Cultura | Dal numero

Gli incontri eccezionali di Beatrice Monti von Rezzori

Intervista alla gallerista, conversatrice, mecenate, amante della letteratura che oggi cura il Premio von Rezzori e una residenza per artisti.

di Claudia Durastanti

La prima volta che sono stata nella residenza per scrittori di Beatrice Monti della Corte von Rezzori lei non arrivava mai, e ho capito che dovevo essere io ad andare. Mentre salivo le scale che portavano al suo studio, l’assenza della padrona di casa ma la sua personalità manifesta in ogni angolo mi ha fatto sentire un’invitata alle feste di Jay Gatsby. Prima ancora di vedere Beatrice seduta sul suo divano bianco, l’ho vista negli oggetti, nei quadri, nelle foto degli antenati armeni, nei passaggi bruschi e quasi labirintici di quella villa selvatica e ottomana, in tutti i dettagli fisici che cospirano per rivelare il suo carattere, senza tradirne il mistero. Proprio come gli arredi di Gatsby e i libri della sua biblioteca potevano dire qualcosa su di lui, mentre lui restava altrove, eluso. Hanno in comune la mitologia, la cospirazione, ma c’è una differenza radicale: Beatrice Monti non soffre di nostalgia.

Sono andata in quella residenza per scrivere e tradurre, eppure durante il mio primo soggiorno a Santa Maddalena ho fatto poco: qualsiasi storia avessi in mente di scrivere, qualsiasi personaggio avessi voluto creare, Beatrice lo avrebbe sconfitto. Come dimostra la vibrazione gatsbiana che ho avvertito nell’incontrarla la prima volta, questa donna è, ad oggi, tra le persone più romanzesche, indisciplinate e avventuriere che io abbia mai incontrato. E così in quei giorni non ho lavorato molto, ma l’ho ascoltata.

Nella sua vita è stata una gallerista, una conversatrice, una mecenate rinascimentale, una cacciatrice di storie, un’amante della letteratura, ma amante in senso pieno, fisico, tanto che della letteratura alleva i vizi e i fantasmi ospitandola nella sua casa, e con il Premio Von Rezzori che cura da molti anni, si occupa anche della sua alleata più affidabile: la traduzione. Questa è l’ultima conversazione che abbiamo avuto al telefono e come sempre c’è un’onda che spazia nel tempo e mai si inabissa nel rimpianto, una consapevolezza feroce di sé che non solo invidio, ma sembra appartenere a un mondo che non esiste già più. C’è una frase di Deborah Levy che fa pensare a certe parti di Beatrice: «È la viandante, la vagabonda, l’émigré, la rifugiata, deportata, la chiacchierona, la mina vagante. A volte vorrebbe stabilirsi da qualche parte, ma la curiosità, il dolore e la disaffezione glielo proibiscono». Questa è la premessa. Il resto è nella sua voce.

ⓢ Se aspetti ti faccio vedere la vista dalla mia finestra, c’è tutta Roma.
Forse non lo sai ma io sono nata lì.

ⓢ Sei nata al Coppedè!
A un certo punto ho pensato che tra le varie case mi sarei ritirata lì. Il Coppedè mi ha lasciato uno strano senso di appartenenza a Roma, mia madre è morta in quella casa quando avevo sei anni, c’è sempre stato un cordone ombelicale con quella zona. Forse questo ha accentuato il mio gusto per l’orientalismo. Poi è venuta la guerra, poi ho sempre lavorato, e non c’è stata più l’occasione di avere qualcosa a Roma, e un sogno è rimasto.

ⓢ Quando hai aperto la Galleria dell’Ariete hai scelto Milano e non Roma.
Milano era la capitale culturale. Ho cominciato con la Galleria del Sole diretta da una donna molto bizzarra, Daria Guarnati. Era l’editrice di Aria D’Italia, si occupava di arte, e stranamente pubblicava Malaparte. Ha fatto uscire La pelle e Kaputt. Malaparte era un caro amico. È stato lui a dirmi: «Vai a Milano a vedere che succede». Prima ho chiesto alla Guarnati se le serviva qualcuno che capisse un po’ d’arte; per lei la casa editrice era un gioco. In tempi giovanili era stata l’amante di Gio Ponti. Questo è importante perché la galleria, pur non essendo sontuosa, era molto ben disegnata. Aveva un’entrata molto grande, ad arco, disegnata proprio da Ponti. Milano è una città molto più spettacolare per quello che non si vede che per quello che si vede. Dietro un portone qualsiasi c’è sempre un giardino, un colonnato. E la galleria aveva un bel cortile a via di Sant’Andrea, una bellissima strada piena di librai e macellai, prima che arrivassero le scarpe e la moda.

Beatrice con Franco Russoli e Michel Tapié.

ⓢ E quand’è che è diventata tua?
Dopo due anni ho capito che era un mestiere adatto a me. Ero giovane, imparavo in fretta e sapevo che andava fatto in un altro modo. È stato complicato ma avventuroso. Per diventare socia della Galleria del Sole, investendo due milioni, avevo venduto degli orecchini di mia madre. La Guarnati voleva chiudere, ma per farlo doveva ridarmi i soldi; li cercava disperatamente. Intanto a pranzo andavo da Bagutta e mi univo ai letterati che mangiavano alla stessa tavola. Ero un po’ anomala là in mezzo, ma ho raccontato del mio problema, ho spiegato che volevo quel posto, che ci ero affezionata e volevo farne qualcosa di diverso. Allora io e i letterati abbiamo escogitato un sistema; non so se fosse onesto. Si sono presentati dalla Guarnati dicendo che volevano rilevare la galleria per farci un club di letture e lei ha detto «va bene, ve lo do per due milioni». Quei due milioni li ho tirati fuori io facendomeli prestare, loro glieli hanno dati e li ho riavuti. È stato divertentissimo, c’era un po’ di intrigo e questo ha segnato il mio modo di lavorare: serio ma con un certo senso dell’umorismo che non mi è mancato mai e ho sempre cercato nei miei interlocutori.

ⓢ Quando hai capito che stava andando bene?
Era tutto un batticuore, non si sapeva mai. Non potevo avere i grandi pittori e invece li ho avuti. Una delle prime mostre che ho fatto era di Tàpies, il grande pittore spagnolo allora agli esordi. Tra gli addetti ai lavori si sapeva chi era bravo. E poi avevo un grande amico e sostenitore, Lucio Fontana. Era una delizia totale, pieno di umorismo, un grande sperimentatore. Ma era anche buffo, perché sembrava il direttore di una banca, con quelle scarpe lucide e le camicie impeccabili.

Beatrice con Lucio Fontana davanti alla “Fine di Dio”

ⓢ Ricordami il foulard di Mario Schifano.
Schifano girava con dei bei foulard di seta. Elegantissimo, seducente. Una volta l’ho visto con un foulard che pendeva molto dalla tasca e mi sono chiesta come facesse a stare in quella posizione. Volevo fare una verifica, così l’ho tirato fuori con garbo e ho visto che era fissato con una spilla. Da quel momento mi è un po’ scaduto, lui e la sua arte. Era uno che studiava il suo aspetto, Fontana non studiava il suo aspetto. Continuava a essere quello che era sempre stato.

ⓢ Prima di incontrare Grisha von Rezzori, com’era il tuo rapporto con la letteratura?
Ottimo. Ho avuto subito scrittori in galleria. Montale abitava all’angolo, con Ungaretti ho fatto cataloghi e presentazioni in versi; Calvino passava di lì a vedere che c’era di nuovo. I giovani poeti come Tadini venivano tutti i giorni. Per me il miscuglio tra arte e letteratura è stato istantaneo. Non mi affidavo molto ai critici d’arte per le introduzioni, se potevo chiedevo ai poeti. I cataloghi erano modesti, c’erano pochi soldi, ma visti nell’insieme formano un documento interessante.

ⓢ È come se intuissi sempre quando iniziare e quando finire. Come quando ti alzi da tavola e ti ritiri presto anche se gli altri continuano a fare festa.
Dopo 25 anni ho chiuso la galleria. Era il 1980 e nel frattempo mi ero sposata con Grisha. Era una persona importante nella mia vita, non solo perché era mio marito. Non voleva venire a Milano e ho intuito che il mio matrimonio poteva essere in pericolo, non si sta così separati troppo a lungo. Ricordo che camminando per la strada mi son detta: «Ho fatto il massimo che posso fare, è ora di cambiare». Ricevetti una lettera furiosa dal mio grande amico e collaboratore Leo Castelli. Chiudere non è stato un atto di eroismo, è stato un atto di impazienza, ma anche di saggezza. Castelli mi scrisse: «Hai fatto la cosa più stupida della tua vita. Nel giro dei prossimi sei mesi noi mercanti d’arte faremo tanti soldi, diventeremo miliardari e tu non avrai niente». È andata così. Mi sono rimasti un po’ di quadri con cui ho un po’ vissuto, e con cui vivono gli scrittori che vengono qui.

ⓢ E poi sono cominciate altre vite.
Ma senza un eroismo straordinario dietro. Io sono cosmopolita non solo dal punto di vista filosofico, fisicamente ho un sacco di sangui. Sono nata sapendo tre o quattro lingue, i miei genitori erano misti. Italiani e inglesi da parte di padre, francesi, armeni e tutta l’area balcanica da parte di madre. Fare la moglie di Grisha era un fatto logico, anche se lui era meno mescolato di me. La sua famiglia di origine italiana era finita nelle lande più remote dell’Impero e questa è stata la sua fortuna, gli ha dato lo yiddish, il rumeno. Ho chiuso senza sapere cosa avrei fatto dopo. In quel periodo andavamo sempre a New York, vivevamo lì parte dell’anno, era la mia città. C’era Alexander Lieberman, la figura centrale di tutto il gruppo Condé Nast. Mi ha introdotto nel giro dei russi e io mi sono sempre sentita a mio agio con gli sconosciuti interessanti.

ⓢ Anche lui ti ha insegnato un mestiere.
Era molto invidiato e odiato per la sua posizione sociale e culturale. Non faceva la vita di un artista, era elegantissimo, riceveva solo persone interessanti; è stato lui a dare una vera impronta culturale a Condé Nast. Un piccolo emigrato russo di alta qualità. Gli avevo suggerito di mettere una pagina ben fotografata su un americano d’avanguardia in ogni numero di Vogue, e così è diventata una vetrina importante per l’arte. Lieberman voleva farmi diventare “un’idea person”, dovevo trovare un soggetto divertente in qualsiasi campo potesse andar bene per le riviste.

Beatrice con Tancredi Parmeggiani in galleria

ⓢ Il pezzo su Jeff Koons e Cicciolina è nato così?
Due personaggi così diversi. Durante una Biennale Lieberman mi aveva detto: «Senti, ci sono questi due che vivono insieme e non parlano la stessa lingua. Perché non li inviti a cena?». Alla cena è venuto solo Karl Lagerfeld, che sarebbe stato il fotografo del servizio. Aveva fatto arrivare un piccolo aereo pieno di rose rosse e modelli neri. Dovevano fare da sfondo a Cicciolina nuda e Koons in mezzo alle rose.

ⓢ E poi l’hai aiutata a dimettersi dal Parlamento.
Sì, voleva scrivere una lettera di dimissioni e io l’ho aiutata a sistemarla. Diceva che era stata eletta dagli italiani come simbolo della trasgressione e della libertà e che ormai era una donna di casa, stava per diventare madre, era sposata e non rappresentava più le ragioni per cui era stata votata. E per questo voleva dare le dimissioni. Una lettera abbastanza nobile secondo me.

ⓢ Hai citato tante influenze ma non Chatwin.
Era più giovane di me, semmai io ho influenzato lui! Era come un figlio adottivo. L’altro giorno ho chiesto a un mio collaboratore quali fossero i suoi autori favoriti e mi ha detto «Manzoni e Bruce Chatwin». Che combinazione bizzarra. Bruce era un ottimo scrittore per quello che faceva, ma aveva i suoi limiti, e lo sapeva anche lui. Era un raccontatore di viaggi elegante, era curioso, aveva occhio per il dettaglio, ma non è Shakespeare e non è Byron.

ⓢ Però Santa Maddalena come residenza nasce anche grazie a lui.
Mi ha messo la pulce nell’orecchio. Ha scritto The Black Hill qui nella torre. Diceva: «Questo è un posto per gli scrittori». Per la bellezza, per la calma, per la stranezza. Quando è morto Grisha ho capito che dovevo farci qualcosa. E chi conoscevo bene io? Scrittori e pittori. Era una soluzione logica: se ci fai caso in ogni stanza c’è un angolo per scrivere, c’è sempre la luce giusta. Io raccolgo le occasioni, ho avuto la gran fortuna di vivere e di lavorare in un certo modo. Vengo dai drammi, da un padre sparito in Africa e poi prigioniero di guerra, che è tornato quando avevo diciassette anni. Ho dovuto arrangiarmi da sola, una grande solitudine. Ma crescere a Capri non è stato male, c’era una grande libertà di scelta.

Beatrice a 12 anni con Curzio Malaparte in Etiopia

ⓢ Una ragazzina amica di Curzio Malaparte.
Malaparte si trovava in Etiopia con mio padre, era stato spedito lì perché dava fastidio al regime. Rischiava la prigione con facilità pur di dire una cosa spiritosa. L’ho conosciuto in Etiopia a dodici anni, e l’ho rivisto tanti anni dopo. Ad Anacapri c’era la casa della mia matrigna, l’avevano usata per mandarci gli ufficiali in viaggio di nozze. Dopo la guerra ci sono tornata da sola e l’ho trovata devastata, con le chewing-gum appiccicate ai muri. La prima persona che ho visto è stata Malaparte, mi ha dato un grande abbraccio. Era estremamente entertaining, si sforzava di divertire una ragazzina sola proprio come avrebbe fatto con un gruppo brillante di interlocutori. Mi ha lasciato un gran gusto per le persone diverse.

ⓢ Una vita fatta da città cosmopolite come New York o Milano o da luoghi impervi. Capri è un’isola. Santa Maddalena un posto poco addomesticato.
Ma sono anche luoghi molto belli. Non faccio sconti sulla bellezza dei posti. Chi ci abita è un altro discorso. Ma il posto deve essere bello. Come gli uomini.

ⓢ Con Grisha hai trovato entrambe le cose.
L’ho scelto anche per spirito di contraddizione. Tutti mi dicevano è un uomo meraviglioso, ma non è un marito. Lui stava dai Feltrinelli quando veniva a Milano. Un giorno Giangiacomo è venuto a farmi il discorso più borghese che abbia mai sentito: «Quest’uomo è meraviglioso, è super intelligente, è un esteta fantastico, ma non è una persona da sposare. Te lo dico da amico: continuerà a essere infedele, a fare debiti». È stato il migliore marito possibile. Certo, non aveva soldi, ma quando ce li aveva era generoso con tutti. Era molto divertente, aveva molto cuore, ma era insofferente verso la noia, proprio come me. L’ho incontrato a Villa Feltrinelli. Sapevo chi era, lo avevo visto in televisione, avevamo amici in comune. C’era una specie di curiosità. Il giorno dopo è venuto in galleria. Aveva scarpe bellissime ma era senza calze e le chiavi della macchina in mano con una zampa di volpe attaccata. «Posso invitarla a colazione?» e io ho risposto: «Purtroppo non posso, vuole venire lei a prendere un caffè? Abito qui davanti».

ⓢ Hai sempre cercato di avere scrittori che scrivevano di spazio, viaggio, movimento. Chissà adesso.
Tra un po’ di anni parleremo di cosa accadrà ed è accaduto. Ognuno la prenderà a modo suo. Certi eventi possono creare cambiamenti nel carattere. Affrontarla con umorismo sarà difficile, ma magari ci saranno anche i lati modesti di questa esperienza che verranno raccontati. In realtà penso molto a come verrà raccontato Trump. Per divertirmi in questi giorni immagino la sua uscita fisica dalla Casa Bianca. Lo vedo in un elicottero, dovrà fare così. Trump è un personaggio raro persino tra i criminali.

ⓢ Anche in questo momento di grande stasi, non stai vivendo solo di passati.
L’avvenire cerchi di inventartelo, anche se ci sono confini molto stretti. Posso controllare quello che accade da qui al limite del mio giardino, non posso andare neanche in paese. Invento qualcosa dentro altri confini, trovo risorse nei libri, ho ospitato scrittori anche durante la pandemia.

ⓢ A sentirti parlare si capisce che né tu né Grisha avevate un animo malinconico, nonostante le migrazioni, gli sradicamenti.
La malinconia è bella, ma è una cosa privata, non la imponi agli altri.