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Dopo il Mondiale, l’Argentina vincerà anche l’Oscar?

Argentina 1985, candidato dall'Academy come Miglior film internazionale, racconta il processo alla giunta militare di Videla e la dolorosa riconciliazione che il Paese ha dovuto affrontare nei successivi quarant'anni.

di Germano D'Acquisto

Il 2023 non sarà un anno come tutti gli altri per l’Argentina. Non tanto perché il Paese ha buone chance di prolungare i festeggiamenti post Mondiali mettendo in bacheca anche il premio Oscar con il film di Santiago Mitre, Argentina 1985. Ma per un motivo più simbolico e, molto probabilmente, più importante. Quest’anno ricorrono infatti i quarant’anni anni dalla fine della dittatura dei militari. Quarant’anni vissuti pericolosamente, fra crisi economiche e rischi di bancarotta, ma pur sempre in libertà. Non una cosa banale per una terra che nell’ultimo secolo è stata guidata più da dittatori che da uomini democraticamente eletti.

Era il 10 dicembre 1983 quando il presidente Raùl Alfonsìn, il Parlamento e le amministrazioni locali democratiche rientrarono finalmente in carica dopo sette anni di regime oppressivo. Quella data sarebbe poi diventata ufficialmente il Giorno della restaurazione della democrazia. La luce dopo il buio della guerra sucia, come la chiamano da queste parti. Un programma di repressione violenta attuato dai militari con lo scopo di eliminare la cosiddetta “sovversione” attiva dal 1970 e, più in generale, qualunque forma di dissidenza presente nell’ambiente culturale, politico, sociale, sindacale e universitario. «Vogliamo restituire i valori essenziali che costituiscono la base per la gestione integrale dello Stato, enfatizzando il senso di moralità, idoneità ed efficienza, indispensabile per ricostruire il contenuto e l’immagine della Nazione, sradicare la sovversione e promuovere lo sviluppo economico della vita nazionale fondata sull’equilibrio e sulla partecipazione responsabile dei diversi settori, al fine di assicurare la successiva instaurazione di una democrazia repubblicana, rappresentativa e federale, adeguata alla realtà e alle esigenze di soluzione e progresso del popolo Argentino», spiegavano alla nazione il generale dell’esercito Jorge Rafael Videla, l’ammiraglio, Emilio Eduardo Massera, il comandante delle forze aeree Orlando Ramón Agosti, la mattina del 24 marzo del 1976, giorno del colpo di Stato (il sesto del secolo).

Ancora oggi, tutto in Argentina sembra accartocciarsi attorno a quel periodo cupo e, di conseguenza, a quel primo giorno di pace. Una sorta di anno zero, dove tutto ha avuto inizio (la democrazia) o tutto ha avuto fine (la dittatura). Dipende dai punti di vista. Letteratura, musica, teatro e ovviamente il cinema sono diventati col tempo vere casse di risonanza e hanno riportato a galla i particolari di quella brutale campagna repressiva condotta al di fuori di ogni controllo legale. La cultura, dunque, ancora una volta diventa chiave per arrivare alla verità. E il cinema, in tale contesto, ha sempre fatto la sua parte. Tanto che gli unici due film argentini vincitori dell’Oscar – La storia ufficiale di Luis Puenzo dell’85 e Il segreto dei suoi occhi di Juan José Campanella del 2009 – affrontano direttamente o indirettamente questa tragedia. Una tragedia che ha contato 40 mila vittime, tanti sarebbero gli uomini e le donne spariti senza lasciare traccia, i cui corpi sono stati seppelliti in fosse comuni o gettati dagli aerei militari nell’oceano Atlantico. E strascichi che hanno avuto pochissimi eguali nella storia moderna. Già, perché quello che hanno compiuto José Videla e il resto della sua giunta nel loro Proceso de Reorganización Nacional ha prodotto un sofisticato quanto perverso effetto a catena che ancor oggi continua a condizionare le coscienze di intere generazioni. Per due motivi essenziali. Primo, perché dopo l’anno spartiacque del 1983, improvvisamente vittime e carnefici si sono ritrovati a vivere l’uno accanto all’altro come se nulla fosse. L’ex aguzzino e l’ex oppresso nella stessa fila del supermercato o nella stessa sala d’aspetto del dentista. Secondo, perché in quegli anni funesti, moltissimi neonati furono strappati alle madri in prigionia per essere affidati alle famiglie dei militari. E ora quegli stessi figli, oggi tutti quarantenni, sono stati costretti a fare i conti con una realtà che travalica il peggiore dei loro incubi: coloro che li hanno educati, accuditi, cresciuti e, magari, viziati non sono i veri genitori ma i loro assassini. Un po’ come se il riverbero di quell’epoca infettiva fosse davvero senza fine.

Sono passati quarant’anni. E il processo di catarsi di questo Paese tanto vicino al nostro (provate a scorrere quanti nomi italiani ci sono negli elenchi dei desaparecidos) è ancora in pieno svolgimento. Ma in questo quadro dolente, Argentina 1985 rappresenta il culmine del viaggio. Perché il film di Mitre, uscito su Prime Video ma in questi giorni arrivato nelle sale grazie alla candidatura all’Oscar per il Miglior film internazionale, riesce ad affrontare la questione senza alcuna paranoia e con un garbo inedito. Sa maneggiare con cura un materiale emotivo potenzialmente devastante. Segno che il Paese latinoamericano sta diventando maturo ed è in grado di rileggere le pagine più crude del suo passato restando fedele alla sua più recente storia democratica.