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Chi sono i 20 artisti del 2020

Come ogni anno, Artsy, il più grande player nel mercato dell’arte online, ha elencato i più influenti del mondo.

di Germano D'Acquisto

© Deana Lawson

Se un anno fa ci avessero detto che nel 2020 il mondo dell’arte (ma anche quello della finanza, della politica, della moda, del cinema e l’elenco potrebbe continuare all’infinito) sarebbe stato stravolto da un virus e da un gruppo di attivisti, saremmo scoppiati a ridere. Eppure è andata proprio così. L’anno che sta per finire sarà infatti ricordato come il grande spartiacque, il padre di tutti i crinali, la discriminante fra quello che c’è stato prima e quello che ci sarà dopo. L’arte è stato uno dei settori che più di tutti ha sofferto i vari lockdown. La pandemia ha messo in ginocchio musei, gallerie e biennali scuotendo fin dalle fondamenta l’impalcatura su cui si era retto l’intero sistema per decenni. Poi il movimento Blake Lives Matter ha dato l’ultimo scossone, stravolgendo strutture e regole, spesso dominate da ingiustizia e razzismo latente.

Il contatto fra virus e movimenti antidiscriminazione ha scatenato una vera e propria fusione nucleare. Gli effetti dirompenti sono stati confermati da Artsy, il più grande player nel mercato dell’arte online con oltre 800mila opere provenienti da più di quattromila gallerie, che come ogni anno ha sfornato l’elenco dei venti artisti più influenti del mondo. Un parere piuttosto autorevole, dato che la piattaforma, fondata dallo studente Carter Cleveland nel 2008, è considerata dagli addetti ai lavori una sorta di Spotify dell’arte, che ogni mese spinge quasi duemila galleristi a pagare tra i $425 e i $1000 per essere membri del marketplace. Il Dream team coinvolge star che provengono da ogni angolo del globo. Ci sono videoartisti, performer, scultori, pittori. C’è l’assente più onnipresente di tutti, Banksy e l’inglese Grayson Perry. C’è la cinese Liu Ye e la sound artist Christine Sun Kim, che all’ultimo Superbowl aveva lasciato tutti di stucco in occasione della sua performance. C’è la nativa americana della tribù degli Apsáalooke, Wendy Red Star e il libanese Tarek Atoui. Ma la fetta più consistente della torta è costituita dagli artisti black o di origine afroamericana. Come Patrisse Cullors, la fondatrice del movimento Black Lives Matter. Classe 1983, nata a Los Angeles ma cresciuta a Pacoima, un quartiere della San Fernando Valley, è stata costretta a lasciare casa a sedici anni dopo aver rivelato ai genitori la sua identità queer.

«La mia pratica artistica è un’estensione dei miei valori politici», ha spiegato Patrisse che quest’anno ha dato vita al Crenshaw Dairy Mart, vero e proprio centro di gravità permanente della cultura black. Il CDM è infatti un’innovativo spazio creativo pensato come una sorta di deposito della cultura locale. Qui, nei giorni della pandemia e delle proteste, sono state organizzate raccolte fondi per gli artisti in difficoltà e realizzati i kit di rifornimento artistico per i bambini delle scuole locali. In un anno in cui virus e razzismo hanno fatto chiudere gallerie e istituzioni, Cullors ha aperto la strada a nuove opportunità, reinventando gli spazi culturali e trasformandoli in luoghi di accoglienza. Più che influente, Artsy la definisce addirittura rivoluzionaria.

Anche la 94enne californiana Betye Saar a suo modo ha fatto la rivoluzione. Protagonista nel 1997 di una spettacolare antologica alla Fondazione Prada, crea arte attraverso veri e propri “flussi di coscienza” che esplorano il misticismo che si cela dietro le storie e gli oggetti tutti i giorni. Elementi chiave della sua poetica sono l’interesse per il metafisico, ma anche la rappresentazione della memoria femminile e l’identità afroamericana. Identità che è pure alla base dell’opera della sudafricana Zanele Muholi, 48 anni, il cui lavoro si concentra soprattutto su razza, genere e sessualità, incentrando l’attenzione sulla comunità LGBT di colore.

Dall’Africa arriva anche la nigeriana Toyin Ojih Odutola, casa e laboratorio a New York. 35 anni, astro della pittura di oggi, firma ritratti multimediali il cui tema di fondo è sempre la discriminazione razziale. I suoi disegni sono sempre (o quasi) dominati dal nero, associato sì al colore della pelle, ma visto più come oggetto sociopolitico che come elemento meramente biologico. Nel 2020 il Covid non è riuscito a fermare l’ascesa di Toyin, che a giugno, ha esposto sul sito della galleria di Jack Shainman l’esibizione online Tell Me A Story, I Don’t Care If It’s True, composta da una serie di disegni prodotti durante il lockdown. Un mese dopo ha presentato alla National Portrait Gallery di Londra l’apprezzatissimo ritratto della scrittrice Zadie Smith, immortalata a braccia conserte e con le gambe accavallate. Ad agosto ha portato al Barbican di Londra l’ambizioso “A Countervailing Theory” incentrato sul confronto fra  oppressi e oppressori. Mentre a novembre è stata la stella più luminosa della collettiva I’m yours: Encounters with Art in Our Times all’ICA Boston. Il 2021 si annuncia per lei uguale al 2020: tanto che a febbraio il suo trionfale “A Countervailing Theory” traslocherà al Kunsten Museum of Modern Art di Aalborg, in Danimarca.

Nella hit list c’è poi Frank Bowling, 86 anni. Nato in Guyana, passaporto britannico, da una vita crea quadri riconducibili all’espressionismo astratto che tanto sarebbero piaciuti a Willem de Kooning. Pochi hanno avuto un 2020 più denso del suo. Nominato cavaliere dalla regina Elisabetta II, ha firmato un megacontratto con la galleria Hauser & Wirth (che gli dedicherà una personale l’anno prossimo). Nel 2019 la Tate Britain lo aveva onorato con una retrospettiva. «In tutta la sua vita», hanno ricordato i figli, «nostro padre ha mostrato dedizione e tenacia unici di fronte agli ostacoli, incluso il dover affrontare gli stereotipi legati alle origini».

Titus Kaphar, classe ’76, è nato nel Michigan ma risiede nel Connecticut. I suoi dipinti e le sue sculture invece si ispirano al passato, soprattutto al Rinascimento, ma ci svelano tutte le contraddizioni del nostro presente. Se per il 90% delle persone il 2020 è stato un annus horribilis, per lui si è rivelato annus mirabilis. Ad aprile è entrato a far parte della scuderia Gagosian. E durante gli scontri per la morte di George Floyd il Time ha scelto un suo lavoro, “Analogous Colors”, per raccontare sulla sua cover l’America di quei giorni. Impressionanti anche le quotazioni. Da Sotheby’s il quadro “Page 4 of Jefferson’s “Farm Book” (2018) è stato battuto a 854.900 dollari, quasi il triplo della sua stima iniziale di 300.000 dollari. Lo stesso è avvenuto poco tempo dopo da Phillips, quando Alternate Endings del 2016, valutata 103.000 dollari, è stata venduta a 604.000 dollari, sei volte tanto.

41 anni, educatrice e artista, la newyorkese Deana Lawson è considerata una delle fotografe più interessanti della sua generazione. Negli ultimi dieci anni ha lavorato intorno ai temi dell’intimità, della famiglia, della spiritualità, della sessualità e dell’estetica black, firmando ritratti iperdettagliati. Paragonata a mostri sacri come Diane Arbus e Jeff Wall, quest’hanno ha vinto l’Hugo Boss Prize, il prestigioso premio istituito dal Guggenheim. Di lei hanno detto che è in grado di offrire «un nuovo modo di guardare e immaginare». Merito dei suoi ritratti di persone nere, spesso in ambienti domestici, dove il concettuale si fonde al documentario, l’onirico al realismo più estremo. Lo scorso giugno alla Kunsthalle di Basilea in Svizzera ha inaugurato Centropy, uno dei suoi progetti espositivi più importanti. A settembre ha ritratto l’attivista Angela Davis per la copertina digitale di Vanity Fair. Nella primavera del 2021 terrà una mostra personale al Guggenheim Museum di New York. Mentre il suo Centropy, che avrebbe dovuto far parte del programma della Biennale di San Paolo 2020, rinviata per il Coronavirus, verrà presentato in Brasile il prossimo settembre. Un mese dopo l’ICA Boston le dedicherà una mostra-tributo con tutte le sue opere più importanti. Un privilegio riservato solo ai più grandi.