Cultura | Dal numero

Essere Sellerio

Insieme alla sorella Olivia, ha ereditato la casa editrice fondata da sua madre e suo padre a Palermo. Abbiamo parlato con Antonio Sellerio di indipendenza e di classifiche, e di Sciascia, Camilleri e Bolaño.

di Cristiano de Majo

L’editoria in Italia è soprattutto una storia di grandi famiglie. Gli Einaudi, i Feltrinelli, i Bompiani, i Mondadori, i Laterza. Storie che a volte affondano le radici in tempi molto lontani, altre volte si dissolvono nelle mega-concentrazioni tipiche del tardo capitalismo o, più prosaicamente, nei più classici bisticci tra eredi. Una storia più recente e abbastanza unica è quella dei Sellerio. La casa editrice fondata a Palermo nel 1969 da Elvira ed Enzo Sellerio – lui fotografo, lei laureata in giurisprudenza ma intellettuale e frequentatrice dei circoli culturali palermitani – rappresenta per molti motivi uno dei casi-studio più interessanti dell’editoria europea. Innanzitutto perché nasce, cresce – e da lì non ha intenzione di muoversi – a Palermo, diventando così esempio più unico che raro di imprenditoria culturale di successo nel sud Italia. Poi, perché dal boom di Camilleri in avanti, fa presenza fissa nelle classifiche annuali dei libri più venduti, coi suoi giallisti glocal, Malvaldi, Manzini e gli altri; un vecchio pallino, quello del giallo, ispirato dal gusto di Leonardo Sciascia e arrivato a influenzare ormai la produzione culturale nazionale. Accanto a questa produzione più nota, Sellerio è una casa editrice che non ha mai smesso di esercitare un lavoro di ricerca più raffinatamente letterario, che ha portato alla pubblicazione di libri cult come Notturno indiano di Antonio Tabucchi o alla scoperta di Roberto Bolaño e poi, più recentemente, all’importazione di autori-Zeitgeist della narrativa americana come Ben Lerner o Hanya Yanagihara. Alla morte di Elvira nel 2012, la responsabilità della casa editrice è passata ai figli, Olivia e Antonio. È con quest’ultimo che abbiamo parlato. Nato nel 1972, capelli rossi, cadenza inconfondibilmente palermitana e foto di sua madre sul profilo WhatsApp, Antonio Sellerio ci è sembrato un personaggio particolarmente giusto per raccontare come si può fare bene l’editore in Italia.

Com’è la tua giornata tipo?
Mi sveglio presto, leggo, perché ho due figli piccoli e, leggendo pochissimo in ufficio, l’unico momento che ho per leggere è la mattina presto, e poi alle 9 e mezza vado in ufficio e inizia la giornata con le cose programmate e non.

Come si sta a Palermo in questo momento?
Tutto sommato abbastanza bene, la città non è efficientissima, ma in questo periodo col fatto che si può stare tanto all’aperto, meglio qui che altrove.

Ma stare a Palermo per la casa editrice è stata una spinta o una zavorra?
Palermo è una città in cui è difficile vivere. E io e mia sorella in qualche momento di scoramento abbiamo anche pensato di lasciarla. Ma se la casa editrice avesse sede in un’altra città non sarebbe quello che è.

Tu sei nato poco dopo la nascita della casa editrice, ti si immagina ovviamente cresciuto in mezzo ai libri…
Sono un fratello piccolo, lei è del ’69, io del ’72. La casa editrice è nella stessa strada dove abitava mia madre. I miei genitori a un certo punto si sono separati e mio padre è andato ad abitare in una casa che fa angolo con i due edifici. La vita della nostra famiglia si è sempre svolta in modo indistinguibile con la vita della casa editrice.

Foto di Alessandro Furchino Capria

Però hai scelto una formazione economica, hai studiato alla Bocconi. Ti senti più un uomo di lettere o di numeri?
Volevo studiare qualcosa che mi desse una possibilità di autonomia. Avevo le idee chiare, sapevo che avrei lavorato in Sellerio, ma volevo trovarmi, a 23 anni, con la possibilità di scegliere un altro lavoro. Poi in quegli anni la casa editrice era in difficoltà economiche e una cosa che percepivo è che i miei genitori mi avrebbero potuto insegnare molte cose, come hanno poi fatto, sul piano editoriale, mentre non avevano una preparazione specifica sugli aspetti più economici. L’aneddoto divertente è che quando poi ho finito l’università, sono tornato a Palermo e ho incominciato a lavorare con mia madre, lei mi correggeva tutti i conti, qualsiasi proiezione commerciale, qualsiasi conto economico, rifaceva tutti i conti con la penna sui miei fogli Excel, cosa che mi mandava in bestia, mentre quando invece parlavo di libri, mi ascoltava con una grandissima attenzione. Col tempo ho capito che lo faceva di proposito, voleva minare le mie certezze, non voleva che io da bocconiano tornassi e commettessi delle leggerezze sentendomi troppo sicuro di me, intanto mi rafforzava sull’aspetto più letterario che io avevo sempre affrontato da lettore, anche se c’ero nato dentro, forse mia madre percepiva in questa cosa delle mie incertezze.

Come avete fatto nel corso del tempo a essere così bravi coi gialli e con autori quasi tutti venuti dal nulla?
È una tradizione della casa editrice, sin dagli anni Ottanta, i gialli erano una passione di Leonardo Sciascia e di mia madre, e sin dall’inizio della collana La memoria, c’erano accanto a romanzi più letterari, gialli molto tradizionali o più contemporanei, c’era Diceria dell’untore di Bufalino e c’era Due rampe per l’abisso di Rex Stout , un giallo ultra-classico, oppure vicino a un altro libro miliare nella storia della casa editrice come Notturno indiano, c’era Assassinio al Comitato Centrale di Manuel Vázquez Montalbán. A questo tipo di romanzo in casa editrice si è sempre cercato di dare la stessa dignità che si dava alla letteratura con la L maiuscola e se questo ora è un po’ più naturale, nei primi anni Ottanta era meno ovvio. Per anni ci sono state delle discussioni tra Leonardo, mia madre e gli altri della casa editrice sull’avviare una collana gialla, ma alla fine si è deciso sempre di non farla perché avrebbe voluto dire ghettizzare il genere. Magari gli avrebbe dato maggiore visibilità, ma al tempo stesso si sarebbe declassato. Questa scelta di “non fare” ce la siamo poi portata fino a giorni nostri.

Si può fare un calcolo di quanto pesa il fatturato dei gialli sul totale della casa editrice?
Onestamente non lo abbiamo mai fatto, ma di sicuro più del 50 per cento.

Mi sembra che sotto la tua direzione abbiate deciso di fare uno spostamento verso un tipo di libri che non erano prima in catalogo, la narrativa americana contemporanea, per esempio, Ben Lerner, Sheila Heti… Quanto è una scelta guidata dal tuo gusto?
In realtà la prima ragione è che una parte essenziale della produzione della casa editrice fino a un certo punto sono stati i recuperi, quindi opere maggiori e minori di tutte le letterature dimenticate, in gran parte fuori diritti, e a un certo punto, con e-commerce ed e-book, la pubblicazione di queste opere è diventata più difficile, tutto è diventato sempre disponibile e il valore di riproporre qualcosa si è fatto sempre più sfumato, perché ormai quasi nulla è del tutto dimenticato o introvabile, quindi questo settore della casa editrice è diventato negli anni sempre meno importante. Sellerio ha sempre avuto una grandissima tradizione nella narrativa italiana contemporanea, con incursioni anche nella narrativa straniera ma meno sistematiche, così a un certo punto ho pensato di farlo in modo più ragionato e costante.

Però la narrativa nordamericana non era praticamente mai entrata nel vostro catalogo.
Per ciò che riguarda Il contesto, che è la nostra collana di narrativa contemporanea, che nasce negli anni Duemila e che poi ha avuto un rilancio nel 2012 col restyling e l’arrivo di Mattia Carratello e Marcella Marini, se avevo dato un’indicazione all’inizio, era quella di battere i territori dell’Estremo Oriente, cosa che però, ti dico onestamente, non ha dato i risultati che mi aspettavo. Abbiamo attinto a tutti i continenti, abbiamo autori tedeschi, francesi, autori del Mediterraneo. Certo gli Stati Uniti meno, prima facevamo tanto Sudamerica, ma era anche collegato al fatto di avere un collaboratore come Angelo Morino, che era davvero un personaggio straordinario, di cui forse la storia della nostra editoria non si è occupata abbastanza. A un certo punto ero stato invitato a ricordarlo e avevo fatto il conto che i libri con il suo zampino nel nostro catalogo erano più di duecento. Alcuni li aveva tradotti, altri erano in collane che lui aveva diretto, altri ancora erano autori che ci aveva suggerito. Angelo Morino è quello che ha portato in Italia Roberto Bolaño, è quello che ha fatto conoscere da noi Alicia Giménez-Bartlett, per fare due nomi.

«Il primo libro di Roberto Bolaño non pubblicato in Italia da noi è un libro dove uno dei quattro protagonisti, Piero Morini, è ispirato ad Angelo Morino, e a un certo punto c’è una telefonata a Elvira Sellerio, capisci»

Quanto brucia perdere un autore come Bolaño, ma penso anche Montalbán, da voi scoperto e poi diventato feltrinelliano?
Il primo libro di Roberto Bolaño non pubblicato in Italia da noi è un libro dove uno dei quattro protagonisti, Piero Morini, è ispirato ad Angelo Morino, e a un certo punto c’è una telefonata a Elvira Sellerio, capisci? È un libro che è stato assegnato ad altri editori dopo che Bolaño è morto, per cui onestamente per me è stato un grande dispiacere.

Dei libri diciamo nuovi di cui parlavamo prima si può dire che il più grande successo sia stato Una vita come tante di Hanya Yanagihara?
Assolutamente sì, siamo intorno a 120 mila copie. Era un libro su cui puntavamo ma non pensavamo che avrebbe avuto questo successo. È un libro che per esempio non è stato così apprezzato dai grandi quotidiani italiani. Molto letterario, con un’autrice super-impegnata difficile da invitare in Italia e che quindi non ha avuto nessuna di quelle tradizionali leve di promozione, ha veramente vissuto grazie al passaparola. Quella del passaparola è ormai diventata una retorica delle narrazioni editoriali, ma in questo caso si può dire: se oggi quel libro vende più di quanto si vendeva l’anno scorso nello stesso periodo, questo non può che essere dovuto al passaparola.

Ogni anno nella classifica dei best seller ci sono libri Sellerio, cosa abbastanza impressionante se si pensa alle vostre dimensioni paragonate a quelle dei grandi gruppi. Quand’è che avete avuto la percezione di poter competere sul piano nazionale coi grandi editori?
Sicuramente il successo di Camilleri… C’è stata la famosa, per noi, estate del ’98, quando le prime posizioni della narrativa italiana erano monopolio di Camilleri. Quel successo fu una grande boccata d’ossigeno perché era un momento di profonde difficoltà finanziarie. La casa editrice aveva già trent’anni di storia, aveva pubblicato libri importanti, però la popolarità di Camilleri ci ha permesso di arrivare in alcune case in cui un libro Sellerio non era mai entrato. Alcuni lettori forse percepivano questa copertina blu con la carta Fabriano come un oggetto così raffinato da essere respingente.

«La casa editrice aveva già trent’anni di storia, aveva pubblicato libri importanti, però la popolarità di Camilleri ci ha permesso di arrivare in alcune case in cui un libro Sellerio non era mai entrato»

Com’è stato vivere la morte di Camilleri?
È stato pesante. Era un autore molto vicino, a mia madre prima, ma poi anche a me e a mia sorella, per cui c’era un rapporto non solo professionale, ma anche umano davvero profondo. Per anni non era venuto a Palermo, ma poco dopo la morte di mia madre decise di venire nonostante gli pesasse entrare in casa editrice e non incontrare mia madre e venne per dare un segnale a me e a tutte le persone che lavoravano qui, voleva dirci che lui era altrettanto presente di quanto non fosse prima, se non di più. Il nostro debito di gratitudine non è solo dovuto al fatto che ci ha sempre considerato il suo editore di riferimento ma anche per il modo in cui questa relazione si è svolta.

Avete mai ricevuto una proposta di acquisizione?
Ci fu un commercialista che in modo molto sgraziato ci contattò all’indomani della morte di mia madre, ma non gli lasciai nemmeno dire per conto di chi chiamasse. Abbiamo sicuramente ricevuto dei segnali, ma abbiamo sempre risposto con il segnale che per noi l’indipendenza è un valore irrinunciabile. La casa editrice deve restare così com’è.

Credete molto nell’indipendenza ma avete, mi sembra, una visione molto laica su una delle questioni più dibattute tra gli editori oggi: lo strapotere di Amazon. A differenza di altri indipendenti, siete presenti su Amazon, così come nei supermercati.
Sono ovviamente due cose diverse. Nella grande distribuzione c’è una fortissima selezione all’ingresso. Personalmente che uno, mentre va a fare la spesa, possa imbattersi in un romanzo che finisce nello stesso carrello insieme agli spaghetti, io la trovo una cosa etica oltre che commercialmente vantaggiosa. Poi ovviamente piace anche a me comprare i libri nelle piccole librerie indipendenti, che cerchiamo di sostenere con ogni mezzo (sono per esempio favorevole alla legge sul prezzo del libro), e in quest’ultimo anno, tra l’altro, proprio le piccole librerie hanno dimostrato una fantasia e un coraggio anche fisico, hanno aperto subito in un momento in cui tutti avevano paura a mettere il naso fuori. Che però il libro arrivi ai lettori nei modi più diversi a me sembra solo auspicabile. Con Amazon i rapporti sono sicuramente difficili, perché è un cliente molto molto esigente, dopodiché uno prova ad averci a che fare.

Foto di Alessandro Furchino Capria

Siete l’unica case editrice italiana a non aver praticamente mai cambiato veste grafica, che è parte del vostro Dna e della vostra riconoscibilità, a differenza di altri editori che, pure avendo un’immagine forte e riconoscibile, hanno fatto scelte diverse. Quanto avete resistito alle spinte di cambiamento e a che esigenze invece risponde la creazione della nuova collana Pro- memoria, che rompe un po’ questo schema di estrema fedeltà alla propria immagine?
A volte ci criticano perché è facile distinguere un libro Sellerio a dieci metri di distanza, ma non è facile distinguere due libri Sellerio tra loro, io però credo che questo tipo di appartenenza possa essere un giovamento per i singoli libri. Venendo alla collana, con oltre 50 anni di storia e un catalogo che si avvicina ai tremila titoli ci troviamo alle nostre spalle una quantità di libri che si meritano di circolare ancora, essere visibili, avere una seconda vita. Non è una questione di pura reperibilità, che ormai con l’e-commerce è un problema superato. Avevamo un ostacolo, che è la collana La memoria, fatta di novità, ma con libri piccoli e prezzo economico, e ci abbiamo ragionato, soprattutto con mia sorella, che poi ha varato il progetto grafico, e abbiamo deciso di sovvertire le regole classiche, facendo un economico non tascabile più grande dell’edizione originale e con una grafica completamente diversa.

Come sono stati questi ultimi due stranissimi anni dal punto di vista di un editore?
Per me non era così scontato che in questo periodo di difficoltà e costrizioni, la lettura costituisse un rifugio. E una volta tanto i governi che si sono succeduti hanno fatto delle cose per il libro, è stato riconosciuto al libro lo status di bene primario, con le librerie aperte, per esempio. Per tutti noi, che lavoriamo in questo settore, avere questa forma di riconoscimento è stato galvanizzante. La ragione di ritorno del libro non è che solo le persone non uscivano e allora stavano a casa a leggere, perché la concorrenza è ormai sterminata. Credo invece ci sia stata una ricerca di solidità che il libro comunica. È il ritorno di un ruolo, ma non è detto che sia definitivo. Dobbiamo essere bravi a non perdere questo vantaggio.