura che questo implica, come scoprire la forma che riuscirà a raccontare la mia storia nel miglior modo possibile. Questo non significa che non apprezzi certe opere più convenzionali, che possono anche essere a loro modo geniali, ma resto convinta che non siano quelle che spingeranno avanti l’arte, che la faranno evolvere».

La storia letteraria delle donne è un gigantesco puzzle con molti pezzi tuttora mancanti. A completarlo, dalle periferie – che per quel fenomeno chiamato gentrificazione si stanno sempre più assimilando al centro – sta arrivando un numero crescente di voci, che sono «nuove» soltanto perché finora rimaste inascoltate. Alcune di queste, come nel caso di Bernardine Evaristo, sono portatrici di un diverso tipo di narrazione che, procedendo per piccoli atti di eversione, porta in primo piano il concetto di comunità che, attraverso la comunanza, il sostegno e lo scambio intergenerazionale, interrazziale e interculturale, e un sentimento vivo della memoria, riuscirà forse a fare esplodere quello che è considerato il tradizionale simbolo del femminile, il cerchio, in qualcosa che, in un certo senso, gli è addirittura superiore: la rete.